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CASX: a proposito di volersi bene, viaggi e autostima

CASX: a proposito di volersi bene, viaggi e autostima

All’anagrafe Arianna Puccio, in arte Casx, nata nel 1993 in mezzo alla musica: padre musicista e insegnante di musica, madre insegnante e organizzatrice di eventi e zio sassofonista; ha quindi iniziato a prendere lezioni di canto e danza sin da piccola.

Laureata in cinema e in seguito in web marketing, ha lavorato come grafica e art director per moltə cantanti, fondando tre anni fa “Studio Cemento”. Scrive da quando è piccola: prima diari, poi blog, pensieri e infine canzoni. 

Fondendo sonorità che vanno dal post-punk allo shoegaze e respirando influenze quali Joy Division, The Smiths, Nirvana, Editors, Daughter, ha iniziato a lavorare sul suo progetto nel 2020, grazie alla collaborazione con Matteo Rizzi e Davide Foti.

Con lei abbiamo parlato di cosa significhi lavorare nel settore musicale e della sua musica che, come “Casper, The Friendly Ghost” (da cui il nome d’arte), parla della paura di essere invisibili e la difficoltà di volersi bene, rivolgendosi a chi prova nostalgia, a chi ama le serie tv e a quelle persone che almeno una volta si sono sentite inadatte o piene di difetti.

Partiamo dalle tue copertine di Linus: tre film e tre canzoni alle quali sei particolarmente legata e che nonostante gli anni che passano rimangono la tua certezza?

Allora, tre film sono sicuramente: Lost In Translation, Requiem For A Dream, Eraserhead.

Mentre le tre canzoni a cui sono più legata sono: Spanish Sahara by Foals, Shallows by Daughter, Love Will Tear Us Apart by Joy Division. 

Passando invece alla tua di musica, quali sono le tre caratteristiche con le quali la descriveresti? C’è un target in particolare a cui ti rivolgi? Cosa ascolta e cosa piace, artisticamente parlando, alla tua ascoltatrice/il tuo ascoltatore tipo?

Il mio ufficio stampa dice che faccio musica per gli emo dimenticati di MySpace, e non ha tutti i torti. Il mio target di partenza erano i ragazzi tristi tra i 20 e i 35 anni, non so se effettivamente adesso ho rispettato questo target ma i miei fan sono sicuramente persone che avevano una band da ragazzini/e, chi ascolta ancora band post-punk dimenticate, chi è fissato con vecchi film horror o più in generale con il cinema d’autore. Cerco di raccontare il mio mondo a 360° e questo mondo è fatto di musica, di infanzia e di cinema principalmente. Se devo pensare a 3 caratteristiche forse direi che faccio musica malinconica, arrabbiata, per persone piene di controsensi.

Lo pseudonimo che hai scelto per il tuo progetto solista riporta a Casper, il fantasmino e alla paura di essere invisibili e la difficoltà di volersi bene: quando ci si trova a provare queste sensazioni, come gestire la situazione? A chi chiedere supporto? Come aiutarsi a superarla?

Sono molto legata al personaggio di Casper, che è un fantasmino che per tutta la vita cerca di essere buono e di avere degli amici, ma gli zii, la società e il suo status di fantasma gli impediscono di realizzare questo sogno, finché non incontra qualcuno di speciale. Per tantissimo tempo mi sono sentita così, e ancora oggi, nonostante io sia cresciuta, a volte sento lo strascico di quel periodo e di quella sensazione. Quando ero più piccola pensavo di non essere uguale agli altri e quindi che nessuno mi avrebbe accettata, poi crescendo capisci che nessuno è uguale davvero a nessuno, e semplicemente si piace a chi si piace e va bene così. Capire questa cosa, ovvero che essere me stessa non aveva niente di sbagliato, è stato fondamentale per non mettere ulteriori muri e non sentirmi invisibile. Credo sia importante parlarne, con la famiglia e sopratutto se lo si sente necessario fare un percorso psicologico può aiutare. Il modo migliore che ho trovato io per superarla è fare del mio meglio per piacere a me stessa, poi gli altri si sono semplicemente accorti di me.

E tu hai imparato a volerti bene e ad accettare i tuoi difetti?

Vorrei dirvi sì, diciamo che per un periodo è stato così, ma l’insicurezza e la mancanza di autostima tornano spesso a farti visita, soprattutto in momenti no. Ci lavoro tutti i giorni però, e in realtà trovo molto spazio per la mia autostima nel mio lavoro di tutti i giorni, mi sento brava in quello e sentirsi bravi in qualcosa è sicuramente importante per volersi bene.

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Ci parli un po’ di Lost in Translation, il singolo che ha anticipato l’ultima uscita Topi, e dell’immaginario di viaggi correlato? In che modo si può rifuggire la monotonia pur non muovendosi? Che cos’è per te la monotonia?

Lost In Translation è chiaramente un pezzo con riferimento palese al film della Coppola, adoro questo film, lo guarderei all’infinito perché mi sembra sempre racconti una piccola parte di me, ha un retrogusto a tratti malinconico, a tratti liberatorio. Viaggiare per me è esattamente questo un mix di malinconia e di gioia della scoperta, viaggio spesso da sola perché mi aiuta a ritrovarmi e riscoprirmi. Questa canzone è stata scritta in uno Hotel a NewYork, superficialmente parla di questo giochino che faccio quando viaggio, ovvero immaginarmi le vite degli altri attraverso le voci nei corridoi, i programmi televisivi della stanza accanto, gli abiti, i bagagli. Più nel profondo però è un brano che parla di stanze fisiche e mentali dove mi rifugio spesso per evadere dalla realtà, che a volte mi annoia e a volte semplicemente mi ferisce. Rifugiarmi in queste stanze spesso mi aiuta a combattere la monotonia.

Hai studiato e lavori da tempo nell’ambito artistico: quali sono gli aspetti più interessanti e stimolanti della tua professione? Quali invece sono le difficoltà che ti è capitato/ti capita di incontrare?

Prima di fare l’art director per i cantanti ho sempre lavorato in vari ambiti artistici/creativi, l’unica cosa di cui sono sempre stata sicura è che se non uso la creatività non so vivere. Ho sempre voluto fare l’art director, ma ci ho messo tantissimo tempo a darmi modo e il permesso di farlo perché tendo a sentirmi sempre un passo indietro rispetto all’asticella che mi posiziono da sola molto in alto. Fare questo lavoro nella musica mi riempie di vita, assorbo dagli artisti e dai miei colleghi come una spugna perché ognuno di loro a modo suo riesce sempre a darmi qualcosa, è il bello di lavorare con gli esseri umani e non con le macchine o chiusa in un ufficio. Però è un lavoro pieno di stress e di difficoltà perché devo gestire le fragilità di tutti cercando di rimanere un punto fermo per loro e non è facile quando comunque lavori in un mercato dove la mia professione è ancora una professione da spiegare. Se fossi all’estero sarebbe più facile, ma qui non c’è mai budget per una figura come la mia che tende ad essere vista come un plus. Sono sommersa di persone che mi dicono “la direzione artistica posso farmela da solo/a”, “le moodboard le so fare anche io”, “preferisco investire solo su un fotografo, mi arrangio”. Per questo uno dei miei obiettivi personali è impegnarmi per raccontare l’utilità della mia professione e l’importanza di accompagnare questi ragazzi step by step.


Da musicista e da lavoratrice del mondo dello spettacolo a contatto con artiste/i: qual è il consiglio spassionato che ti senti di dare a chi desidera intraprendere un percorso nella musica quale operatore in una delle attività del settore e/o da cantante/musicista?

Fare musica a cuor leggero oggi è difficilissimo, il mercato è pieno zeppo di ragazz* bravi o più in generale ragazz* che vogliono fare musica e lasciare un segno. Questo genera, soprattutto a Milano, una competitività tossica e un malcontento generale. Entrare nel mercato musicale oggi è molto pesante e bisogna essere sempre consapevoli che il processo può essere lungo e tortuoso.
Il consiglio che mi sento di dare è di cercare di vivere la musica prima come una cosa bella e poi come un mestiere, e soprattutto di armarsi di tantissima pazienza e di forza di volontà, non arrendersi mai al primo tentativo perché alcune volte i progetti devono solo sedimentare.