Elli de Mon all’anagrafe è Elisa De Munari.
Veneta, classe 1981, ha militato in diversi progetti musicali e da qualche anno è una One Woman Band, ossia suona da sola, contemporaneamente, più strumenti.
Sul palco, in pratica, c’è solo lei con la sua voce, la chitarra, la grancassa, i sonagli ed un amplificatore.
Si è esibita in Italia e all’estero, nei club e per festival, ha condiviso il palco con tantissimi artisti tra i quali (solo per citarne qualcuno) Afterhours, Reverend Beatman, the Monsters, Chuck Ragan, Bror Gunnar Jansson, Carmen Consoli.
Lo scorso novembre ha pubblicato Songs of Mercy and Desire, un disco che è un mix di rock, folk e blues.
Del disco, di com’è nato, ci ha parlato lei in un’intervista intensa, in cui abbiamo rivissuto il suo percorso musicale e le sue influenze, nonché indagato su cosa significhi essere donna, essere mamma ed essere al contempo musicista.
Elli, qual è stato il primo strumento che hai iniziato a suonare e qual è stato invece il primo disco che hai consumato?
Il primo strumento è stato la chitarra, da piccolina. Poi sono passata a tutti gli altri durante l’adolescenza.
I primi dischi che ho consumato forse sono stati i 45 giri delle fiabe sonore…invece il primo album ascoltato e riascoltato con consapevolezza è stata forse la cassetta registrata da un collega di mio padre, che mi aveva messo su nastro Led Zeppelin IV. Mi ricordo che obbligavo i miei genitori a mettere e a rimettere quella Basf scassata continuamente nell’autoradio.
Quando hai deciso di iniziare a pensare in prospettiva ‘One Woman Band’ abbandonando dinamiche di gruppo? Ti manca mai la dimensione di ‘band’? Quali sono i pro e contro, per te, del suonare da soli?
Ho cominciato a pensare di arrangiarmi all’ennesimo progetto di band sfumato. Far coincidere prospettive, impegni e progetti di più persone è sempre difficile. E quindi ho preso “baracca e burattini” e sono andata avanti da sola.
A volte la dimensione della band mi manca molto, soprattutto durante i viaggi in furgone da sola. Ma i pro del suonare da sola sono molti. Primo, sono un lupo solitario e ricerco spesso la solitudine. Secondo, posso gestire bene i miei impegni senza rendere conto a nessuno e senza dovere incastrare i mille casini di più persone. Terzo, tutto diventa molto più veloce quando si tratta di programmare tour o dischi. I contro sono prevalentemente di natura fisica… ossia fare tutto da soli a volte è sfibrante. Guida, smonta, rimonta, suona, rispondi al telefono, contatta tutti…ecco, a volte il divano diventa il tuo sogno più grande.
Per conoscere meglio il tuo percorso: ci fai una compilation con un tuo brano preso da ogni tuo lavoro di studio da quando hai iniziato?
Non tutte le band e i progetti con i quali ho suonato si trovano su Youtube, soprattutto quelli classici. Comunque per farvi un’idea posso mettervi qualcosa:
1. Almandino Quite Deluxe
2. The Hunzikers
3. Le-li
4. Kalahysteri
Ci racconti di Songs of Mercy and Desire?
Songs of Mercy and Desire è nato durante cambiamenti radicali per la mia vita. Pochi giorni dopo aver registrato il primo pezzo ho scoperto di essere incinta. La direzione dell’album che avevo in mente è cambiata, ha preso una via più acustica per assecondare i cambiamenti del mio corpo e delle emozioni forti che stavo vivendo. Contemporaneamente sono tornata a vivere nel paese dove sono cresciuta e questo mi ha spinto ad entrare in contatto con questioni vivide del mio passato e a farci i conti. La compassione del titolo è proprio questa: l’accettare se stessi, la propria storia e farne un punto di forza.
Sono diversi gli strumenti coi quali ti esibisci: come hai creato il set ‘perfetto’? Come hai trovato gli strumenti ‘più adatti’ al suono che volevi creare? Sei autodidatta? Che consiglio daresti a chi vorrebbe intraprendere un percorso musicale come il tuo?
Tutto è nato dall’accordatura aperta della chitarra. Suonare con le accordature aperte (ne uso tre diverse) si è rivelato subito funzionale al dover gestire tante cose perché le
posizioni della mano sono comode e la chitarra risuona molto di più, soprattutto l’accordatura in do.
Non sono autodidatta, sono diplomata in sitar e in contrabbasso e non escludo che in futuro il progetto possa declinarsi in qualcosa di totalmente diverso usando proprio quest’ultimo strumento.
Se dovessi consigliare qualcuno…direi più che altro di ascoltare quanta più musica possibile, di curare la musicalità più che la tecnica. A me personalmente ha arricchito tantissimo l’incontro con altre culture, la musica modale, i tempi ciclici e la poliritmia.
Sei donna, talentuosa, bella, indipendente: è stato facile inserirti nel circuito musicale? Hai trovato difficoltà in termini di discriminazione, sei stata mai sottovalutata?
Ho sempre dovuto dimostrare qualcosina di più, in tutti gli ambienti, sia quello classico che in quello rock. Purtroppo ci sono ancora degli stereotipi riguardo alle donne che suonano, se una poi gira da sola poi deve saper valutare al volo se una situazione è tranquilla o se occorre stare sull’attenti. I circuiti che frequento io per fortuna sono avulsi da certe dinamiche.
Come riesci a conciliare il fare musica e il fare la mamma?
Mi fa piacere tu me lo chieda, è la prima volta (non a caso sei una donna). La risposta sarà piuttosto lunga. Essere una madre musicista implica tante cose. Prima tra tutto il fatto che fai un lavoro che è tutelato pochissimo, perché poco riconosciuto. Le mie domande all’Inps hanno sempre fatto sbiancare gli impiegati, che non hanno mai avuto risposte per la mia situazione. Di conseguenza, godiamo di ben pochi diritti. E poi il fatto che sei costantemente in viaggio, in concerto, negli studi di registrazione, alle prove. Luoghi che non sempre si adattano ad un bambino. Conciliare l’essere mamma con questo tipo di vita, significa solo una cosa: avere una rete attorno a te che ti possa sostenere. E se non sei fortunata ad averla, a pensarci a darti una mano dovrebbe essere questo fantomatico Stato. Mi è capitato spesso di suonare all’estero, soprattutto al nord, e condividere il palco con musiciste con pargoli a seguito. Inevitabile confrontare la mia vita con la loro, e scoprire quanto i welfare dei loro Stati diano una reale mano a chi decide di fare questo passo. Io invece vivo in un paese, quello italiano, assolutamente ipocrita riguardo a questo tema: glorifica la madre per poi lasciarla sola al suo destino. Ci sono centinaia di storie su donne lasciate a casa a causa della loro gravidanza, storie che dimostrano l’ignoranza collettiva di cui tutti siamo responsabili. O di madri che devono rinunciare a tutto, al loro essere donne, per andare avanti. E questo è un grosso problema a livello economico, ma soprattutto culturale. Io mi sono ripromessa che mai avrei rinunciato alla musica, perché ne sarebbe andata della mia salute e di conseguenza anche a quella di mia figlia. Voglio che lei cresca sapendo che una donna può essere tante cose, che la sublimazione massima per noi non sta soltanto nell’avere un figlio; e tacciare quelle che la pensano in questo modo di essere donne superficiali ed egoiste fa parte di una sottocultura da estirpare. E fanno male tutti quei giudizi che la maggior parte delle persone si sentono legittimate a fare. Io ho capito che ogni donna ha la sua storia ed è troppo facile ergersi a giudici senza pensarci due volte. E, purtroppo, spesso questi giudici sono le donne stesse. Ecco perché è un’intera mentalità che deve essere cambiata.
In Italia ciò è ancora molto difficile e infatti molte musiciste (e professioniste di altri campi) decidono di andarsene. Non parlo di grossi nomi, ovviamente loro godono di privilegi che molte di noi non possono avere. E quindi per molte artiste underground, che vorrebbero avere figli, la scelta è davvero durissima: continuare con la musica o smettere e diventare mamma.
Si usa spesso, in recensioni ed interviste, parlando del tal musicista fare riferimenti ad altri artisti: qual è il paragone che più ti da noia? A quale artista, invece, ti piace/piacerebbe essere associata?
Finora non ci sono stati paragoni che mi hanno dato fastidio. Diciamo solo che il costante incasellamento nella scena blues mi va un po’ stretto, perché credo che le mie influenze vadano oltre. Sicuramente mi fa piacere essere associata a molti nomi, come quello di Jack White, PJ Harvey, Junior Kimbrough.
Qual è, da quando hai iniziato questo progetto, il concerto più bello di cui hai ricordo? Ed il ricordo che vorresti avere a marzo 2020 del 2019?
Ho un bel ricordo di tanti concerti…di sicuro il primo di spalla a Jon Spencer e poi uno a Kassel. Quel giorno arrivai e i ragazzi che organizzavano la data mi dissero che dovevo suonare in un sottopassaggio buio, grigio, triste, vicino alla stazione degli autobus. Già mi immaginavo con la chitarra e il cappello in modalità busker, e invece in tempi super rapidi questi tedeschi montarono un impiantone e il posto si riempì di un sacco di persone e punkettoni in vena di divertirsi. È stata una festa incredibile, soprattutto inaspettata.
Tra un anno vorrei avere il ricordo di un 2019 intenso e pieno di concerti.