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Cambiamenti climatici: cosa sono e come possiamo fermarli
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Cambiamenti climatici: cosa sono e come possiamo fermarli

Articolo di Alessandra Vescio

In questo articolo, abbiamo riassunto i temi chiave di una nostra inchiesta. Se siete interessat* ad approfondire l’argomento, scoprire l’impatto ambientale dei settori meno discussi al momento e capire cosa possiamo fare davvero per salvare il Pianeta, cliccando QUI potete scaricare gratuitamente il report completo. L’articolo e l’inchiesta sono state sponsorizzate da Lamazuna.

La questione dei cambiamenti climatici è una delle più importanti sfide dei nostri tempi, ma anche quella che maggiormente è riuscita a creare una frattura tra vecchia e nuova generazione. Così, mentre la politica sta a guardare, incapace di assumersi la responsabilità della scelta, le persone e soprattutto i più giovani lottano ogni giorno per salvare il Pianeta.

Il cambiamento climatico è un fatto reale e sta avvenendo sotto i nostri occhi. E a dirlo non siamo noi, ma la scienza. Non solo: il 97% degli scienziati che si occupano di clima concorda sul fatto che il cambiamento climatico è dovuto molto probabilmente all’attività umana.

Come si legge sul sito della Nasa, la temperatura media della superficie terrestre è aumentata di circa 0.9°C dalla fine del XIX secolo; i ghiacciai si stanno riducendo quasi in ogni parte del mondo e il livello del mare è cresciuto di circa 20 centimetri. Inoltre negli Stati Uniti sono aumentati gli episodi di intense precipitazioni e il numero record di alte temperature.

Nel 2018 l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, considerato come il principale ente internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici) ha pubblicato il rapporto “Special Report: Global Warming of 1.5°C”, in cui si mostrano cause e conseguenze del riscaldamento globale di 1.5°C. Quello che può sembrare un numero piccolissimo comporta invece cambiamenti devastanti. Oltre a sostenere che le attività umane siano la causa del global warming, l’IPCC afferma che, se si dovesse mantenere l’attuale standard di aumento delle temperature, è probabile che si raggiunga l’1.5°C già tra il 2030 e il 2052.

È un quadro allarmante, è vero, e contro certe evidenze sembra che si possa fare ben poco. Come si reagisce ad esempio ai dati riportati dal quotidiano britannico The Guardian, secondo cui ci sono 20 aziende dietro un terzo delle emissioni di carbonio? Oltretutto, dodici di esse sono di proprietà statale e insieme sono responsabili del 20% delle emissioni. “La grande tragedia dei cambiamenti climatici”, ha dichiarato al quotidiano inglese Michael Mann, uno dei principali scienziati sul clima, “è che 7 miliardi e mezzo di persone ne pagano le conseguenze – in termini di un Pianeta degradato – affinché un paio di dozzine di aziende inquinanti possano continuare a realizzare profitti record”.

Nonostante ciò, qualcosa si può ancora fare. Tutti riconosciamo l’importanza della raccolta differenziata e della necessità di ridurre l’uso dell’automobile, ma sappiamo anche che questo non basta più. Abbiamo individuato tre settori per nulla scontati, su cui possiamo agire; tre ambiti con cui ogni giorno ci interfacciamo e che – in modo subdolo – hanno un enorme impatto sull’ambiente. Perché, anche nel nostro piccolo, possiamo ancora cambiare le cose.

Mangiare carne è sostenibile?

“Ciò su cui tutti sono d’accordo, anche gli scienziati più conservatori, è che non abbiamo speranza di salvare il Pianeta – anche se facciamo tutto il resto – se non iniziamo a mangiare meno carne”. Così dice lo scrittore Jonathan Safran Foer in un’intervista all’associazione animalista Essere Animali. Molti infatti sono gli studi che dimostrano come, per diverse ragioni, l’attuale consumo di carne sia insostenibile per il nostro Pianeta. La causa principale sono gli allevamenti intensivi da cui proviene la maggior parte della carne che mangiamo e il cui potere inquinante si manifesta in modi diversi: dalla produzione di gas serra ai rifiuti organici fino all’abbattimento di foreste per la coltivazione dei mangimi da destinare al bestiame.

Secondo il report “Affrontare il cambiamento climatico attraverso il bestiame” realizzato dalla FAO, ogni anno il settore alimentare del bestiame produce circa il 14,5% di tutte le emissioni di gas serra generate dalle attività umane; mentre la ricerca “Reducing food’s environmental impacts through producers and consumers” (Riduzione dell’impatto ambientale del cibo attraverso produttori e consumatori) mette in evidenza come la produzione di carne, uova, latticini e l’acquacoltura (ovvero la cattura e l’allevamento dei pesci per l’alimentazione umana) contribuiscano alle emissioni di gas serra per il 56-58% di tutto il settore alimentare.

Gli allevamenti intensivi sono inoltre una delle principali cause di deforestazione e un esempio significativo è l’Amazzonia, che negli ultimi mesi è stata tormentata da migliaia di roghi appiccati dall’uomo. La principale causa della deforestazione dell’Amazzonia è l’aumento degli allevamenti di bestiame e delle piantagioni di soia per gli allevamenti. E in Europa? Secondo un report di Greenpeace, oltre il 71% dei terreni agricoli presenti in Europa è destinato al nutrimento dei bestiami.

allevamenti intensivi e cambiamenti climaticiAnche l’alimentazione vegana e quella vegetariana non rappresentano scelte etiche e sostenibili a priori. Non lo sono ad esempio se acquistiamo alimenti che provengono da coltivazioni in cui i lavoratori vengono sfruttati e sottopagati o se scegliamo prodotti che, per arrivare intatti e ancora acerbi sulle nostre tavole, richiedono l’utilizzo di sostanze inquinanti e tossiche per la popolazione che è costretta a respirarle. Ma questo è un problema che riguarda tutti, non solo chi sceglie di non mangiare carne, pesce e derivati: basti pensare che, secondo il Rapporto Italia 2019 dell’Istituto di ricerca Eurispes, ad esempio, in Italia i vegetariani e i vegani rappresentano soltanto il 7,3% del campione preso in esame.

Indubbio invece ormai è l’impatto ambientale degli allevamenti. L’associazione animalista LAV ha dimostrato che non mangiare una bistecca da 500 grammi una volta alla settimana per un anno può salvare 910 mq di foresta, 390 kg di cereali, 403.000 litri d’acqua, 936 kg di CO₂.
Insomma, come scrive Foer, nel suo saggio “Se niente importa”: “Se ci preoccupiamo dell’ambiente, […] mangiare o non mangiare gli animali ci deve importare”.

Cosa possiamo fare?
  • Ridurre (o eliminare) il consumo di carne, pesce e derivati (non senza aver prima consultato il proprio medico).
  • Conoscere la provenienza e la produzione degli alimenti che compriamo.
  • Acquistare prodotti alimentari di stagione.

Quanto inquinano i nostri armadi?

Dal 2004 al 2019, il settore della moda è passato dal produrre da 50 a 100 miliardi di pezzi all’anno e il quantitativo di capi acquistati per persona è aumentato del 40% solo in Europa. Ad oggi, inoltre, un capo di abbigliamento viene indossato una media di sole 4 volte. Può tutto questo non avere delle ripercussioni sull’ambiente?

Ogni fase del ciclo di vita di un capo di abbigliamento ha un impatto ambientale elevato: dalla produzione delle fibre, alla lavorazione del capo fino all’uso e allo smaltimento dello stesso. Secondo un report condotto da Oxfam, una camicia bianca 100% cotone ad esempio produce le stesse emissioni di carbonio di 35 miglia (circa 56,327 km) percorsi da un’automobile.

L’impatto ambientale del cotone dipende soprattutto dall’ingente quantità di acqua che necessita, ma ancora più inquinanti sono le fibre sintetiche. Tra questi vi è il poliestere, che deriva da combustibili fossili e non è riciclabile. Per quanto infatti il poliestere abbia un’impronta idrica ridotta (ovvero richieda un consumo di acqua relativamente basso), è stato calcolato come un ciclo di lavaggio di capi di fibre sintetiche possa rilasciare 700.000 microplastiche, che vanno a finire nei corsi d’acqua e risultano tossiche per noi, per gli animali e per il Pianeta.

moda e inquinamento Un’altra fonte di inquinamento provocata dal settore della moda è lo smaltimento dei capi. Nel 2017 un gruppo di giornalisti danesi ha accusato H&M di aver bruciato 12 tonnellate di abiti all’anno dal 2013 solo in Danimarca. I capi invenduti dai brand, quelli che non si possono riciclare e quelli dismessi individualmente infatti finiscono negli inceneritori o nelle discariche e a provocare così tanti rifiuti è principalmente la sovrapproduzione, di cui la fast fashion è tra le principali responsabili.

Per “fast fashion” si intende la moda veloce, ovvero quel sistema produttivo che propone continuamente pezzi nuovi a costi bassissimi. Mentre in passato i brand realizzavano dalle 2 alle 4 collezioni all’anno, oggi siamo abituati a realtà come H&M che propone tra le 12 e le 16 collezioni annuali o Zara che arriva addirittura a 24: una dinamica che ha contribuito a creare anche una concezione della moda come “usa e getta”.

I prezzi bassi però hanno un costo: in termini di qualità che inevitabilmente si abbassa, così si producono capi che durano meno e finiscono prima nei nostri cassonetti; ma anche in termini di vite umane. La produzione di molti marchi di fast fashion (e non solo) avviene nei Paesi più poveri del mondo, dove, come racconta il documentario “The True Cost” sul fenomeno della fast fashion, le conseguenze dell’inquinamento dovute al settore moda sono evidenti e malattie della pelle, tumori, malformazioni e problemi neurologici sono molto diffusi tra la popolazione.

Cosa possiamo fare?
  • Comprare meno e puntare sulla qualità piuttosto che sulla quantità.
  • Scegliere capi vintage e di seconda mano.
  • Conoscere i materiali e le fibre di cui sono composti i capi che acquistiamo.

Sommersi dalla plastica

Ogni minuto viene acquistato un milione di bottiglie di plastica, 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani ogni anno e oggi produciamo circa 300 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica all’anno, che è quasi il peso equivalente di tutta la popolazione mondiale.

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Per decomporsi sappiamo che un sacchetto di plastica ha bisogno di 20 anni, una rete da pesca di 600 anni, una bottiglia di plastica di 500 anni. Ciò che forse non è chiaro è che la decomposizione non equivale alla scomparsa: la plastica infatti si frantuma in pezzi sempre più piccoli fino a diventare praticamente invisibili. Ma la loro invisibilità li rende, se possibile, ancora più pericolosi. Scambiate per cibo, ad esempio, le microplastiche vengono ingerite dai pesci così, se non ne provocano la morte, si infiltrano nella catena alimentare umana (ovvero, noi mangiamo pesci pieni di plastica).

plastica e inquinamentoMa da dove arriva tutta questa plastica? E, soprattutto, ne abbiamo veramente bisogno? La plastica “usa e getta” è sicuramente una delle invenzioni che meglio risponde alle esigenze di uno stile di vita contemporaneo fatto di comodità e tempi veloci, ma l’impatto che esso ha sul nostro Pianeta è devastante. Secondo il report condotto dalla Commissione Europea nel 2018, “Reducing Marine Litter: action on single use plastics and fishing gear” (Ridurre i rifiuti in mare: azioni sulla plastica usa e getta e l’attrezzatura da pesca), tra le dieci categorie di prodotto in plastica usa e getta che più facilmente si trovano sulle nostre spiagge, ci sono bottiglie di plastica, contenitori per il cibo, cicche di sigaretta, cotton fioc, incarti per il cibo, prodotti sanitari.

Il National Geographic riporta che solo nel 2018 negli Stati Uniti sono stati acquistati 5.8 miliardi di assorbenti interni, che sono fatti di plastica e avvolti nella plastica. E gli spazzolini da denti non sono da meno: sempre secondo il National Geographic, se tutti cambiassimo il nostro spazzolino ogni tre o quattro mesi come consigliano le associazioni odontoiatriche, ogni anno 23 miliardi di spazzolini finirebbero nella spazzatura. Composti da un mix di materiali difficili da separare, al momento gli spazzolini da denti tradizionali non possono essere riciclati.

L’impatto ambientale del settore cosmetico e della cura di sé è d’altronde uno dei più alti ed evidenti. Se consideriamo l’intero ciclo di vita di un prodotto sanitario o cosmetico, infatti, l’inquinamento che è in grado di generare è elevato in ogni sua fase e impressionante è il quantitativo di prodotti per “destinazione d’uso” messo sul mercato.

Come ha dichiarato Rhoda Trimingham, esperta in design sostenibile all’Università di Loughborough, moltissimi prodotti di cura per il corpo sono composti per un 90-95% di acqua e rappresentano perciò non solo un consumo di plastica ed emissioni di CO₂ ma anche uno spreco di acqua. “Quello che facciamo”, dice Trimingham, “è trasportare in giro per il mondo tonnellate di acqua in contenitori di plastica”.

Cosa possiamo fare?
  • Scegliere prodotti riutilizzabili e non “usa e getta”.
  • Acquistare prodotti sfusi e senza packaging.
  • Puntare su aziende che hanno fatto dell’ecosostenibilità la propria strategia e filosofia. Come Lamazuna, l’azienda francese di prodotti per la cura e l’igiene personale, che sono vegani, naturali e a impatto zero. Come si legge sul sito, infatti, fino a giugno 2019 l’azienda è riuscita a evitare circa 29 milioni di rifiuti. Lamazuna propone spazzolini da denti in bamboo con testine ricambiabili, coppette mestruali e assorbenti lavabili per dire addio agli assorbenti, shampoo e detergenti solidi, che durano più a lungo e non hanno packaging in plastica, e tanti altri accessori per una routine beauty completamente zero waste.

Il potere della scelta

I cambiamenti climatici sono un problema globale e pertanto richiedono un piano di cooperazione strategica e politica tra i Paesi di tutto il mondo. Ma in quanto cittadini e consumatori abbiamo nelle nostre mani un enorme potere, che è quello della scelta. Possiamo scegliere di adottare piccoli cambiamenti in un’ottica sostenibile, votare chi come noi ha a cuore l’ambiente, sostenere aziende in linea con la nostra filosofia di vita, informarci e informare, partecipare ai movimenti in difesa del Pianeta, alzare la voce e farci sentire. Scegliere insomma di prenderci cura della nostra Terra. E possiamo starne certi: le nostre scelte non passeranno inosservate. Non alle aziende, perché è nei loro interessi assecondare le esigenze e la domanda dei consumatori; non ai politici, che dei nostri voti hanno bisogno.

È tempo di scegliere, dunque, e di scegliere bene: il Pianeta ci ringrazierà.

Volete approfondire l’argomento, saperne di più sull’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, del settore moda e dell’industria cosmetica? Cliccate QUI per scaricare gratuitamente il PDF della nostra inchiesta sui cambiamenti climatici.

Illustrazione in copertina: Giobi

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