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L’amica geniale e il mostruoso materno: la rottura del topos della maternità

L’amica geniale e il mostruoso materno: la rottura del topos della maternità

L’articolo contiene spoiler su L’Amica geniale

Qualche tempo fa ho letto un articolo in cui si diceva che uno dei punti di forza della scrittura di Elena Ferrante è l’abilità di rendere il brutto bello, come fa con alcunə personaggə delle sue opere. Quest’affermazione, con cui sono d’accordo, mi ha portato a un’altra riflessione: la bravura di Ferrante non si ferma a questo, in molte occasioni l’autrice è capace anche del contrario. Allo stesso modo in cui, tramite l’uso delle parole, sublima la bruttezza trasformandola in bellezza, sa svelare il brutto nascosto nel bello, laddove di solito non si vuole vederlo. È esattamente ciò che fa quando rappresenta la maternità ne “L’amica geniale”. Potremmo parlare di un mostruoso materno, che scaturisce dalla rottura dall’interno del topos della maternità.

La potenza innovativa della quadrilogia deriva in gran parte dalla centralità dell’amicizia fra due donne, territorio quasi inesplorato nel panorama letterario italiano, e da come questa è trattata. Nei quattro romanzi la maternità è messa in secondo piano proprio in favore di una sorellanza compensativa: l’amica sostituisce quasi completamente la madre. Nonostante ciò, la maternità è costantemente rappresentata, anche se fa da sfondo. È come se Ferrante ce la mostrasse con la lente di ingrandimento per permetterci di scorgere tutte le imperfezioni che caratterizzano i legami madre-figliə.

Nella storia, l’amicizia tra le due protagoniste Lila e Lenù nasce dal bisogno della seconda di trovare una figura femminile che sostituisca quella materna, di un passo sicuro e svelto da seguire – quello di Lila – al posto dell’andatura claudicante di sua madre, una donna che la disgusta e la inquieta, soprattutto per il suo aspetto fisico, al punto da passare la sua intera esistenza a sperare che dal suo corpo non esca quello della madre. Ci troviamo di fronte a una forma di matrofobia che permea l’intera storia, dove per matrofobia non si intende la paura della madre, ma piuttosto la paura di diventare come lei, come giustamente nota Laura Benedetti in un contributo significativo sull’opera. Aggiungo che, allo stesso modo in cui Elena teme di diventare la copia di sua madre, quest’ultima soffre di una specie di figliafobia, intesa come la paura che sua figlia diventi più di lei, più colta, più intelligente, più libera.

L’amore materno è solitamente rappresentato come la forma più totalizzante e pura di amore, e la maternità come l’esperienza più bella e soddisfacente che una donna possa vivere, tanto da considerare l’assenza di figliə una mutilazione inaccettabile delle soggettività femminili. Il rapporto che lega Elena e la madre è tutt’altro che amorevole e piega qualsiasi stereotipo benevolo sulla maternità.  La madre prova nel profondo una sottile invidia per sua figlia, per tutte le possibilità che la vita le ha offerto e che lei invece non ha mai avuto. Sostanzialmente la madre invidia l’opportunità di Lenuccia di autodeterminarsi e sottrarsi alle dinamiche tossiche del Rione, per questo spesso la tratta male, la picchia, la riempie di maleparole, in alcune occasioni sembra quasi volerla ostacolare, frapponendosi fra lei e il suo futuro.

Ma alla fine prevale il desiderio di rivalsa che lei proietta su Elena, infatti le permette ogni volta di continuare gli studi, aiutandola così a muoversi verso una strada che la elevi dalla miseria del Rione. Come le confessa in fin di vita, lei è la figlia che ha amato di più, l’unica che davvero contava per lei, ma il suo è un amore narcisistico: lei amava Lenuccia perché convinta che la sua intelligenza e la sua cultura avrebbero scrostato dal nome della loro famiglia la mediocrità accumulata da intere generazioni.

La madre di Lenuccia non è l’unica della storia, ce ne sono tante altre, ma nessuna trova nella maternità la felicità e la pienezza vitale che la società patriarcale promette alle donne che hanno figliə. Sebbene figliare sembri essere per le donne del Rione il principale scopo della vita, una benedizione che ognuna si auspica di ricevere il prima possibile, nel momento in cui diventano madri la loro percezione della maternità cambia. ə figlə si dimostrano quasi una condanna, perché il più delle volte diventano l’elemento che le lega indissolubilmente a mariti che tradiscono il sogno romantico della famiglia felice con cui sono cresciute.

I mariti sono spesso uomini violenti, cattivi, divorati dal dio denaro, dall’odio, dal rancore, dai segreti, dagli affari loschi del Rione. E le mogli se ne accorgono troppo tardi, quando ormai il seme di quegli uomini mostruosi cresce nei loro corpi, quando hanno davanti dei piccoli esserini che sembrano ai loro occhi stanchi delle miniature degli uomini verso i quali provano repulsione. Sono un monito tangibile che ricorda loro la libertà che hanno perso, l’impossibilità di tornare indietro, perciò a volte trasferiscono sulla prole e sul mondo intero la rabbia e il disgusto che provano verso i mariti. È per esempio il caso di Gigliola, avvelenata dal suo rapporto con Michele Solara, oppure di Pinuccia, che si rende conto di quanto Rino, il fratello di Lila, le abbia rovinato la vita.

Diversa è l’esperienza delle protagoniste. Lila non sogna la maternità, anzi, la rigetta. Si convince di non riuscire a rimanere incinta perché la volontà di non dare unə figliə a suo marito Stefano, che odia profondamente, genera in lei una forza malefica in grado di uccidere gli embrioni nel ventre. Quando poi apprende di essere incinta, Lila subito sente che la maternità non aggiungerà nulla alla sua vita, anzi, definisce ciò che porta in grembo “un vuoto dentro”. La sua prima gravidanza non si conclude col parto, ha un aborto spontaneo e questo porta a un cambio di prospettiva: il medico le svela che non è la sua forza di volontà a impedirle di portare avanti la gravidanza, ma una debolezza fisica.

La seconda volta che Lila resta incinta, il suo fisico che cambia la turba, sente una forte incongruenza tra il suo corpo e la sua interiorità. La maternità non la rende più bella, come dicono le credenze popolari, ma anzi la rende più brutta, facendola apparire malata, come nota la stessa Lenù. Eppure Lila accetta questa gravidanza più della prima, perché crede che il bambino che porta in grembo sia il frutto dell’amore tra lei e Nino Sarratore, con cui ha tradito il marito. Nei primi anni di vita del figlio Gennaro, dedica tutte le sue attenzioni all’educazione del bambino, nella speranza di sottrarlo alla ciclicità tossica del Rione, ma rinuncia quando realizza che suo figlio di Nino non ha nulla, è identico a Stefano. A quel punto Lila si convince che i suoi sforzi sono vani, per il bambino non c’è speranza, si smarginerà, diventerà un uomo rozzo e vile, esattamente come suo padre e tutti gli uomini del Rione.

La maternità di Lila si guasta irrimediabilmente con la sua seconda figlia, nata dal rapporto forte e solido con Enzo. Anche la gravidanza di Tina mette a dura prova il suo corpo, ma stavolta il travaglio del parto è compensato da una bambina nei cui tratti non scorge l’uomo con cui l’ha concepita, ma rivede se stessa. La bambina, oltre a somigliarle nell’aspetto, è anche intelligente e brillante, proprio come sua madre, sembra destinata a grandi cose, ma all’improvviso una domenica pomeriggio Tina scompare nel nulla durante una festa rionale. Nonostante Lila sia una buona madre, qualcosa va storto, perde sua figlia. La maternità per lei ancora una volta è un vuoto, sia dentro che fuori.

L’esperienza di Lenù è diversa, ma in qualche modo complementare. Il suo corpo reagisce abbastanza bene alle sue tre gravidanze, tranne quando le viene un dolore alla gamba che fa riaffiorare in lei la paura di diventare come sua madre. La gravidanza la fa sembrare più bella e sana, rispetto a Lila il suo corpo sembra fatto per dare alla luce figliə. Il suo problema con la maternità arriva dopo il parto. Elena si sente ed è vista dallə altrə, soprattutto da Lila e dalla sua stessa madre, come una madre insufficiente. Il motivo della sua insufficienza risiede principalmente nella necessità, in alcuni momenti della sua vita, di dare priorità ai suoi desideri e ai suoi bisogni, piuttosto che a quelli delle sue figlie.

Elena soffre per non riuscire a trovare il tempo di scrivere, si rifiuta di relegare sé stessa al ruolo di madre e moglie, mentre suo marito Pietro si dedica alla sua carriera di grande professore. Si interroga sul ruolo della donna nella società e sulla questione di genere, tanto da scriverci un saggio. Attraverso l’esperienza di Lenù, Ferrante ci mostra come, per alcune donne, sia proprio la maternità a mutilarne le soggettività, impedendo loro di realizzarsi in altri ambiti della vita. A differenza delle sue compagne del Rione, Elena sceglie (anche perché, rispetto alle altre, ha gli strumenti per farlo) di cambiare la sua condizione di insoddisfazione: si separa dal marito per mettersi con Nino, l’uomo che ha sempre amato, decide di partire con lui, lasciando a casa le sue figlie. L’atto di separarsi dalla sua famiglia rompe qualsiasi legame con la maternità così come è concepita nella mentalità del Rione. Elena più volte nella storia fa esattamente ciò che la società patriarcale non si aspetta da una madre: mette sé stessa prima delle sue figlie.

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Il rapporto madre-figlia, anche in questo caso, risulta doloroso per entrambe le parti. Le figlie, soprattutto da adolescenti, assumono comportamenti oppositivi con la figura materna, portando Elena a interrogarsi spesso sulla sua (in)capacità di essere madre. E, anche se nessuna delle sue figlie scompare come Tina, tutte si allontanano da lei e addirittura si prendono gioco dei suoi scritti, una volta adulte, davanti ai propri compagni.

Per quanto i corpi di Lila e Lenù reagiscano diversamente alle gravidanze, per quanto l’apparente insufficienza di Lenuccia faccia da contraltare all’efficienza di Lila, capace di crescere non solo ə suoə figliə, ma in molte occasioni anche quelle dell’amica, entrambe sono accomunate dal fatto che il loro essere madri non cannibalizza mai gli altri aspetti della loro persona. È significativo che, nonostante Elena non si ritenga (e non sia considerata) una buona madre, le sue tre figlie siano le uniche a non essere divorate dal Rione.

Qual è allora il modo giusto per essere madre?

Tutti e nessuno. Ferrante, oltre a dare un bel calcio nel sedere a quella inutile invenzione del patriarcato che è l’istinto materno, ci insegna che i legami umani sono complessi e intricati, che non esiste la madre perfetta, la maternità perfetta, perché l’amore materno non assume una sola forma, ma tante quante le persone che lo provano.

Artwork di Chiara Reggiani
View Comment (1)
  • tutto vero. non esiste l’istinto, esiste l’amore materno e paterno. poi certo esistono anche coppie più o meno felici, e rapporti genitore-figlio/a un po’ meno problematico. secondo me padri e madri nel momento in cui mettono al mondo un figlio dovrebbero ENTRAMBI mettere i propri desideri al secondo posto dopo i figli, perchè i figli non hanno chiesto di veire al mondo, ce li hanno messi gli adulti da cui dipendono

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