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“We don’t need another hero”: l’arte femminista di Barbara Kruger

“We don’t need another hero”: l’arte femminista di Barbara Kruger

Articolo di Rossella Ciciarelli

In che modo il corpo delle donne è un campo di battaglia? Esisto per comprare? Le nostre vite sono intrappolate da assurdi stereotipi?
Queste sono solo alcune delle riflessioni che le opere di Barbara Kruger sono in grado di generare nella mente di chi le osserva. Trattando temi come il consumismo, la discriminazione, le questioni di genere e i rapporti di potere all’interno delle relazioni sociali, la sua arte viene spesso – e a ragione – definita “attivista”.

 “Credo che l’arte sia ancora un luogo per la resistenza e per il racconto di varie storie, per la convalida di alcune soggettività normalmente trascurate. Sto cercando di suggerire cambiamenti e di resistere a quelle che credo siano le tirannie della vita sociale.”

La premessa vi ha incuriositi? Conosciamo meglio questa donna, partendo da una mostra, centrale nella sua carriera, che reputo perfetta per capire chi sia Barbara Kruger.

Tutta la violenza è l’illustrazione di uno stereotipo patetico.

È il 1991, ci troviamo fuori dalla Mary Boone Gallery, sulla Fifth Avenue, a New York.
È la terza volta che Barbara Kruger allestisce una mostra personale in questa galleria. Noi siamo dei visitatori: se conosciamo Kruger e la sua arte fatta di immagini in bianco e nero e di slogan provocatori messi in risalto da un fondo rosso, ciò che stiamo per vedere non ci coglierà impreparati, ma ci farà comunque sentire sopraffatti; se Barbara Kruger invece non sappiamo proprio chi sia, ma decidiamo comunque di entrare spinti dalla curiosità, ciò che si presenterà davanti ai nostri occhi potrebbe destabilizzarci. Entriamo.

L’intera area della galleria, dal pavimento al soffitto, dalle pareti laterali a quella di fondo, è stata trasformata in un’installazione che non può lasciarci indifferenti. Le immagini ci sovrastano, le parole si rivolgono a noi e ci rendono parte del discorso.

“Tutto ciò che sembrava sotto di te ti sta parlando ora. Tutto ciò che sembrava sordo ti ascolta. Tutto ciò che sembrava stupido sa cosa ti passa per la testa. Tutto ciò che sembrava cieco vede attraverso di te. Tutto ciò che sembrava silenzioso ti sta mettendo le parole in bocca.”

Queste le parole che ci ritroviamo a leggere sotto i nostri piedi, mentre avanziamo. Lo sguardo non ha vie di fuga; proviamo ad alzarlo ma ci imbattiamo in un volto urlante di un bambino che si confronta con la frase “All violence is the illustration of a pathetic stereotype”, che è anche il titolo dell’opera.

Proviamo a osservare alla nostra destra: qui c’è un neonato che beve il latte e la domanda“Chi scriverà la storia delle lacrime?”, tratta da un testo del semiologo Roland Barthes in cui si discute dell’importanza del piangere, dei diversi atteggiamenti degli uomini verso le lacrime e della loro funzione narrativa. Per Barthes un uomo che si abbandona al pianto è un uomo che ha riconosciuto il suo bambino interiore. Gli stereotipi di genere, tuttavia, con la loro idea di virilità – incarnata da una figura maschile sulla parete sinistra dell’area della galleria – fanno sì che spesso questo lato emotivo e sensibile venga represso e la sua storia tenuta nascosta.
Procediamo. Dall’altro lato dell’installazione c’è un corpo femminile minaccioso, con addosso una maschera antigas e le mani inchiodate a una croce. La prima rimanda chiaramente alla guerra, la seconda alla religione: due mondi dominati dagli uomini, un dominio che la donna cerca di combattere. La sfida viene trasmessa dal testo che copre parte del suo corpo, “È un nostro piacere disgustarti” e dalle frasi in caratteri piccoli che galleggiano intorno alla croce: “Dimentica la moralità / Dimentica l’eroe / Dimentica la vergogna / Dimentica l’innocenza”. Lo scopo è quello di indebolire quella singolare voce maschile che pontifica e istruisce su quali debbano essere i nostri piaceri, i nostri peccati e la nostra storia.

“Alle donne è negato l’accesso al ‘mondo degli uomini’, la loro oggettificazione fa sì che si vedano ma raramente si sentano. Fino a quando le donne non inizieranno a farsi sentire e a raccontare l’altra parte del mondo, il potere dell’uomo rimarrà assoluto.”

Il tono ostile dell’artista ha lo scopo di attivare le emozioni di noi spettatori, di generare disgusto, al fine di farci riflettere sulle circostanze che l’hanno portata a formulare affermazioni così taglienti. L’invito è quello di individuare gli stereotipi che generano violenza, e di superarli.

Usciti dalla Mary Boone Gallery, sentiamo di dover riflettere.
Continuiamo a farlo insieme.

Non faremo da natura alla tua cultura.

La violenza è generata dagli stereotipi, quindi. E gli stereotipi sono frutto di una società e di una cultura che ci influenzano fin dalla nascita e che ci suggeriscono inavvertitamente cosa pensare e come agire. Individuare queste influenze è complicato e presuppone un duro lavoro interiore di ricerca e di messa in discussione.

“Qualcosa su cui riflettere davvero è ciò che ci rende chi siamo nel mondo in cui viviamo e come la cultura ci costruisce e ci contiene.”

Una volta acquisita una certa consapevolezza, il passo successivo deve essere quello di alzare la voce, per costruirne una nuova, di società. Solo così questa potrà diventare più corale e inclusiva, in modo da permettere a tutti di esprimersi.

Con “We won’t play nature to your culture” del 1983, Barbara Kruger dice basta: la donna non rimarrà più esclusa dalla possibilità di influenzare la cultura. Si tratta di una delle prime opere di Kruger in cui si delinea lo stile personale dell’artista che, facendo tesoro della sua esperienza di Art Director e Picture Editor per numerose riviste, imita il linguaggio pubblicitario. Lo scopo, infatti, deve essere quello di attirare l’attenzione di quante più persone possibili in modo che, trovandosi a osservare le sue opere sui giornali o sui vari cartelloni presenti nella città, esse si sentano spinte a dedicare parte del loro tempo a riflettere sulle provocazioni lanciate dall’artista.
Tramite “We won’t play nature to your culture”, Kruger vuole superare la  dicotomia della cultura, considerata superiore e associata al maschile, e della natura, inferiore e legata alla vita fisica, emotiva e procreativa della donna. Tale associazione genererebbe una relazione di potere e dominio tra i generi, in quanto la cultura (l’uomo) creerebbe e sosterrebbe dei sistemi di significati (simboli, opere, eccetera) che consentirebbero all’umanità di allontanarsi dalla natura (la donna), di manipolarla per i propri scopi e di controllarla.

Non più disposte a interpretare il ruolo di “natura”, ma decise a entrare in tutti i campi della cultura, con questa opera/manifesto Barbara Kruger dà voce a una delle battaglie portate avanti dalle donne proprio fra gli anni ’70 e gli anni ’80. La seconda ondata di femminismo stava cambiando la coscienza collettiva e ciò inevitabilmente si rispecchia nella produzione artistica del periodo.

Io, Tu, Noi, Loro: un’arte femminista

Le opere di Barbara Kruger sono femministe perché riproducono la sua coscienza politica, perché riflettono su cosa voglia dire essere una donna in una società ancora troppo maschilista, mettendo in risalto le pressioni sociali e la violenza psicologica che essa si ritrova a subire. I suoi lavori sono femministi perché indagano temi come l’identità, gli stereotipi, i ruoli assegnati alle donne e la loro immagine fuorviante nei media. E lo sono perché lo fanno con un linguaggio semplice che ha come scopo quello di sensibilizzare l’opinione pubblica su questi argomenti.

Gli slogan creati dall’artista presentano quasi sempre dei pronomi, attraverso i quali il significato del discorso viene avvicinato al destinatario, che è spinto a identificarsi e a muoversi fra l’“io” e il “tu”, fra il “noi” e il “voi”.  Si tratta di un metodo “economico” per affrontare e implicare lo spettatore.

Osserviamo qualche esempio.

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In “We have received orders not to move”, (“Abbiamo ricevuto l’ordine di non muoverci”, NdR) il soggetto sottinteso è riferito alle donne, letteralmente pinzate al muro e poste sullo sfondo, a rimarcare il loro ruolo marginale. Lo scopo, ancora una volta, è quello di smuovere le coscienze e generare un movimento.
Esplicitamente politica è la finalità d’uso del più famoso “Your body is a battleground” (“Il tuo corpo è un campo di battaglia”, NdR), realizzato per la Marcia delle donne tenutasi a Washington D.C. nell’aprile del 1989, a favore dell’aborto: il tema trattato è dunque il diritto delle donne di scegliere e di gestire il proprio corpo. Il volto della figura femminile è costruito sul contrasto fra positivo e negativo, che lo divide verticalmente. Si tratta di una separazione che gioca sullo scontro fra bianco e nero, fra buono e cattivo: in una di queste due categorie le donne vengono continuamente e arbitrariamente iscritte, senza concessioni di sfumature.

Chiedendo al pubblico un punto di vista politico o sociale, Barbara Kruger intende trasformare lo spettatore da elemento passivo a soggetto attivo, o perlomeno, riflessivo.

Avviamoci alla conclusione con alcune opere che criticano l’immagine imposta alla donna; è il caso di “Super Rich, Ultra Gorgeous, Extra Skinny, Forever Young” (“Super ricca, Ultra bella, Extra magra, per sempre giovane”, NdR), una riflessione sui canoni e sulle pressanti richieste che gravano sulle donne, circa l’essere sempre giovane, bella, magra e possibilmente anche ricca.
Barbara Kruger si concentra qui sulla violenza esercitata dall’“idea di perfezione”.

In un discorso simile si inserisce “Not Stupid enough” (“Non abbastanza stupida”, NdR), in cui sopra e intorno a un primo piano del volto di Marilyn Monroe aleggiano le mancanze che impediscono alle donne di soddisfare a pieno questi canoni imposti loro. Esse appaiono non sufficientemente magre, brave, sorridenti… Sembrano non essere abbastanza in tutto, insomma. E, soprattutto, non sufficientemente stupide – è questa la frase su cui Kruger vuole fare soffermare la nostra attenzione – da voler continuare a farsi dire di non essere abbastanza.

Ancora molte sono le opere che potremmo continuare a citare, da “I shop therefore I am” (“Compro quindi sono”, sulla scia del cartesiano “Cogito, ergo sum”, NdR), dove Barbara Kruger critica la visione della donna come materialista e superficiale, a tutte le altre immagini che continuano a indagare i ruoli e le aspettative del femminile.

Ciò che è importante comprendere, in generale, è che tutta l’opera artistica di Barbara Kruger è stata dedicata, e lo è tuttora, a conoscere e a riprodurre le relazioni sociali della nostra realtà, in modo da aiutarci a cambiare il mondo.

“Penso che quello che sto cercando di fare sia creare momenti di riconoscimento. Per cercare di far esplodere una sorta di sentimento o di comprensione del vissuto.”

Quello che Barbara vuole dirci è che dobbiamo essere libere di pensare a noi stesse fuori dagli schemi e da tutte quelle voci esterne che cercano di privarci del nostro valore.
We don’t need another hero: non abbiamo bisogno di un altro eroe; siamo noi le protagoniste della nostra storia.