Articolo di Margherita Brambilla
Beyoncé è femminista?
È una domanda, che ci crediate o meno, piuttosto scottante. Preparatevi perché, che lo vogliate o no, questo è un viaggio che bisogna fare; se l’ho sopportato io dovete sopportarlo anche voi.
A meno che non viviate in un bunker, qualcuno nelle ultime settimane vi avrà parlato di Lemonade; il 23 Aprile Beyoncé ha pubblicato il suo nuovo album e, come da programma, al suo segnale si è scatenato l’inferno. Il Bee Hive (i fan di Beyoncé) non ha niente da invidiare a Massimo Decimo Meridio.
Però c’è qualcosa che nel passaggio di notizie dagli USA all’Italia si è perso: la questione del tradimento e del femminismo afroamericano di Bey. Se viaggiate per il web anglofono probabilmente siete già incappati nelle due discussioni, ma, dato che anche negli USA non si sa bene che pesci pigliare, io ne approfitto e lancio la mia esca.
Ma andiamo con ordine.
Tra il 2008 e il 2011 Bey se ne esce con qualche primo, timido tentativo di femminismo pop; parliamo di If I were a boy e di Run the world (girls). Nessuno osa ancora parlare di femminismo, perlomeno non con questo termine; al massimo si parla di girl power, una cosa concettualmente molto diversa che nella musica pop non è una novità e non ci si scompone troppo.
Tra il 2013 e il 2014, la star rilascia inaspettatamente l’album Beyoncé senza promozione vendendo comunque un milione di copie in sei giorni, di cui 80.000 solo nelle prime tre ore. È pur sempre Beyoncé, e Beyoncé è prima di tutto un marchio che vende. Ma cosa vende questo disco rispetto ai precedenti?
A quanto pare femminismo afroamericano.
Siamo nello stesso periodo in cui Shailene Woodley, Lady Gaga, Kailey Cuoco e tantissime altre celebrità in varie interviste rifiutano l’etichetta “femminista”; che Bey si dichiari femminista ha un peso importante a livello mediatico. L’album contiene in particolare il brano Flawless, un pezzo che è finito sulle magliette di tutte le attiviste degli Stati Uniti e non solo, e che contiene stralci dal testo di Chimamanda Ngozi Adichie Dovremmo essere tutti femministi; viene accompagnato ai VMAs da questa scenografia.
Piuttosto chiaro, parrebbe, ma non tutti apprezzano; oltre ai detrattori del femminismo che non gradiscono questa presa di posizione da parte di un’icona del pop così amata e così trasversale, tra alcune attiviste si fa strada una voce piuttosto sentita: e se Beyoncé non fosse poi così femminista? Molte ricordano infatti che solo nel Maggio del 2013, sette mesi prima del rilascio dell’album, Bey aveva rifiutato l’etichetta in un’intervista a Vogue spiegando la sua posizione con il fatto di essere sposata:
That word [feminism] can be very extreme… I do believe in equality… but I’m happily married. I love my husband. Why do you have to choose what type of woman you are? Why do you have to label yourself anything? I’m just a woman, and I love being a woman.
Le critiche fioccano: bell hooks, storica e importantissima autrice femminista afroamericana, parla dell’immagine di Bey come di una figura non radicale, sessualizzata per sua stessa scelta, sottomessa alle regole dello showbiz e che vende il femminismo come semplicemente un nuovo prodotto da aggiungere al suo marchio mentre è semplicemente una ricca donna di successo senza alcun problema che in passato ha fatto un tour col cognome del marito.
http://livestream.com/TheNewSchool/Slave/videos/50178872
Alcune critiche vengono anche da Annie Lennox, che nello stesso anno si scaglia contro il twerking di Beyoncé, sostenendo che fosse incoerente con una posizione femminista e riuscendo anche a infilarci un “ma nessuno pensa ai bambini?”.
I do not agree. It’s not empowerment from my perspective. It’s demeaning. There’s nothing wrong with sexuality. Sexuality is a fantastic thing, but in performance when people have a very young audience, it’s totally inappropriate.
Altri invece apprezzano. Si tratta soprattutto di femministe dell’ultima ondata che vedono nella sessualità espressa da Beyoncé un simbolo di potere personale e di celebrazione della bellezza nera. Il femminismo afroamericano dalla sua nascita si batte contro lo stereotipo della donna nera brutta, indesiderabile, mascolina e lavoratrice: una donna nera in un matrimonio felice, considerata universalmente bellissima e che mostra senza remore la sua autostima e la sua femminilità è a suo modo un simbolo radicale, utile e femminista.
Ma Beyoncé è Beyoncé e onestamente non le interessa. Nel 2014 collabora con Nicki Minaj a Feelin’ myself, una canzone che senza troppi giri di parole parla di autostima al massimo e di masturbazione. Bey ha preso una posizione.
Fast forward al 2016 e a Lemonade; l’album è preceduto da un singolo e da un video che negli Stati Uniti scatena il panico: Formation, cantato e ballato da Bey al Super Bowl. È un testo profondamente politico, intriso di cultura afroamericana degli Stati Uniti del Sud: nel videoclip le uniche comparse bianche sono dei poliziotti che alzano le mani in segno di resa di fronte a un bambino nero che balla.
Questa specifica immagine dà il via al dibattito perché, per un americano, significa una cosa sola: #blacklivesmatter, il movimento nato nel 2013 che manifesta contro la violenza nei confronti dei neri da parte della polizia e delle istituzioni.
L’America esplode. È un tema scottante, soprattutto perché #blacklivesmatter nasce a seguito di una serie di omicidi perpetrati dalla polizia nei confronti di cittadini neri innocenti, o colpevoli di reati minori (come, a quanto pare, aver venduto sigarette senza licenza, o avere un aspetto pericoloso); in particolare, il caso Michael Brown aveva ricevuto l’attenzione anche da parte dei media esteri perché le manifestazioni pacifiche nella città di Ferguson erano state brutalmente represse. Come se non bastasse, nel video di Formation si possono vedere alcune delle madri delle vittime tenere in mano le foto dei figli; è esplicito, inequivocabile. Un pugno in faccia.
Schierarsi con un movimento considerato radicale e legato all’attivismo concreto è una novità per Bey, soprattutto perché è un movimento…nero. Molto nero. E questo all’America bianca evidentemente non piace.
Altre cose molto nere di Formation.
• La figlia di Bey, Blue Ivy, compare mentre la mamma canta di adorare i suoi “capelli afro” (questa cosa dei capelli ricordatevela perché ci torneremo).
• A Bey piace tantissimo il suo naso con le narici da Jackson Five
• Bey tiene una bottiglia di salsa piccante nella borsa – perché a quanto pare i bianchi americani non mangiano piccante per antonomasia.
• Martin Luther King.
• Riferimenti all’uragano Katrina e a New Orleans la cui enorme comunità afroamericana fu la più danneggiata e la più trascurata.
• Riferimenti visivi alle vecchie case coloniali delle piantagioni del Sud.
• Un ragazzo nero vestito da cowboy; contrariamente all’immagine cinematografica del cowboy esclusivamente bianco, nel far west un cowboy su quattro era nero.
• I just might be a black Bill Gates in the making.
Ora fermiamoci e facciamo un bel respiro perché stiamo andando in sovraccarico d’informazioni. Direte “Ma a me cosa importa? Io volevo solo ascoltare una canzone” e io per tutta risposta vi faccio sapere che esistono i cowboy neri. Ma è colpa vostra che ascoltate Beyoncé, ora non potete scappare.
Perché Bey ora è politica.
I bianchi americani nel frattempo se ne rendono conto e s’infuriano. Uno sketch di SNL mostra il mondo dopo Formation; i bianchi impazziscono perché non capiscono i riferimenti della canzone, e inorriditi si rendono conto di due cose: 1) Beyoncé è nera e 2) Formation non è per loro.
Lo sketch esagera ma non troppo; Twitter è già pieno di fan stizziti che non gradiscono questa transizione da bella statuina danzante a eroina femminista “black power” e compagnia bella.
Le altre femministe afroamericane cominciano ad analizzare il lavoro di Beyoncé e non disprezzano, perlomeno per quanto riguarda Formation. Insomma, Bey è finalmente radicale, non scusabile, non ipersessuale, politica e nera – per quanto pur sempre molto pop.
Ma non poteva durare a lungo, ed è la volta di Becky-belli-capelli.
Esce l’intero album. A quanto pare il tema principale di Lemonade è il tradimento subito da Beyoncé da parte del marito Jay-Z; da qui scaturiscono decine di articoli di gossip e le ovvie battute sul fatto che se anche Beyoncé ha le corna possiamo stare freschi tutti.
A quanto pare la donna “incriminata” sarebbe una certa Becky with the good hair menzionata in Sorry; negli articoli italiani a riguardo si riescono a reperire alcune delle speculazioni sull’identità della donna: forse è Rachel Roy, forse è Rita Ora. Il Bee Hive si scatena inondando di emoji di limoni i profili Instagram delle possibili adultere – un’idea evidentemente geniale – evitando accuratamente di mandare limoni a Jay-Z, tra le altre cose.


Ma c’è una cosa che in tanti articoli italiani non è arrivata: i bianchi americani su Twitter si scatenano ancora di più.
Ricordate quando parlavo dei capelli afro di Blue Ivy? Negli Stati Uniti “good hair” significa “capelli lisci, setosi, da donna bianca” e per molto tempo nelle comunità afroamericane questo è stato uno standard di bellezza che si cercava di raggiungere con pesanti permanenti chimiche e/o con parrucche cucite sui capelli intrecciati (weave). Il modello persiste ancora oggi.
Negli anni ’60 il movimento femminista americano vede la nascita di una branca, il Black feminism sopraccitato, che sostiene che la questione razziale debba essere parte del discorso femminista perché, in termini di discriminazione subita, c’è una grande differenza tra l’essere una donna bianca e l’essere una donna nera. Il movimento porta anche con sé una critica dei canoni di bellezza comuni e a una diffusione del natural hair movement; perché per essere belle le donne nere devono assomigliare alle bianche? Via alle capigliature afro, alle treccine, ai cornrows, ai locks e compagnia bella.
Quindi “good hair”= standard di bellezza imposti dalla supremazia bianca.
Poi, Becky. Becky è un nome da americana bianca, e da bianca antipatica a quanto pare. Nel video dell’intramontabile Baby got back di Sir Mix-a-lot – la canzone che ha fatto nascere Anaconda di Nicki Minaj – due ragazze bianche con accento snob commentano il sedere di una donna nera giudicandolo enorme, volgare, da prostituta e concludendo con un “è così…così…nera“. Una delle due ragazze, ovviamente, si chiama Becky.
“Becky” è anche un soprannome che il Web ha regalato a Taylor Swift; a buon intenditor poche parole.
I bianchi americani su Twitter conseguentemente accusano Beyoncé di razzismo; la rapper Iggy Azalea si lancia in uno sfogo su come l’uso del nome “Becky” sia razzista nei confronti delle donne bianche e che “oddio, certo, l’album è bellissimo ma dont ever call me a becky”. Attiviste e femministe nere commentano che, poiché il razzismo è un sistema istituzionalizzato di discriminazioni e non un semplice insulto, non è possibile fare razzismo contro i bianchi e Iggy Azalea, poiché ha nel suo passato una serie di fondatissime accuse di essere una pessima rapper e di aver adottato un’immagine hip-hop afroamericana per avere più successo nel settore pur essendo bianca e australiana, incassa e porta a casa in silenzio.
Gli americani si sono inceppati di nuovo e noi siamo ancora qui senza capire cosa stia facendo Beyoncé.
Quindi anche Lemonade è un “good hair” vs “afro hair”, “donna bianca” vs “donna nera”? Non si capisce. Ma soprattutto, per che cosa sarebbe questa competizione? Qual è il traguardo per il quale competono queste due donne a quanto pare assurte a simbolo della loro razza?
È Jay-Z?
Le femministe afroamericane – e non – storcono il naso (oserei dire a ragione, se ci stessi capendo qualcosa), perché tutta la celebrazione della blackness di Beyoncé finisce in secondo piano di fronte a questa gara con le altre donne per le attenzioni di un uomo a quanto pare persino fedifrago.
Quindi che cos’è Beyoncé? Il suo attivismo è solo un’immagine utile e comoda in questo momento di grande popolarità del femminismo? Non si spiegherebbe l’autogol di Formation, che in termini d’immagine è una perdita enorme. È un impegno sincero? Forse, però secondo molti non è utile se poi si perde nell’eterna lotta per l’attenzione di un uomo.
O forse ci stiamo tutti mordendo la coda e basta. Tra sessualizzazione ed empowerment, femminismo afroamericano e femminismo bianco, vita personale e finzione mediatica leggiamo tra le righe cose che forse non ci sono, etichettiamo azioni e persone secondo i nostri criteri personali e pretendiamo di sapere che un album sia autobiografico quando (magari, dico magari) non è vero niente; considerato che Jay-Z stesso ha prodotto l’album, io ho tratto le mie conclusioni.
Quindi Beyoncé è femminista? A un certo punto l’ha detto lei stessa, con Chimamanda Ngozi Adichie: crede nella uguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi. Questo basta. Tutto il resto è criticabile, confutabile, disputabile. Ma forse ci dimentichiamo che il femminismo non è né una gara a chi è più femminista né una card per le popstar da revocare ogniqualvolta facciano qualcosa con cui non siamo d’accordo o da assegnare al minimo segno di girl power.
E pensare che a me neanche piace Beyoncé.
io non capisco perchè Beyoncè non possa essere “iper-sessuale” e femminista. La sessualità e l’eros e il sexy fanno parte dell’umano e non sono degradanti. Essere sexy non è degradante, è una osa che fa parte dell’umano. Non capisco perchè Formation dovrebbe essere un autogol, e non capisco perchè una donna nera non possa avere capelli lisci /per natura o no) senza essere accusata di essere vittima inconsapevole degli standard bianchi.
E comunque dato che molti afro-americani a partire dal presidente hanno almeno un antenato bianco tutte ste diatribe sui capelli hanno poco senso
e poi che vuol dire “radicale”, Beyoncè è pur sempre una imprenditrice e businesswoman (con ideee progressiste ma non anticapitaliste) mica una rivoluzionaria comunista
Ciao, davvero bello l’articolo! Mi chiedevo: Di preciso che differenza c’è tra il girl power e femminismo vero e proprio?
Il femminismo contiene il girl power.
Il girl power è legato alla terza ondata femminista e si concentra sulla sorellanza, sulla capacità delle donne di fare tutto ciò che fanno anche gli uomini. È andato molto in voga negli anni 90 e nei primi anni 2000 ma è un concetto superato.
Ora ci troviamo nella quarta ondata femminista, quella che chiede agli uomini di fare parte del discorso.
Insomma, in un’ottica di inclusione che vuole uomini e donne pari, il girl power è sicuramente iconico ma ormai un po’ limitante, perché non lascia spazio alla quota maschile.