L’aumento della violenza domestica durante il lockdown in Italia
Della primavera del 2020 ricordiamo tuttз la pizza fatta in casa, le canzoni dai poggioli, il catalogo di Netflix. E gli striscioni artigianali con la scritta “ANDRÀ TUTTO BENE” decorata con tanti arcobaleni, simbolo di rinascita dopo un periodo difficile.
In quel momento, però, non sapevamo se effettivamente sarebbe andato tutto bene. Sicuramente ci volevamo sperare; del resto, come dice Mary Margaret in Once Upon A Time, ‹‹Credere anche solamente alla possibilità di un lieto fine è un mezzo molto potente››. Potremmo dire che questo slogan trasudi positività tossica, potremmo analizzarlo a lungo e potremmo dire parecchie altre cose al riguardo.
Sicuramente è stato uno strumento per scendere a patti con una realtà che non riconoscevamo più. Insieme a pizze, canzoni e Netflix. A prescindere dallo slogan, all’avvicinarsi dei quattro anni da quel 9 marzo in cui è stata dichiarata la zona rossa nazionale è giusto riflettere su alcune cose e ricordarsi che il lockdown non è stato solo pizze, canzoni, serie tv e striscioni.
Nella primavera del 2020 l’Italia è stata uno dei primi Stati a mettere in atto misure di confinamento molto strette, in particolare vietando di lasciare il proprio domicilio se non per motivi di effettiva necessità o urgenza, come ad esempio fare la spesa, recarsi a una visita medica o sul luogo di lavoro.
In corrispondenza del lockdown nazionale, in Italia si è registrato un aumento delle violenze domestiche del 73%. Si è trattato principalmente di violenza fisica e psicologica, e chiaramente, viste le strette misure di confinamento, il luogo principale della violenza era la propria abitazione. Per simili motivi è significativamente aumentato il ricorso a chat per richiedere aiuto piuttosto che telefonate.
Nella maggior parte dei casi non si trattava di episodi isolati ma ripetuti nel tempo e iniziati mesi se non anni prima della segnalazione. Questo fenomeno è stato osservato da indagini e definito dalle Nazioni Unite “pandemia ombra”, una seconda pandemia passata però inosservata, taciuta.
Inizialmente questo trend è stato attribuito da alcune fonti allo stress del periodo, che avrebbe portato a un aumento del consumo di alcol e quindi al conseguente aumento degli atti violenti. Ma ignorare la prospettiva di genere è miope. Le donne, e in particolare le madri, sono state la categoria più colpita dalle misure di confinamento.
Un articolo dell’ANDI riporta, tra gli altri, uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e sottolinea: ‹‹I fattori di rischio che sembrano esacerbare la violenza domestica sono l’incertezza economica e lavorativa (più che l’effettiva indigenza), la presenza di minori sotto i 10 anni e l’impossibilità di affidarsi a reti di supporto esterne alla famiglia; come spesso accade, le situazioni di intersezionalità tra questi fattori e altri latenti causano i picchi più significativi. Un aumento preoccupante, che va ad incidere su una situazione già estremamente grave soprattutto nel caso del genere femminile, a prescindere dalla fascia d’età››.
Alla base della violenza domestica c’è uno stretto controllo da parte dell’abusante, che spesso ricorre ad un graduale isolamento della vittima. In periodi di normalità le donne in situazioni di violenza potevano allontanarsi momentaneamente dall’abusante (spesso il partner o un altro membro della famiglia, nella maggior parte dei casi un uomo), perché loro o l’autore delle violenze dovevano uscire dal contesto domestico per lavorare, ad esempio, o per praticare sport o per incontrare amici.
Durante il lockdown queste occasioni sono venute meno, la maggior parte dei contesti lavorativi ha adottato il lavoro da remoto come nuovo standard e le relazioni sociali venivano mantenute tramite messaggi e videochiamate. In questo contesto, l’aumentare dell’isolamento ha fornito una situazione favorevole all’incremento della violenza, non solo in termini di frequenza ma anche di intensità.
I centri antiviolenza e i rifugi hanno incontrato diverse difficoltà con la crescita del carico di lavoro. Una di queste difficoltà è stata trovare soluzioni abitative anche temporanee per le donne che avevano bisogno di allontanarsi immediatamente da una situazione di violenza; per la difficile reperibilità sia di strutture sia di tamponi, infatti, non era possibile traferire queste donne in centri senza mettere a rischio le utenti già presenti nelle strutture. Era necessario trovare ulteriori strutture in cui le nuove utenti potessero sottoporsi a quarantena fiduciaria prima di condividere spazi con altre donne. Una parziale soluzione è stata trovata dai lavoratori del settore – principalmente centri antiviolenza e case rifugio – sfruttando le reti e le relazioni locali.
Un’altra difficoltà è stata il digital divide e il limitato accesso a dispositivi informatici. È importante sottolineare che la carenza di strutture, la mancata capillarità dei servizi, la difficoltà di raggiungere le donne vittime di violenza e altre problematiche non sono state il risultato improvviso della pandemia ma condizioni preesistenti esacerbate dalla situazione emergenziale.
In corrispondenza dell’allentarsi delle misure di confinamento i dati sulla violenza domestica sono tornati nella media della situazione pre-pandemica, ma questo non significa che la situazione sia risolta. Parte della soluzione al problema può essere data da:
- Un flusso di risorse più costante e più consistente per le realtà che aiutano le donne in situazioni di violenza; considerando che la mancata indipendenza economica è uno dei fattori che inibisce alle donne la possibilità di allontanarsi definitivamente da una situazione di violenza, oltre ai fondi per le istituzioni sarebbe auspicabile anche l’emanazione di finanziamenti destinati direttamente alle utenti di questi organi.
- Leggi e policy a livello locale, nazionale e globale mirate all’abbattimento di discriminazioni e al raggiungimento della parità di genere.
- Interventi formativi nelle scuole e nei luoghi di lavoro per contrastare comportamenti e convinzioni discriminatori.