L’espressione inglese “cancel culture” descrive quel fenomeno sociale per cui una persona diviene oggetto di pubbliche manifestazioni di ostilità, dissenso, attacchi denigratori e più in generale forte ostracismo mirato a eliminarne (da qui il nome “cancel culture”) la presenza mediatica dai social media, e di conseguenza a danneggiarne la reputazione anche nel mondo offline. È una moderna forma di damnatio memoriae che ha luogo principalmente negli spazi digitali e che ha lo scopo di costituire una punizione sociale amministrata dagli utenti di una piattaforma, in seguito a un comportamento problematico, sbagliato, offensivo o illegale messo in atto dalla persona che si decide quindi di cancellare.
Il fenomeno nasce in origine con il nome di “call-out culture”, ovvero la “cultura del richiamare”: un termine meno aggressivo rispetto a “cancellare” che però aveva all’incirca la stessa funzione di richiamare l’attenzione pubblica su un soggetto macchiatosi di una colpa di cui si voleva informare la comunità virtuale, per incitarne la condanna. In questo senso si può affermare che la cancel culture sia la versione portata all’estremo della call-out culture, una sorta di deriva mainstream che si concentra meno sul condannare la gravità dell’azione commessa e finisce per porsi come unico obiettivo il cancellare la persona colpevole senza se e senza ma, spesso senza nemmeno accertarsi di verificare la fondatezza delle accuse. Il risultato di questa deriva finisce per essere una semplificazione della natura intrinsecamente politica della call-out culture delle origini e diventa in sostanza un accumulo di hashtag denigratori a riassunto della polemica del giorno, destinata a essere dimenticata e rimpiazzata dalla controversia successiva nel giro di un brevissimo lasso temporale.
La natura politica della call-out culture è un punto fondamentale su cui focalizzarsi per capire a fondo il fenomeno e per mettere in chiaro come e perché la deriva che ha preso piede più di recente è controproducente rispetto agli ideali stessi che vi stanno alla base. La cultura del richiamo e della cancellazione infatti nascono come strategia di vigilanza “dal basso”, con lo scopo di esporre e riequilibrare le dinamiche di potere che si celano dietro agli abusi di natura sessista, razzista, religiosa, abilista e così via. In sostanza lo scopo è intervenire in massa quando una persona in una posizione di potere attua un comportamento lesivo verso qualcuno che si trova in una posizione più svantaggiata (o verso una minoranza discriminata in generale) in modo da compensare, con un’azione dimostrativa sui social media, al fatto che la persona colpevole ha alte probabilità di rimanere impunita proprio grazie al suo privilegio. In questo senso la call-out culture si fa portavoce di una feroce critica al sistema giudiziario, che troppo spesso riproduce le stesse dinamiche di potere ed è incapace di auto-correggersi e porre rimedio alle proprie falle, o è troppo lento nel farlo. Si innesca quindi un meccanismo di giustizia popolare che mira ad attaccare il potente per screditarlo e richiamare l’attenzione pubblica sulla gravità delle sue azioni, laddove la cattiva condotta rischia di rimanere impunita.
Il femminismo ha usato spesso questa strategia e il movimento #MeToo ne è un esempio lampante. La campagna mediatica contro Harvey Weinstein e Brett Cavanaugh, per citare due dei casi più famosi, si possono infatti leggere da questo punto di vista: due personaggi in posizioni di grandissimo potere, difficili da perseguire legalmente proprio a causa del loro privilegio e che quindi si è cercato di esporre dal punto di vista mediatico come strategia di compensazione (oltre che per “normalizzare” l’idea di denunciare i propri assalitori, cosa che risulta ancora molto difficile per la maggior parte delle vittime di molestie sessuali).
La necessità di azioni che vadano a scalfire il privilegio di personaggi potenti come i due sopracitati è chiarissima quando si confrontano le loro vicende giudiziarie con un altro famoso caso di cronaca statunitense che è tornato a far parlare di sé di recente grazie al documentario “When they see us”. La docu-serie di Netflix narra della vicenda di cinque ragazzi minorenni di origine afroamericana e ispanica accusati nel 1989 di aver stuprato e ridotto in fin di vita una ventottenne a Central Park (New York). I cinque furono tenuti in custodia dalla polizia per più di 40 ore senza acqua, cibo e la possibilità riposarsi, e costretti a confessare il crimine senza la presenza di un avvocato o di prove tangibili che dimostrassero la loro colpevolezza. Il loro processo non fu mai riesaminato nonostante i ragazzi si fossero sempre dichiarati innocenti per tutta la durata della loro condanna (ottennero pene dai 6 ai 12 anni di reclusione). Nel 2002 – quando tutti avevano già scontato la pena ma ancora pagavano le conseguenze sociali della gogna mediatica a cui furono esposti – il vero colpevole confessò il crimine, gettando luce sull’enorme ingiustizia di cui i ragazzi erano rimasti vittime a causa della loro posizione sociale e della loro origine etnica. Il fatto che degli adolescenti provenienti da famiglie immigrate abbiano scontato lunghe pene nonostante la loro colpevolezza non fosse supportata da alcuna evidenza, mentre due uomini bianchi, ricchi, all’apice della loro carriera, non abbiano scontato un solo giorno di reclusione malgrado le innumerevoli prove e testimonianze raccolte dall’accusa fa immediatamente capire quanto il sistema giudiziario sia imperfetto e quanto sia importante avere meccanismi di reazione.
Tuttavia, anche se la motivazione che sta alla base di queste strategie (ovvero esporre gli squilibri di potere che si celano dietro alle ingiustizie) è legittima, il modo in cui la cancel culture agisce presenta dei problemi etici che è necessario riconoscere.
Questi sono principalmente tre:
1. Colpevolezza fino a prova contraria
In netto contrasto con il principio di presunzione di innocenza su cui si basa il sistema legislativo moderno e la società democratica tutta, spesso la cancel culture si avventa sul colpevole di turno senza specificare che in molti casi si tratta di presunti colpevoli. Ovvero non è raro vedere che la condanna “dal basso” si sostituisce completamente al lavoro delle autorità competenti, invece che affiancarlo. Questo, come spiegato, deriva dalla natura politica di questa strategia di accusa, cioè dalla necessità di colpire chi probabilmente non verrà colpito dal sistema giudiziario. Ma, a parere di chi scrive, questo nobile intento non dovrebbe sostituirsi in toto allo Stato di diritto, bensì dovrebbe esplicitarsi come una critica al sistema stesso.
Il punto è che si può allo stesso tempo credere alle vittime e garantire all’accusato il diritto di difendersi e affrontare un giusto processo. È un diritto basilare di ogni cittadino appartenente al sistema democratico moderno e non dovrebbe essere negato a nessuno, specialmente da un movimento che si pone come obiettivo il domandare più giustizia e uguaglianza. Altrimenti si rischia di confondere l’amministrare giustizia con la vendetta.
2. Due pesi, una sola misura
Questo è un altro punto fondamentale della critica alla cancel culture, che forse dovrebbe essere la premessa di ogni altra critica. Call-out e cancel culture sono nati come strumenti politici per compensare forti disequilibri di potere, ma col passare del tempo sono diventati strumenti sempre più mainstream usati per attaccare non solo individui potenti che hanno compiuto atti gravi perseguibili penalmente – come il sopracitato esempio del movimento #MeToo – ma anche per prendere di mira personaggi decisamente minori, colpevoli di condotte che, per quanto sbagliate e problematiche, non hanno certamente lo stesso peso.
Un esempio recente potrebbe essere l’uscita infelice di Fabio Volo su Ariana Grande. Il condutture radiofonico infatti qualche mese fa ha pronunciato delle battute a sfondo sessista sulla pop star americana, durante una delle sue trasmissioni. Si tratta di un comportamento accettabile per un personaggio con la sua visibilità? Certamente no, il suo esempio non fa altro che rafforzare la cultura patriarcale ancora troppo radicata nel nostro Paese. Si tratta di un comportamento grave al pari di una molestia sessuale? No, e l’accanimento mediatico nei confronti del conduttore avrebbe dovuto essere adeguato alla colpa da lui commessa. Con questa affermazione intendo semplicemente dire che è necessario capire la diversa gravità dei fatti e mettere in atto una strategia proporzionata ed efficace. Una strategia proporzionata nel caso di Fabio Volo sarebbe potuta essere per esempio mostrargli il perché le sue battute fossero gravi e dannose, attaccare e mettere in discussione le azioni invece che la persona, fornirgli un’occasione per imparare e migliorarsi. E nonostante qualche attivista lo abbia fatto, nel complesso gli insulti e le minacce hanno fatto – come sempre – più rumore degli inviti pacati a riflettere. Il problema è che insulti e minacce non sono una strategia efficace per convincere qualcuno a riesaminare il proprio comportamento.
Uno dei problemi principali della deriva mainstream della cancel culture è che tende a semplificare ogni polemica e a buttare tutto nello stesso calderone senza distinguere il peso delle diverse azioni. Questo mettere tutto sullo stesso piano non fa altro che creare confusione e assuefare le persone alla polemica. Basta guardare la frequenza con cui su Twitter si succedono hashtag come #PERSONAGGIOXisoverparty o #PERSONAGGIOYiscanceled: si è finiti per esserne inondati da almeno uno al giorno, nella maggior parte dei casi per motivi decisamente “leggeri”. Il problema qui è che un “attenti al lupo” gridato troppo di frequente desensibilizza le persone al pericolo e, quando poi il lupo arriva davvero, non ci fanno più nemmeno caso, distratte come sono dalla quantità imbarazzante di festeggiamenti per la “fine” di personaggi poco rilevanti che hanno luogo ogni giorno sui social.
3. L’elefante nella stanza: è giusto cancellare?
La cancel culture diventa tossica quando si pone come obiettivo eliminare nel senso letterale del termine una persona, indipendentemente dalla gravità del torto commesso. Cancellare qualcuno è davvero una modalità efficace a mostrare che la sua condotta è sbagliata? A parere di chi scrive (e di Cesare Beccaria) no: la pena dovrebbe avere una funziona riabilitativa e rieducativa. Si dovrebbe cercare di punire la persona in modo che essa possa compensare per le azioni negative che ha commesso, concederle occasioni per redimersi. Solo così la società può progredire e migliorarsi, mentre nessuno trae vantaggio dall’eliminazione definitiva di un soggetto.
Questo discorso si ricollega direttamente a uno dei lati più tossici della cancel culture: il rifiuto delle scuse. Quando si decide che qualcuno deve essere eliminato non è ammesso tornare indietro. Non importa se questa persona, messa di fronte alle critiche, si rende conto di aver sbagliato e chiede scusa o cerca di rimediare con azioni concrete: la sentenza è già stata emessa e non è concesso il pentimento. Questo è uno dei paradossi più grandi, dal momento che lo scopo ultimo di questo meccanismo di reazione dovrebbe essere far capire la gravità del torto commesso. Quando la persona in questione ne prende atto e si dichiara colpevole, scusandosi pubblicamente o consegnandosi alle autorità in base alla portata delle sue azioni, lo scopo è stato raggiunto. Le critiche dovrebbero placarsi e l’imputato dovrebbe essere reintegrato come membro a pieni diritti della società, dal momento che ha fatto tutto ciò che è in suo potere per rimediare al danno (tornare indietro nel tempo è ancora al di sopra delle capacità umane al momento).
Un’altra deriva problematica della cancel culture, scaturita sempre dalla convinzione che la colpevolezza è una condizione indelebile che dura per tutta la vita, è la sua applicazione retroattiva. Succede spesso che si vada a indagare quasi morbosamente nel passato social (o semplicemente nel passato personale) di personaggi in vista, per riportarne a galla commenti, foto o dichiarazioni problematiche passate – spesso molto passate – al fine di screditarli nel presente. Anche qui si tratta di una pratica eticamente dubbia perché generalmente le persone cambiano, crescono, si educano e si migliorano con il passare degli anni, e probabilmente ognuno di noi ha detto o fatto qualcosa di discutibile dieci anni fa. Ma su Internet la regola del “chi è senza peccato, scagli la prima pietra” sembra non valere, e le scuse nel presente valgono meno delle colpe commesse a distanza di anni.
In conclusione: la cancel culture ha ragione di esistere?
A parere di chi scrive la cancel culture ha ragione di esistere, nel senso che la motivazione politica originaria che vi sta alla base (ovvero la sua funzione di esporre le dinamiche di potere che si celano dietro episodi gravi di discriminazione e di critica al sistema giudiziario) è legittima. Detto questo però la cancellazione di un individuo non dovrebbe essere lo scopo ultimo, ma l’attenzione si dovrebbe concentrare piuttosto sull’esaminare le azioni di una persona. In questo senso credo sia più utile ricorrere a termini come “call-out culture” o “culture of accountability”, termini meno carichi di violenza e che si rifanno a un modello più positivo-propositivo di educare le persone a prendersi la responsabilità delle proprie azioni.
Anche nei casi più gravi, come per esempio Harvey Weinstein che continua a dichiararsi innocente nonostante la veridicità delle accuse sia stata assodata, si dovrebbe comunque puntare a educare invece che cancellare. Eliminare un colpevole, sia fisicamente che moralmente, è un’azione limitata al contrastare l’impatto del singolo individuo (oltre che essere eticamente problematica), e una volta conclusa la vicenda in questione se ne può facilmente ripresentare una simile o identica dopo poco. Investire tempo ed energia nell’educare sul perché certe azioni sono sbagliate invece può essere una strategia molto più efficace per creare un vero cambiamento culturale, che abbia un impatto su un numero molto più grande di persone rispetto al singolo colpevole.
In conclusione di questa riflessione sulla cancel culture è doveroso sottolineare che la critica del fenomeno non deve essere usata come pretesto dietro cui ripararsi da coloro che non sanno stare al passo coi tempi e assumersi la responsabilità del proprio comportamento. Lamentarsi che “al giorno d’oggi non si possono più fare battute” o “non si può più ridere di niente” ha poco da spartire con una critica ben argomentata e rivela solamente l’incapacità di rendersi conto che le proprie azioni (sì, gli sketch comici o presunti tali rientrano nella macro-categoria delle “proprie azioni”) hanno un impatto sul mondo. E che nel 2020 le azioni compiute da una persona in posizione privilegiata che – intenzionalmente o meno – danneggiano o feriscono chi si trova in una posizione più svantaggiata non sono accettabili. Si può discutere, anzi è più che doveroso farlo, e criticare la modalità con cui questo messaggio di non accettazione viene recapitato, ma sul contenuto del messaggio a questo punto dovremmo trovarci tutti d’accordo.
Davvero un ottimo articolo, esauriente e ben costruito! Sia gli effetti positivi che negativi sono illustrati perfettamente, e con i giusti riferimenti giuridici. Che dire, complimenti!
Articolo scritto davvero bene, sono una collega e l’ho trovato molto completo, di facile lettura ma nello stesso tempo ricco di informazioni, opinioni e tematiche importanti.