13 Reasons Why dovete guardarlo ADESSO. Ecco perché.


Articolo di Benedetta Geddo
«Ciao, sono Hannah. Hannah Baker. Esatto. Non smanettate sul… qualsiasi cosa stiate usando per ascoltare. Sono io. In diretta e stereo. Nessuna replica, nessun bis, e questa volta assolutamente nessuna richiesta. Mangia qualcosa e mettiti comodo, perché sto per raccontarti la storia della mia vita. Anzi, più esattamente, il motivo per cui è finita. E se tu hai queste cassette, è perché sei uno dei motivi.»
Chiunque si interessi anche solo un po’ di serie tv e intrattenimento in generale sa che non bisognerebbe neanche più stupirsi di quanti prodotti di qualità Netflix riesca a creare in un anno. A parte qualche rara defaillance, ogni sua serie originale è un piccolo gioiello che vince premi a destra e a manca e diventa l’argomento più discusso della settimana in cui vede la luce del Web. Per certi versi, 13 Reasons Why non è differente. Eppure sarebbe sbagliato definire 13 Reasons Why solo come “l’ultima serie Netflix”.
È vero che questi tredici episodi, tratti dall’omonimo libro scritto da Jay Asher nel 2007 e adattato per lo schermo da Brian Yorkey e prodotto da Selena Gomez, sono in linea con la qualità altissima degli altri Originali Netflix. È vero che il cast è perfetto, non solo per quanto riguarda i nomi un po’ più conosciuti come quello di Kate Walsh (Addison Montgomery in Grey’s Anatomy e Private Practice), ma anche e soprattutto per quanto riguarda gli attori adolescenti, che si sono dimostrati all’altezza del ruolo che si sono trovati di fronte. Ma la storia… la storia è su un altro pianeta, anche rispetto a titoli più “impegnati” come Orange Is The New Black.
Mi sembra il momento giusto per avvisare che questo articolo conterrà spoiler, e vi invito davvero a non rovinarvi la visione se avete intenzione di guardare questa serie – e vi invito a farlo prima di leggere questo articolo. Ne vale la pena.
Detto questo, cominciamo con due parole sulla trama: siamo in un anonimo liceo americano di una cittadina di provincia. Una delle studentesse di questo liceo, Hannah Baker, si suicida durante il suo penultimo anno. Dopo una settimana dalla sua morte, a Clay Jensen, segretamente innamorato di lei praticamente da quando si sono conosciuti e forse il suo amico più stretto, arrivano tredici audiocassette, di quelle da ascoltare in un mangianastri, in cui Hannah spiega i tredici motivi che l’hanno spinta a togliersi la vita. Ogni cassetta ruota attorno a una persona che, seguendo le regole da lei stessa spiegate nei primi minuti della prima cassetta, deve ascoltare tutte e tredici le registrazioni per capire quale sia stato il suo ruolo nella sua decisione, per poi passarle alla persona successiva. Clay è il numero undici. Lo spettatore lo segue nei diversi giorni che impiega a sentire tutto, a processare le emozioni e reazioni che le cassette con la storia di Hannah gli provocano, e a fare la sua mossa.
Il motivo per cui questa serie sia così fondamentale e necessaria potrebbe sembrare lampante, ma per me è stato molto difficile buttare giù una serie di punti che dessero un po’ d’ordine al gran caos di pensieri che avevo in testa dopo averla finita, forse perché ci sono tante cose da dire e tanti livelli di narrazione, tanti punti di vista da cui poter osservare la storia. Spesso i personaggi coinvolti dicono che le cassette contengano solo la “verità di Hannah“, la sua versione dei fatti. Ed è vero: forniscono allo spettatore solo la realtà filtrata attraverso il suo sguardo. Sta a noi e agli altri personaggi, decidere se crederle o meno. Probabilmente, i produttori della serie devono essere arrivati alla stessa conclusione poiché hanno aggiunto alla fine un documentario intitolato Beyond the Reasons, che contiene mezz’ora di interviste con il cast e la crew in cui vengono condivisi riflessioni e consigli, io credo anche per aiutare lo spettatore a “disintossicarsi” da una serie che è molto più difficile da mettere in pausa da tutte le altre che io abbia mai visto fino ad ora.
Hannah Baker ha registrato delle cassette per raccontare la sua storia. Io userò invece le parole scritte per spiegare perché la sua storia sia così importante partendo da una domanda, la domanda per la quale tutti cercano disperatamente una risposta: what killed Hannah Baker? Cosa l’ha uccisa?
La prima, grande risposta è questa: rape culture killed Hannah Baker. La serie tocca tantissimi altri problemi molto noti e molto vicini agli adolescenti e ai giovani adulti moderni, ma tutto parte da lì: dalla cultura dello stupro, e dallo slut-shaming che ne fa inevitabilmente parte. È questo sessismo subdolo e sconvolgente a far cadere Hannah nella sua spirale: lei e Justin Foley escono insieme, si fanno un paio di foto per divertirsi mentre sono su in un parco giochi e a fine serata si baciano. Il giorno dopo Justin mostra quelle foto al suo gruppetto di amici atleti: una di queste mostra Hannah che scende dallo scivolo e la sua gonna un po’ alzata che ne lascia intravedere l’intimo. I ragazzi decidono di diffonderla e, in meno di un’ora, Hannah passa dall’essere una ragazza come tante a essere la puttana della scuola.
È dalla foto, innocente esattamente come il bacio con Justin, che nasce tutto quello che Hannah subisce e racconta nei nastri: l’abbandono della sua migliore amica, Jessica Davis; i gossip di Courtney Crimson; le molestie di Marcus Cooley; gli insulti di Zach Dempsey, quando Hannah rifiuta bruscamente di uscire con lui. E come Hannah stessa dice a Mr. Porter, lo psicologo scolastico, «it’s one thing on top of the other»: sono pesi che si accumulano e si accumulano fino a quando diventa impossibile portarli. Fino a quando non scatenano lo stupro, ad opera del personaggio che io ritengo il più pericoloso di tutti, Bryce Walker, che stupra prima una Jessica ubriaca e svenuta, e poi Hannah, la sera prima che quest’ultima si suicidi.
13 Reasons Why urla a squarciagola che non c’è niente che possa scusare uno stupro e ne mostra la gravità devastante senza ritrarsi. Mette in guardia da tutti i Bryce Walker che, ricchi e popolari, sono protetti da uno scudo sociale immenso (Brock Turner ne è l’esempio reale più calzante). E Justin, che non ha fermato Bryce, non ha meno colpe: sarebbe potuto – dovuto! – intervenire. Beyond the Reasons analizza bene questa scena, citando da una parte il bystander effect (l’effetto spettatore), che blocca la reazione di chiunque si trovi ad assistere a un gesto del genere, e dall’altro la degenerazione del bro code (il codice dei fratelli), secondo cui molti ragazzi adolescenti vivono. Bro code e rape culture vanno a braccetto, ed è per questo che serve educazione sul vero consenso, perché non si ripeta un discorso come quello che Bryce fa a Clay: «Mi ha lanciato delle occhiate, quindi lo voleva. Se fare così vuol dire stuprare, allora tutte le ragazze vogliono essere stuprate».
Qui c’è un altro punto a favore di 13 Reasons Why: non ha paura di essere crudo. Non ha paura di trattare temi difficili e mostrare scene forti, incluse lo stupro e il suicidio. Immagini orribili e difficili da vedere, ma che possono essere rappresentate solo in questo modo. Perché 13 Reasons Why non usa la violenza con piacere, ma per tirare al suo pubblico un pugno emotivo necessario a farlo riflettere e a farlo immedesimare nei personaggi della storia: cosa avremmo fatto noi, sicuri dalla nostra parte del computer, al posto di Hannah nella stanza di Jessica? E al posto di Hannah nella vasca idromassaggio?
Alla fine, 13 Reasons Why è sì una serie tv, ma non va considerata come semplice contenuto di intrattenimento: non è divertente guardarla, e neanche vuole esserlo. Se a prima vista sembra possa quasi romanticizzare il suicidio – la ragazza bella e triste che registra cassette che poi vengono ascoltate dal ragazzo che l’ama – poi sbatte sotto agli occhi del pubblico la realtà, la crudeltà e l’infinita solitudine del gesto di Hannah e anche la realtà delle conseguenze che precipitano su chi resta.
Se è stata la cultura dello stupro a scatenare tutti i problemi di Hannah, è innegabile che a portarla alla sua scelta finale siano stati invece bullismo e cyberbullismo, due punti focali di 13 Reasons Why: la serie parla direttamente alle vittime e ai bulli e non minimizza l’impatto che le prese in giro e gli scherzi possono avere su un individuo; parla ai genitori, soprattutto tramite le interviste agli psicologi e agli esperti del documentario, che non devono essere lasciati fuori dall’argomento. E questo perché 13 Reasons Why coglie perfettamente un aspetto che credo per molti adulti sia difficile da capire: la complessità del mondo adolescenziale. Mostra i rapporti sociali e quelli online con estrema franchezza sulla loro pericolosità, ma senza demonizzarli.

È interessante anche notare come gli spettatori reagiscano al bullismo subito da Hannah in modo diverso in base alle loro esperienze personali. Me ne sono accorta nel mio piccolo parlandone con amici, ma mi piacerebbe sapere anche cosa ne pensate voi lettori di Bossy: vedendo soprattutto i primi episodi, quelli delle “semplici” prese in giro, avete mai pensato “davvero si è uccisa solo per questa cazzata“? Vi siete immedesimati nel dolore provato da Hannah? O vi siete irritati perché anche voi avete subito le stesse cose, ma siete ancora qui a lottare per superarle?
Il punto che la serie vuole provare è proprio questo: ognuno interiorizza gli avvenimenti di cui è partecipe in modo diverso e, nonostante questo, quello che prova l’altro è sempre valido e bisogna tenerne conto, anche se per noi può sembrare di minima importanza.
I gesti e le frasi dei bulli restano per tanto tempo sulle loro vittime, ne scolpiscono il carattere. Ogni cosa che diciamo e facciamo ha delle conseguenze perché, sorpresa-sorpresa, gli altri sono persone, non cose.
Hannah è morta anche perché non è stata ascoltata, perché il suo dolore è stato preso per il solito teen drama persino dalle persone che avrebbero dovuto essere lì apposta per offrirle supporto, Mr. Porter in primis. Come viene detto in Beyond the Reasons, c’è bisogno di fornire una solida educazione sentimentale ai ragazzi (assieme a un’educazione sessuale fatta bene), in modo che abbiano la capacità di riconoscere il turbinio di emozioni di cui sono preda in un periodo “biologicamente” confusionario. C’è poi bisogno di trovare le parole per descriverle agli adulti che, però, non devono fare l’errore di minimizzarle, ripetendo l’errore di Mr. Porter.
13 Reasons Why punta anche a estinguere lo stigma sociale che ancora c’è sulla malattia mentale, soprattutto su quella giovanile, rendendo consapevoli che «it’s okay not to be okay», che una battaglia del genere non può essere affrontata da soli e che se le parole feriscono, possono anche salvare. Per citare il pensiero ricorrente di Clay, «se anche una sola cosa fosse cambiata, se anche uno di solo di noi avesse teso una mano verso Hannah invece di respingerla, lei forse sarebbe ancora viva».
I temi toccati da 13 Reasons Why non finiscono comunque qui: si parla di stalking, e quindi dell’immensa violazione che è la sottrazione della privacy; si parla di abuso di alcool e droghe; si parla di omosessualità, presentandola come il semplice fatto della vita che è, senza stereotipi; si parla di sessualità e di amore, di capacità e incapacità di amare; si parla anche di decenza e bontà d’animo.
Insomma, 13 Reasons Why è un vero giro sulle montagne russe emotive che favorisce incredibilmente l’immedesimazione dello spettatore, anche per la scelta di Netflix di rilasciarlo in tredici episodi per tredici registrazioni. Noi pubblico abbiamo davanti la stessa scelta dei protagonisti della storia: guardiamo tutto in una notte, come ha fatto Alex? O dobbiamo prenderci delle pause perché è troppo doloroso, come è successo a Clay? E cosa pensiamo una volta finito? Capiamo il dolore di Hannah perché l’abbiamo subìto anche noi, o ci sentiamo in colpa perché forse quel dolore l’abbiamo invece causato? Cerchiamo di giustificarci come Courtney?
Questi i motivi per vederla, subito. Soprattutto nelle scuole. Come Tony consegna ai genitori di Hannah la chiavetta con le registrazioni perché spera che possano evitare che la stessa cosa succeda ad altri, 13 Reasons Why può fare lo stesso, per tutti e tutte le possibili Hannah Baker del mondo reale.
It has to get better.
Tutto giusto, l’educazione sentimentale va bene (ma i sentimenti possono essere insegnati? Forse si può parlare di come ci si sente) detto questo bisogna anche crescere adolescenti più forti psicologicamente in modo che le parole non li feriscano così tanto al punto di ucciderli, perchè non siano eterne vittime
Io la vedo nel modo opposto. Sarebbe opportuno insegnare ad usare meglio le parole, educare un linguaggio corretto, alla gentilezza e soprattutto che ogni comportamento ha o può avere conseguenze, indipendentemente dall’intenzione.