Articolo di Alessandra Vescio
“Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa”. È con queste parole che un gruppo di docenti e intellettuali italianǝ ha lanciato la petizione “Pro lingua nostra”, in difesa della lingua italiana e contro l’“ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto”. Le ragioni di tanta avversione risiedono nell’aver trovato il simbolo schwa nei verbali sulla procedura per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale a professorǝ universitariǝ ordinariǝ di Organizzazione aziendale, settore concorsuale appartenente all’area disciplinare di Scienze economiche e statistiche. Considerato come “il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività” e voluto da “una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi”, secondo ǝ firmatariǝ della petizione l’utilizzo dello schwa creerebbe un effetto drammatico se non comico e “trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza”. Uno scempio, insomma.
Mentre ǝ nostrǝ intellettuali si battono dunque per la purezza della lingua, difendendola dalle pericolosissime minacce che provengono dalla comunità queer e dal Meridione tutto (e sperando di non offenderlǝ se qui utilizziamo proprio lo schwa anche quando ci riferiamo a loro), nel mondo reale a essere minacciate sono ancora e sempre le categorie marginalizzate, anche quando provano semplicemente a raccontarsi, a offrire una narrazione di sé in prima persona che vada oltre lo stereotipo.
Secondo l’American Library Association, che si occupa di supportare e promuovere le biblioteche e il loro ruolo nella società americana, ad esempio, non si era mai visto un numero così elevato di richieste di vietare dei libri come negli ultimi tempi. Portate avanti soprattutto da esponenti della politica locale, da genitori e membri dei consigli scolastici, queste iniziative di contestazione vedono al centro soprattutto libri che raccontano la comunità LGBTQIA+ e parlano di genere e razzismo.
Un esempio è la campagna lanciata da Matt Krause, membro della Camera dei rappresentanti del Texas, che ha stilato una lista di ben 850 libri da bannare dalle scuole perché possono creare “disagio, senso di colpa, angoscia o altre forme di stress psicologico”. Oltre la metà dei testi criticati da Krause ha al suo interno personaggi queer. Tra settembre e novembre 2021, poi, in almeno sette Stati americani le biblioteche scolastiche hanno rimosso dei libri in seguito a diverse contestazioni. Tra le opere maggiormente sottoposte a censura ci sono “Gender Queer: A memoir” di Maia Kobabe, graphic novel sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta e sull’identità di genere; “L’occhio più azzurro” della scrittrice Toni Morrison, bannato perché considerato “sessualmente esplicito” e per il racconto di abusi su minori; e “All boys aren’t blue: a memoir-manifesto”, raccolta di saggi autobiografici in cui l’attivista e giornalista non binary George M Johnson racconta la sua infanzia e la sua adolescenza da persona nera e queer.
Nella lista dei libri più contestati nel 2021 redatta dall’American Library Association figurano anche “George” di Alex Gino, un libro per bambinǝ che ha come protagonista una ragazza transgender e che è stato stigmatizzato perché presenta un contenuto considerato “contrario a una visione religiosa”; e il best-seller “The hate u give” di Angie Thomas, che racconta le proteste della comunità nera contro la violenza razzista della polizia, contestato perché promuoverebbe un messaggio di sfiducia e sospetto nei confronti della polizia.
Non solo i libri, ma anche ciò che viene insegnato quotidianamente nelle scuole è al momento sottoposto a un vero e proprio attacco politico. Nel corso del 2021, ad esempio, in diversi Stati americani repubblicani (37, secondo un’analisi condotta da Education Week, un’organizzazione che si occupa di fare informazione su scuola e istruzione in America) sono state proposte e/o approvate leggi che hanno l’intento di regolare e condizionare il modo in cui parlare di questioni di genere e razzismo nelle scuole, con la conseguenza che diversǝ insegnanti si sono ritrovatǝ in un limbo tra il desiderio di affrontare tematiche essenziali per la crescita deǝ giovanǝ e il rischio di subire una causa legale.
E in Europa? Ad agosto 2021, in Ungheria è stata approvata una legge che vieta di vendere libri sulla comunità LGBTQIA+ entro 200 metri di vicinanza a scuole e chiese e che impone alle librerie di confezionare in imballaggi chiusi i testi per bambinǝ che parlano di omosessualità e identità di genere. A gennaio 2022, invece, in Polonia la Camera ha approvato una legge che vuole controllare ciò che viene insegnato nelle scuole e respingere qualunque “minaccia alla moralità deǝ bambinǝ”, quindi anche vietare l’accesso a un’educazione sessuale inclusiva.
Intervistatǝ dal Time riguardo la censura che il suo libro sta subendo, George M Johnson non si è dettǝ stupitǝ: “Sapevo che sarebbe successo. […] Conosco il panorama in cui viviamo”, e ha spiegato che la ragione dietro questo accanimento nei confronti di certi libri è tutta una questione di potere, o meglio, del timore delle persone bianche, cisgender ed eterosessuali di perdere il ruolo predominante che hanno sempre avuto in società. Quello che è stato fatto con il suo libro, continua l’autorǝ, è lasciare fuori in maniera intenzionale una parte importante, essenziale, del suo racconto, che ha l’intento di educare chi è più giovane: “Io parlo di educazione sessuale, di consenso, di responsabilità. E sto usando la mia storia per portare degli insegnamenti alle persone giovani riguardo gli errori che io ho già fatto la prima volta che ho avuto un rapporto sessuale, in maniera tale che loro non ricommettano gli stessi errori. Sto insegnando aǝ ragazzǝ a non sentirsi in colpa in seguito a un abuso sessuale, e a riconoscere un abuso – moltǝ adolescenti neanche riconoscono di essere statǝ abusatǝ”.
Il ruolo primario di educazione, scoperta, accoglienza che la cultura in ogni sua forma (dal semplice ascolto delle storie a percorsi più approfonditi) ha su ciascuno di noi è cosa nota, e si fa ancora più essenziale quando si parla di parità. Come spiegano alcuni studi, ad esempio, i romanzi aiutano ǝ più piccolǝ a sviluppare empatia, ad assumere prospettive diverse dalla propria, a mettersi più facilmente nei panni altrui e ad abbattere i pregiudizi. Pericoloso diventa piuttosto mettere a tacere storie, voci e persone: i libri infatti hanno un potere magico, quale è quello di offrire riconoscimento e rappresentazione. Più che essere capaci di “influenzare” o “deviare”, come il pensiero conservatore sostiene, un romanzo può essere uno specchio in cui chi legge può ritrovarsi e capirsi. O ritrovare e capire anche chi è molto distante da sé.
Raccontare un’unica storia, invece, chiude i confini, impone il silenzio e cancella esistenze, ma è anche la perfetta dimostrazione di non aver alcuna intenzione di fare i conti con le proprie responsabilità. Tra le autrici più sotto attacco dal recente pensiero conservatore americano vi è ad esempio Toni Morrison, i cui libri parlano di schiavitù e razzismo senza edulcorare nulla né tantomeno ricorrere a eufemismi, come racconta Emily Knox, docente universitaria, ricercatrice e autrice di “Book Banning in 21st-Century America”.
In un’epoca in cui si sfrutta il pretesto di voler tutelare l’innocenza deǝ bambinǝ per fare revisionismo storico, insabbiare responsabilità e mettere a tacere chi non si adegua a una norma precostituita e soffocante, ogni piccolo tentativo di apertura e inclusione dovrebbe essere accolto e celebrato, piuttosto che condannato. A meno che (e sembra proprio questo il caso) l’obiettivo non sia quello di mantenere uno stato delle cose che non dà spazio e ascolto alle voci altrui, che non vuole prendere coscienza (e fare prendere coscienza) di problemi sociali strutturali e che non ha alcuna intenzione di porre fine alle discriminazioni. Che ha come unico desiderio quello di tenersi ben stretto il potere tra le mani, col timore che qualcunǝ venga a portarglielo via.
si è uomini o donne a prescindere dal look, chi ha la barba di solito è un uomo cis o transgender (o una donna con una rara disfunzione ormonale), questo non è binarismo, è un fatto. sul resto sono d’accordo
“Raccontare un’unica storia, invece, chiude i confini, impone il silenzio e cancella esistenze…”
Appunto. E io sono qui per dire la mia, di storia. Sono una inclusive designer per cui il linguaggio inclusivo fa parte della mia quotidianità. Più volte ho espresso la mia perplessità sullo schwa -e tutte le altre desinenze proposte come chiocciole o peggio asterischi- perché rischia di includere un gruppo ed escluderne come minimo altri due: persone con disabilità visiva e con dislessia.
Le persone che si battono e occupano per tagliare le desinenze in favore del genere non binario, si sono mai poste il problema BRAILLE? No.
Si sono mai poste il problema SINTESI VOCALE? No.
E io, come inclusive designer non vedente, non me la sento affatto di considerare “inclusiva” una proposta simile perché la comunità LGBT+ con disabilità visiva e dislessia è ancora più emarginata di tutto il resto, e anche noi persone etero cis bianche con le stesse condizioni di disabilità.
Certo, per il discorso sintesi vocali e Braille probabilmente è solo una questione di tempo, se lo schwa prendesse piede l’interesse salirebbe e il problema di sicuro verrebbe preso in mano; io sono cosa, cinque anni che insieme ad altri colleghi o persone della comunità LGBT+ sto cercando di discutere, di cercare una soluzione che vada bene a qualunque soggettività; ma il problema è complesso, molto complesso.
Ci sarebbe più bisogno che le persone LGBT+ con disabilità visiva o dislessia uscissero di più allo scoperto, ma come si farebbe a proporre un coming out di massa a chi subisce già la doppia tripla discriminazione?
C’è bisogno di noi che ci raccontiamo di più, che poniamo i problemi al mondo, altrimenti il mondo di noi non si accorge fino a che viene raccontata una sola storia.
La comunità LGBT+ non è solo fatta di persone vedenti e con tutti gli arti funzionanti, ecco.
Io mio malgrado mi devo fermare qui perché sono non vedente sì, ma etero e cis, non posso parlare a nome di altri gruppi.
Da parte mia posso solo sforzarmi il più possibile di esprimermi con nomi e aggettivi collettivi evitando il più possibile di ricorrere a segni strani, anche quando traduco interfacce di siti o applicazioni dall’inglese che, il problema della desinenza, non se lo pone.
Scrivere “connessione effettuata” al posto di “sei connesso”, non ha mai fatto del male.