Da sempre ho pensato che modificare la propria alimentazione nell’ottica della riduzione del consumo di carne andasse a toccare meccanismi profondi. Non mi era però ben chiaro il tentativo che si verifica in certe famiglie di sabotare ǝ proprǝ figliǝ che passano a una dieta vegana o vegetariana, o perché molte persone parlino di “coming out” quando comunicano di essere diventate vegane o vegetariane, e perché spesso questo “coming out” scatenasse scontri e incomprensioni.
Ho sempre pensato che, come suggerisce Jonathan Safran Foer in “Se niente importa”, le persone si sentissero colte in fallo in qualcosa che era una loro abitudine errata e violenta ma taciuta e semplicemente parlarne scostava il velo. Foer teorizza che la questione sia da relegare alla rabbia dell’oppressore smascherato, una sorta di furia nei confronti del bambino che urla che il re è nudo. La riflessione riguarda una fragilità che moltǝ attivistǝ antispecistǝ ricollocano nella dinamica di potere del Maschio bianco etero cis temporaneamente non disabile e specista o mangiatore di carne. Nell’atto di mangiare carne per molte persone risiede una affermazione di mascolinità e quindi di potere.
Mi trovo d’accordo con questa lettura ma non mi aiutava a spiegarmi il boicottaggio che molte persone vegane o vegetariane subiscono. Non capivo l’inserire la carne a tradimento nelle pietanze, non comprare altro che derivati animali. Ostacolare, imbrogliare.
A inserire una nuova tessera del puzzle ci ha pensato il saggio di Serena Guidobaldi “Cibo e Identità” pubblicato da Eris Edizioni. Nel libro vengono trattati numerosissimi aspetti del mondo del cibo, ma quello che mi ha aperto un nuovo punto di vista è rappresentato dalla descrizione della bocca e della cucina come confini.
Guidobaldi infatti descrive l’esistenza di due confini nel mondo della cucina, uno è quello in cui chi mangia esercita un atto di fiducia nei confronti di chi cucina: mi fido di come cucinerai, di cosa metterai nel piatto. Questo risulta un atto di fiducia molto intimo perché riguarda il nutrimento, e proprio per questo la cucina viene caricata di significati tradizionali e identitari. Il secondo confine è quello della bocca che limita ciò che entra nel nostro corpo. Nel momento in cui mangiamo un cibo in famiglia introduciamo nel nostro corpo qualcosa che è stato scelto e concordato dalla nostra famiglia. Viene sottolineata la carica della negazione di quel confine quando si dice “No, questo non lo mangio”, “Non ho fame”, “Non mi va”. In quell’atto si nasconde una dinamica di potere.
Poteva non esserci quello dietro tanta rabbia? Ovviamente no.
La mia teoria in merito è che scegliendo una dieta vegana si ridiscute la scelta che la nostra famiglia sta facendo per noi. Persino se siamo proprio noi a cucinare. Stiamo negando l’accesso nel nostro corpo di un cibo che è anche una scelta di valori che la nostra famiglia ha compiuto per noi nell’insegnarci a mangiare. E quindi? Quindi talvolta davanti alla ribellione si cerca l’inganno o la costrizione, si cerca di approfittare della fiducia che si offre a chi cucina per rimarcare un potere. Il potere di far entrare un cibo nel corpo altrui e decidere per l’altrǝ ancora una volta.
Riprendendo però la riflessione sul legame tra cibo e identità culturale, si ritrova nel seguire una determinata scelta alimentare il proseguimento della tradizione identitaria non solo familiare ma spesso nazionale. Troviamo infatti nella rabbia contro la rivisitazione in chiave vegan di una ricetta percepita come tradizionale una resistenza battagliera. Le principali critiche infatti possono essere collegate tra di loro tramite l’argomentazione che la tradizione non vada toccata proprio perché sintesi di un’identità. Questa critica non tiene però conto di una serie di questioni: le ricette di cui parliamo sono davvero tradizionali? Cosa si intende per “tradizionale”? Davvero la tradizione è sinonimo di immutabile, oppure le ricette così come le tradizioni si adattano a ogni tempo e realtà che le riceve e rielabora?
Le critiche spesso violente alle deglutinizzazioni, alle richieste di varianti di ricette senza lattosio o di cibo non contaminato (magari per preservare la salute di persone allergiche) sono spesso riassumibili nella volontà di non modificare abitudini, sacre ricette tradizionali, lo status quo. Conservare, non migliorare, evolvere, cambiare. E questo tipo di limitazioni crea danni, come quando molte persone celiache si ritrovano a registrare una serie di rifiuti e a faticare a poter trovare un posto dove mangiare fuori casa: is this abilismo?
Forse il mio è un azzardo, ma questo libro mi ha aperto gli occhi su quanto ogni scelta nel cibo che accettiamo, che cuciniamo e che mangiamo c’è molto di più di ciò che sembra e spesso c’è esattamente la riproduzione degli schemi di potere che stiamo cercando di abbattere che sente di essere in pericolo e si ribella attaccandosi all’identità.