Una domenica pomeriggio di fine novembre 2017.
Ahmedabad, India.
Mi trovo in una stanza d’hotel nel centro della città, intenta ad agghindarmi per partecipare al matrimonio di un caro amico.
Trucco marcato per mettere in risalto lo sguardo, rossetto rosso acceso, bracciali vistosi, una collana di perle gigante, orecchini jhumka e, dulcis in fundo, un sari blu e oro.
È la terza volta che ne indosso uno, ma ovviamente non ho ancora imparato a farlo da sola. Mossa a compassione dalla mia immensa goffaggine nel gestire i sei metri di tessuto che dovrei avvolgermi addosso per dare forma all’abito, la mia compagna di stanza viene in mio soccorso e inizia il procedimento – che ai miei occhi sembra sempre una sorta di meraviglioso rito magico – fatto di pieghe e spille da balia.
Ci siamo conosciute due giorni prima: entrambe invitate all’evento, ci hanno alloggiate nella stessa stanza, così ci siamo trovate a condividere non solo quegli spazi, ma anche lunghe chiacchierate la sera, prima di addormentarci.
Non potremmo essere più diverse.
Io, studentessa italiana, sognatrice e un po’ ribelle, che mi sento appena entrata nell’età adulta a 23 anni.
Lei, con una solida carriera manageriale, sposatasi, per volere dei genitori, con un uomo che non conosceva, madre di una bambina nata e cresciuta in una grande città dell’India del Sud, e che si sente vecchia a poco più di 35 anni.
Mentre mi aiuta a indossare il mio vestito mi chiede se ho l’abitudine di andare spesso nei saloni di bellezza quando sono in Italia. Io le rispondo che in realtà non ci sono mai stata. Non ricordo le parole esatte con cui ribatte, ma si avvicinano molto a:
<<Fai bene, non ne hai mica bisogno! Sei molto bella, e sei bianca. Io invece spesso ci vado, perché sono nera>>.
Le sue parole mi lasciano un senso di vuoto dentro.
Mi giro a guardarla: ha una pelle liscissima, non una ruga, non un’imperfezione, gli occhi grandi e profondi, un sorriso armonioso e dei folti capelli ricci. È una donna molto bella, e sta decisamente benissimo nel suo sari color ocra (che indossa con estrema naturalezza, a differenza della sottoscritta che ha la disinvoltura di un manichino).
Mi lascia sgomenta il fatto che si consideri meno bella di me semplicemente perché io sono chiara – o “cadaverica” come mi sono spesso sentita dire in Italia, giusto per far capire come cambino gli standard di bellezza da un continente all’altro – e lei è scura.
Provo a dirle che anche lei è bellissima, cercando di argomentare che il colore della sua pelle non le impedisce affatto di esserlo. Dall’espressione sul suo volto, però, capisco che non è affatto convinta dalle mie parole, come se non riuscisse a prenderle sul serio.
“Razzismo” vs “Colorismo”
Ho perso il conto delle volte che mi sono trovata in situazioni analoghe durante i mesi che ho trascorso in India. Ogni volta rimango interdetta. Anzi, proprio infastidita da questo genere di esclamazioni che non riesco a prendere come complimenti.
In Italia ho spesso vissuto sulla mia pelle cosa significa godere di white privilege: mi è capitato diverse volte di trovarmi in situazioni in cui ho avuto la netta sensazione di aver avuto “una vita più facile” per via dei miei tratti somatici.
Quello in cui mi sono imbattuta in India, però, è una sfumatura diversa, una discriminazione più sottile e per questo forse ancora più pericolosa: il “colorismo”.
Il concetto di “colorismo” è molto semplice: si tratta in sostanza della credenza secondo cui le persone con una pelle scura siano intrinsecamente inferiori rispetto a quelle con una pelle più chiara. La differenza rispetto al razzismo è che la discriminazione non si basa sul gruppo etnico a cui appartiene una persona, bensì alle caratteristiche fisiche proprie di un individuo. Ciò significa che il colorismo si manifesta anche all’interno di una comunità etnica (mentre il razzismo discrimina gli appartenenti alle altre comunità): questo modo di pensare è così radicato che viene portato avanti anche dai suoi stessi membri, i quali si discriminano a vicenda.
Il fenomeno non è diffuso solamente in India bensì in tutta l’Asia Pacifica, negli Stati Uniti e Canada, nei Caraibi, America del Sud e Africa.
Come spiega Trina Jones, ricercatrice americana da anni impegnata nello studio di questo fenomeno, la distinzione è fondamentale in quanto, se ci fermassimo alla sopra-categoria, non ci renderemmo conto che, per esempio, all’interno della comunità afroamericana, alcune persone (quelle con la pelle molto scura) hanno una vita più difficile di altre (con la pelle un po’ più chiara), o non riusciremmo a comprendere appieno alcune dinamiche che avvengono nei paesi asiatici.
Il concetto di colorismo è molto importante da un punto di vista intersezionale, perché richiama la nostra attenzione sul fatto che all’interno di una comunità discriminata esistono persone più discriminate di altre, ricordandoci quindi che c’è bisogno di un doppio sforzo se si vuole raggiungere una società più equa.
E quindi in India?
In India le origini del fenomeno sono da ricercare scavando nel profondo della cultura dal paese, risalendo fino al sistema delle caste.
La casta più “alta”, ovvero quella dei Brahmin, è associata a un ideale di candore e purezza, che viene rappresentato con una carnagione chiara. Al contrario, le caste inferiori sono associate a una pelle più scura, fino ai cosiddetti “intoccabili” (gli “immondi”, esclusi dalla struttura piramidale perché “indegni” anche di essere considerati parte del sistema delle caste), che hanno una carnagione pressoché nera.
A questi ultimi, un tempo considerati quasi alla stregua degli animali, non era concesso l’accesso ai servizi igienici e alle basilari pratiche sanitarie, condizione che li rilegava a vivere nella sporcizia. Tutto questo non ha fatto altro che rafforzare l’associazione “nero = sporco = intoccabile”.
Sebbene il sistema delle caste sia stato ufficialmente abolito nel 1950 con l’entrata in vigore della Costituzione Indiana (articoli 16 e 17), nella pratica molte delle tradizioni dettate da questo sistema millenario sopravvivono nella vita quotidiana, specialmente nel sistema di valori di quella fetta di popolazione che non ha accesso all’istruzione.
Anche la mitologia induista fa la sua parte, rappresentando le divinità positive (come Shiva e Ram) e gli eroi con la pelle chiara, in contrasto con i demoni e le figure maligne che hanno la pelle scura. Emblematico è anche l’episodio in cui il dio Shiva schernisce la moglie Paravati perché nera.
L’epoca del colonialismo britannico (1858-1947) ha poi contribuito a far sedimentare ancor di più la credenza della superiorità della pelle chiara, in quanto per quasi un secolo tutte le figure che detenevano potere, autorità e ricchezza economica avevano dei tratti somatici inglesi. Anche per quanto riguarda i canoni di bellezza femminile, in quegli anni, crebbe a dismisura la fascinazione per le donne con capelli e carnagione chiari.
È chiaro che un sistema di valori costruito e accresciutosi in secoli e secoli di storia sia estremamente difficile da modificare. Un cambiamento culturale sarebbe possibile, ma certamente avverrebbe a un ritmo molto lento.
Il problema sta nel fatto che la convinzione che la pelle chiara sia l’ideale di bellezza più alto continua ad essere portata avanti anche al giorno d’oggi. Il principale responsabile del fenomeno, oggi, è l’industria dei media, in particolare quella cinematografica: nelle campagne pubblicitarie, sulle copertine dei giornali, in televisione sono rappresentate solo donne bianche, oppure indiane con caratteristiche fisiche decisamente occidentali (modifiche spesso fatte in post-produzione su modelle indiane con tratti somatici più comuni).
Centrale è il ruolo di Bollywood, la colossale industria del cinema indiano che costituisce il più importante meccanismo di fuga dalla realtà per centinaia di migliaia di persone – ricordiamo sempre che stiamo parlando di un paese con 1,3 milioni di abitanti. Tutti gli attori di maggior successo, a cui spettano quindi i ruoli da protagonista nelle storie in cui gli spettatori si immedesimano, sono accomunati da una pelle molto chiara. Personalità come Aishwarya Rai, Hrithik Roshan, Amitabh Bachchan e Shah Rukh Khan sono tra i volti più noti prodotti dall’industria cinematografica indiana, e sono gli stessi che finiscono per comparire sui cartelloni pubblicitari, scelti dai brand come testimonial. Ancora una volta il problema si può riassumere in tre parole: mancanza di rappresentazione.
Quando la discriminazione diventa business
La rappresentazione mediatica degli ultimi 40 anni non ha fatto altro che accrescere la fascinazione per la pelle chiara, trasformandola in un vero e proprio “fetish”.
Questo trend è stato subito percepito dalle aziende di cosmesi come una straordinaria opportunità per fare soldi. All’inizio degli anni ’70, infatti, hanno iniziato a comparire sul mercato una serie di prodotti schiarenti per la pelle: non che rimedi analoghi non fossero mai esistiti prima (anzi famose sono alcune preparazioni ayurvediche che servono proprio a questo scopo), ma questo momento è fondamentale perché sono scese in campo le grandi multinazionali del settore beauty, portando con sé la loro expertise in fatto di marketing e comunicazione.
Sono tante le creme entrate in commercio in quegli anni, ma la più iconica – anche per via del suo nome – è senza dubbio la Fair and Lovely lanciata nel 1975 da Unilever, che a oggi costituisce il prodotto di skin care più venduto in India.
Le campagne di comunicazione di questi trattamenti seguono tutte la stesso storyline: la protagonista è frustrata e insoddisfatta della sua vita per motivi che possono essere sentimentali o professionali, poi un’amica o una parente le consiglia di usare il prodotto pubblicizzato. Dopo qualche settimana di utilizzo, la pelle della protagonista è diventata più chiara (viene mostrato il confronto prima-dopo) e come per incanto il problema iniziale si risolve: l’amante prima disinteressato si innamora di lei; riceve una chiamata per il colloquio di lavoro dei sogni; viene selezionata per posare come modella; si laurea con il massimo dei voti.
Viene detto chiaramente: la pelle chiara è la chiave del successo, sia sul lavoro che in amore. Pubblicità che seguono questo schema continuano ad essere prodotte ogni anno, trasmesse in televisione, affisse per le strade delle città, riprodotte prima dei video monetizzati su Youtube. Così lo stigma della pelle scura viene rafforzato quotidianamente.
Il mercato dei trattamenti schiarenti si rivolge sia agli uomini che alle donne, anche se sono queste ultime a ricevere le pressioni maggiori.
Se già nei paesi occidentali la mercificazione del corpo femminile è all’ordine del giorno, in India si aggiunge anche l’industria dei prodotti schiarenti a fornire alle donne nuovi sorprendenti motivi per essere insicure del proprio fisico.
QUI è possibile vedere una compilation di pubblicità che spiegano come un viso bianco permetta di riconquistare l’ex fidanzato di cui si è ancora innamorate, come delle parti intime più chiare garantiscano una vita sessuale più felice e come persino delle comuni ascelle, se sbiancate, possano aiutare a far perdere la testa al proprio uomo.
L’apice della “mercificazione” si raggiunge nel mercato matrimoniale: ancora oggi in India circa l’80% dei matrimoni sono combinati e uno degli strumenti più usati dalle famiglie per trovare lo/la sposo/a perfetto/a per i propri figli sono degli appositi siti internet dedicati agli annunci matrimoniali. Qui ogni candidato è presentato con una descrizione, e uno dei requisiti più ricercati è ovviamente il fatto di avere una pelle chiara. Più una ragazza è bianca, più è richiesta.
La cosa non sorprende dal momento che le pubblicità insistono su come una carnagione chiara sia una caratteristica essenziale per un matrimonio di successo. Numerosissimi sono anche i trattamenti sbiancanti a cui si sottopongono le future spose in vista del giorno del loro matrimonio. Si tratta di un’industria enorme, che fattura ogni anno milioni di rupie.
C’è una luce alla fine del tunnel?
Sebbene ci vorrà molto tempo prima che un cambiamento di mentalità penetri in profondità nel tessuto sociale, bisogna prendere atto che le nuove generazioni stanno prendendo una sempre maggiore consapevolezza del problema. La cultura si evolve lentamente, è vero, ma lentamente qualcosa si muove.
Negli anni più recenti si sono iniziate a sentire alcune importanti voci fuori dal coro che denunciano l’inammissibilità dell’equazione “Bianco = Bello” (perché di fatto in India i termini “fair” e “beautiful” sono usati come sinonimi).
Tra i nomi più noti pubblicamente impegnati in questa battaglia troviamo Nandita Das, nota attrice di Bollywood che da diversi anni collabora con la ONG Women Of Worth per la campagna “Dark is Beautiful”, al fine di promuovere la naturale bellezza delle donne indiane.
Nell’aprile 2017 l’attore comico Abhai Deol ha iniziato a condividere sulla sua pagina Facebook post satirici in cui punta il dito contro le campagne dei più noti marchi di prodotti sbiancanti che vedono come protagonisti alcuni suoi illustri colleghi. Deol con il suo tono sarcastico non esita a mostrare come la maggior parte delle foto promozionali siano modificate con Photoshop per ricreare artificialmente una pelle più chiara, e come a volte gli interventi si estendano anche a modificare altri tratti somatici come occhi e capelli. QUI un riassunto delle sue denunce.
Casi come questi sono ancora eccezioni, ma si tratta di una piccola rivoluzione culturale che con un po’ di pazienza si spera porterà a grandi cambiamenti.
FONTI (materiali utili per l’approfondimento)
Shevde, Natasha. All’s fair in love and cream: A cultural case study of Fair & Lovely in India, Advertising & society review 9.2 (2008).
Jones, Trina. The case for legal recognition of colorism claims. Shades of Difference: Why Skin Color Matters (2009): 223-35.
Jones, Trina. Intra-Group Preferencing: Problems of Proof in Colorism and Identity Performance Cases, 34 New York University Review of Law & Social Change 657-707 (2011)
Banks, Taunya Lovell. Colorism: A darker shade of pale, UcLa L. Rev. 47 (1999): 1705.
Li, Eric PH, Hyun Jeong Min, and Russell W. Belk. Skin lightening and beauty in four Asian cultures, ACR North American Advances (2008).