Articolo di Beatrice Carvisiglia
Ad alcuni di noi capita talvolta di ripensare alle scelte, alle motivazioni, ai cambiamenti di rotta che hanno determinato la scorza della nostre caratteristiche odierne. In questi casi può succedere di lasciarci trascinare dai ricordi di quei libri ingialliti e un po’ logori ai bordi, le pagine stinte per le mille pieghe fatte con le punta delle dita: i romanzi che abbiamo divorato quando eravamo ancora troppo piccoli per capirli davvero.
La letteratura per l’infanzia è un campo inaspettatamente sottovalutato, eppure quando si tratta di ripercorrere le tappe della nostra formazione, un libro letto, amato e consumato con l’energia spassionata tipica della curiosità vorace dei bambini è sicuramente un importante punto saldo, specie se il suddetto libro tratta di ingiustizie, sociali e non, di piccole donne che si guadagnano il loro posto nel mondo, comprendendo il valore della lotta pur nello spazio ristretto di una classe.
Per tale motivo ho scelto di scrivere del mio piccolo apprendistato di ribellione: lo faccio raccontandovi di Bianca Pitzorno, una tra le autrici viventi più importanti in Italia. Nella sua luminosa carriera di narratrice per l’infanzia e per gli adulti, più di tutto ha avuto il merito di introdurre con la leggerezza che si addice alla forma del racconto puerile quegli aspetti di vita che ciascuno di noi ha imparato a conoscere tramite i piccoli screzi della quotidianità, le emozioni istantanee che derivano da una passione istintiva, la forza che scaturisce dal poter fare affidamento su un gruppo di amiche leali, dal poter contare sugli stessi amici, dal saper fare fronte agli stessi nemici.
Ascolta il mio cuore è il libro che più sintetizza questa prospettiva d’insieme: ambientato in un paesino sardo negli anni del Dopoguerra, la protagonista assoluta del romanzo è Prisca Puntoni, bambina forte, cocciuta e instancabile scrittrice di racconti fantastici. Con la sua visuale empatica e originale, Prisca tira le fila della narrazione, lo sguardo che scivola tra le divisioni per “bancate” una comune quarta elementare: dalle Leccapiedi, figlie della borghesia alta e benpensante che disprezza e teme i poveri alla stregua di una malattia infettiva, ai Conigli, piccole ignave in miniatura che prendono raramente posizione, fino ad arrivare ai Maschiacci, di cui la nostra protagonista fa orgogliosamente parte assieme alle inseparabili amiche del cuore, Elisa e Rosalba.
Se non avete avuto la fortuna e il privilegio di leggere questo libro, fatelo ora: il cuore impazzito da piccola pasionaria di Prisca saprà conquistarvi nel giro di poche pagine.
Bianca Pitzorno traccia un quadro dell’ineguaglianza e delle dinamiche di bullismo tra pari – le piccole alunne – e dall’alto, l’autoritaria maestra Argia Sforza, untuosa e melinflua con le élite quanto strenua oppositrice delle classi sociali inferiori: lo fa ricorrendo alla forza primigenia delle immagini, tra le quali due sono particolarmente rilevanti e che valgono, da sole, la pretesa di raccontare un libro intero.
La prima nitida immagine appare già nel capitolo iniziale: è il nastro rosa a pallini celesti che le bambine devono procurarsi per essere ammesse in classe dalla nuova maestra, è l’indumento spartiacque di una società fortemente differenziata, in cui le figlie dell’avvocato e del medico posseggono il privilegio di essere accarezzate dallo sguardo docile e comprensivo della maestra; laddove le povere orfanelle, con le loro vesti misere e consunte, sono trapassate dagli occhi ostili con freddezza classista. L’ipocrisia dell’apparenza, il disprezzo per la sporcizia manifesta e non più relegata in casa, i limiti imposti dall’ambiente classe, specchio ridotto delle logiche del mondo adulto: il nastro concettualizza e veicola tutto ciò con la potenza, semplice ma effettiva, di un oggetto quotidiano, un fiocco a pois sulla testa delle bambine.
La seconda importante immagine è il nervo pulsante del romanzo: la metafora della tachicardia di Prisca, un battito accelerato del cuore che la immobilizza e le fa esplodere il sangue nelle vene di fronte all’ingiustizia e all’impossibilità di porvi rimedio. Solo nel mondo della scrittura Prisca rovescia il senso del mondo volgare a cui appartiene la maestra e parte della società che abita, rivoltando i valori borghesi di pulizia e ordine in grotteschi racconti in cui tale morale è sbeffeggiata, mettendone in risalto la povertà e l’inconsistenza spirituale.
La maestra dileggia la scarsa pulizia delle compagne? Prisca scrive di una donna terribile e arcigna, che sconta la sua ossessione per la pulizia esteriore tramutandosi in un essere orribile e lercio, per poi essere risucchiata come melma dallo scarico della vasca.
Le due orfane vengono derise per il loro cucchiaio di stagno, vecchio e logoro, con il quale sono costrette a ingoiare olio di fegato di merluzzo? Prisca racconta di un’orripilante vendetta ai danni della maestra, che si attua proprio attraverso un cucchiaio magico.
Insieme a Elisa inaugura il “quaderno delle ingiustizie”, dividendo i trattamenti ricevuti tra meritati e profondamente ingiusti. Sottopone la sua amica, fortemente limitata dalla timidezza e dal carattere pudico, a un vero e proprio apprendistato di ribellione, insegnandole l’arte smaliziata della provocazione e della lotta senza esclusione di colpi.
Il romanzo si riempe poi di mille personaggi, che travasano la logica del mondo degli adulti col filtro dello sguardo di Prisca, dall’affascinante cardiologo Leopoldo, di cui la bambina è segretamente innamorata, al Direttore dell’istituto, paternalistico e gretto, i genitori dei bambini, da quelli più comprensivi a quelli più superficiali, arrampicatori sociali di tutti i tipi, esponenti dell’antica nobiltà: tutto confluisce nel ritratto di un’Italia nuova ma ancora misera, affamata e parzialmente analfabeta, in difficoltà rispetto al correre dei tempi.
Bianca Pitzorno insegna l’arte dell’irriverenza ai ragazzi con la dolcezza di una fiaba dolceamara, in cui l’esercizio alla ribellione non è un semplice fatto di sfondo, ma un invito concreto alla presa di posizione tramite le armi della fantasia e dell’immaginazione. Riesce in questo scopo perché ci trapianta gli occhi di una bambina appassionata e immaginifica, attraverso i quali riusciamo a vedere i difetti costitutivi del mondo che abitiamo, l’avidità, la falsità, la vigliaccheria; ma anche i suoi innegabili pregi, tra sprazzi di solidarietà, empatia e l’infrangibile rete dell’amicizia femminile.
In tal senso la letteratura per l’infanzia attualizza ancora problemi irrisolti della società e li tramuta in disegni dal tratto lieve, conducendo generazioni di bambini verso finestre tematiche che possono e devono rimanere aperte, anzi spalancate, in età adulta: per ricordarci che i quotidiani atti di ribellione non sono fatti isolabili ma prassi da interiorizzare e adempiere, che l’inclusione non può essere sostenuta solo a parole, ma concretizzata nei fatti, che possiamo darci e dare coraggio, che anche una risata o uno scherzo infantile possono seppellire le logiche crudeli di una società iniqua.
Chi legge questo libro impara che ribellarsi spesso è una questione di piccole cose: come in una classe di quarta elementare, basta ricordarsi che è proprio diritto e dovere alzarsi in piedi e dire la verità.