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Anche la divisa da lavoro è una questione di parità
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Anche la divisa da lavoro è una questione di parità

Negli ultimi anni si è reso sempre più evidente quanto il processo di emancipazione delle donne passi anche attraverso il lavoro. Realizzazione personale, affermazione sociale, indipendenza economica sono solo alcuni degli aspetti positivi del lavoro. Non tutte le professioni però sono ancora popolate da donne: molte posizioni restano tuttora appannaggio prevalentemente maschile e, laddove le donne riescano a penetrarvi, queste si trovano costrette a barcamenarsi in un ambiente poco inclusivo.

Un esempio eloquente di quanta strada c’è ancora da percorrere verso una piena e concreta inclusione delle donne nel lavoro è rappresentata emblematicamente dalla divisa. In alcuni settori infatti non esistono ancora delle uniformi pensate per le donne e le lavoratrici spesso svolgono le loro mansioni indossando capi poco performanti rispetto al proprio fisico.

Che cos’è una divisa?

La divisa può costituire uno strumento fondamentale e insostituibile sul lavoro. La sua funzione principale è innanzitutto quella di salvaguardare l’incolumità fisica di chi la indossa, di garantirne quanto più possibile la sicurezza. Deve poi agevolarne i movimenti, soprattutto quelli che, nell’ambito di una determinata mansione, sono ripetuti con maggiore frequenza. La vestibilità e il comfort sono dei requisiti importanti per gli indumenti da lavoro. La divisa deve insomma rendere il lavoro non solo meno rischioso ma anche più agevole e meno faticoso.

Sebbene la scelta di determinati indumenti in certi ambiti professionali sia nata contestualmente all’affermarsi e al moltiplicarsi dei mestieri stessi – e quindi se ne abbiano tracce fin dalle prime civiltà conosciute – l’uniforme da lavoro, come la intendiamo noi oggi, si diffuse con la rivoluzione industriale e prese piede soprattutto a partire dalla fine del Settecento. Velocemente anche le divise, di pari passo con il lavoro, si specializzarono, e presto l’uniforme divenne un segno di riconoscimento, un simbolo identificativo. La divisa non è insomma un capo di abbigliamento tra gli altri. Per la funzione che assolve e per quello che rappresenta non può essere assimilato a nessun altro indumento.

Cosa comunica?

L’uniforme da lavoro trasmette innanzitutto la professione che si svolge: la divisa permette un immediato riconoscimento del ruolo rivestito e spesso costituisce un vero e proprio biglietto da visita. Connessa al riconoscimento c’è poi la credibilità: un’uniforme da lavoro ingombrante e inadatta alla propria corporatura mina la reputazione della persona che la indossa. Anche per rispondere a queste esigenze oggi c’è una sempre maggiore attenzione ai materiali e alla vestibilità dei capi: funzionalità e sostenibilità finalmente stanno diventando dei cardini nella progettazione delle divise.

Purtroppo non sempre si è fatto un uso proprio della divisa. Soprattutto negli anni Novanta le divise e le persone che le indossavano, per lo più donne, sono state oggettificate per discutibili campagne pubblicitarie. Ricorderemo facilmente la cartellonistica ipersessualizzata di certi car washing che proponevano mitologiche figure metà lavoratrici, con tanto di pantaloni da lavoro, metà corpi insaponati a completa disposizione dello sguardo maschile, o spot con immaginarie creature con martello pneumatico in mano, caschetto in testa e bikini. Da citare anche gli innumerevoli idraulici proposti in tutte le salse e con chiavi inglesi di ogni forma e dimensione ma sempre e comunque senza maglietta.
È chiaro che casi come questi danneggiano tutte le categorie colpite. Tuttavia, non si può non sottolineare quanto la credibilità di persone che, già di per sé, fanno fatica ad essere prese sul serio nel mondo del lavoro e specialmente in certi settori, sia ulteriormente minata.

Non sorprende poi che, proprio nei settori in cui le donne sono state escluse per più tempo, l’attenzione al femminile sia più scarsa e, di conseguenza, le donne facciano maggiore fatica ad essere prese sul serio e ad emergere.

What Women Wear at Work

Un esempio è il mondo edile, che è tra gli ambienti in cui si può fare ancora molto in termini di inclusione. Qualcosa si è, fortunatamente, già messo in moto. L’Istituto Carlo Bazzi – che, in collaborazione con la Triennale di Milano, aveva già dato vita al Museo della Sicurezza – ha promosso il progetto “4W – What Women Wear at Work” che prevedeva un ciclo di seminari e un concorso finale per l’ideazione e la progettazione di indumenti e/o dispositivi posti a tutela delle lavoratrici edili. I seminari, tenuti da professioniste del settore come Amalia Ercoli Finzi, affrontavano il tema delle lavoratrici nei cantieri e inquadravano le questioni relative agli indumenti del lavoro in un’ottica più generale. La divisa deve evolvere e modificarsi insieme alla società e una società inclusiva non può non proteggere e vestire le persone, tutte le persone, con la stessa attenzione e cura.

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La sfida dunque è quella di progettarne una che rispondesse a tutte le esigenze di design, prevenzione e protezione, ma anche riciclo e sostenibilità. Ad accoglierla e a vincerla per la categoria Under35 è stata l’architetta Giulia Ambroselli: “Ho voluto ideare un’uniforme da donna che fosse attenta al corpo femminile, degno quanto quello maschile e con pari diritto di occupare uno spazio nei cantieri edili”, ha spiegato l’architetta.

Ambroselli ha progettato una divisa completa, in una versione estiva e in una invernale, utilizzando materiali tecnici per lo più provenienti dal riciclo della plastica: dal caschetto con un foro che permette di tenere i capelli lunghi legati alle scarpe antinfortunistica con suola antiperforamento; dal piumino con inserti catarifrangenti e cintura in vita agli occhiali antipolvere, passando per una sacca in cui inserire strumenti da lavoro portatili. L’architetta vincitrice ci ha spiegato dove sono nate le sue idee: “Sono partita dalla mia esperienza personale e ho cercato di trovare soluzioni ai problemi che ho riscontrato per prima io stessa. In passato ho avuto ad esempio difficoltà a reperire delle scarpe antinfortunistica della mia misura e sono stata costretta a utilizzare delle scarpe da trekking. Ho litigato più volte con il caschetto che non aderiva bene e mi sono sentita a disagio in indumenti per me scomodi e inadeguati. In questo ambiente, comfort e sicurezza vanno di pari passo e non si può avere l’uno rinunciando all’altro”.

Ambroselli ha poi confessato come si sia sentita molto più professionale agli occhi degli operai a cui doveva illustrare il progetto quando, oltre a indossare capi in cui si sentiva bene, aveva a portata di mano gli strumenti idonei: “Mi è capitato di avere bisogno di un supporto cartaceo per spiegarmi meglio. E mi sono resa conto che, insieme alla chiarezza espositiva, mentre disegnavo o misuravo, migliorava anche la mia credibilità agli occhi degli operai. La livella, il metrolaser, un taccuino per gli appunti sono diventati i miei migliori alleati nel cantiere. Ho deciso che li avrei portati con me, per questo ho previsto anche una sacca in cui riporli”.

La questione del corpo femminile

In ambito lavorativo il corpo femminile è stato al lungo nascosto o troppo esposto, trattato spesso più come oggetto che come parte di una persona. Rinunciare alla sicurezza, alla libertà di movimento, al comfort non è giusto. I corpi, tutti i corpi, vanno protetti e tutelati, non nascosti. Anche i corpi femminili meritano una divisa che non li faccia sentire sbagliati, inadeguati o fuori luogo. Come nota Giulia Ambroselli, “Una comunicazione efficace, che nel lavoro è fondamentale, passa anche attaverso la divisa e ciò che rappresenta. La divisa può convincere al primo impatto, trasmettere fiducia e catturare la giusta attenzione: non dovremmo mai rinunciare a tutto ciò che può offrirci”.

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  • in alcuni lavori uomini e donne devono esporre il corpo, in altri no. finchè si è maggiorenni consenzienti è ok. e comunque se in un film si erotizza l’idraulico o altri/e non è male, l’eros e il sex appeal sono cose positive non oggettificanti (e non giustificano molestie sul lavoro) non facciamo i bigotti, l’eros esiste, non può essere abolito

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