Sono pressoché sicuro che a chi frequenta abitualmente questo sito non sarà sfuggito il film “Pride”: per chi invece non ne fosse al corrente, si tratta di una produzione britannica ispirata alla storia vera del Pride di Londra del 1985, manifestazione che vide sorprendentemente sfilare fianco a fianco gay, lesbiche e minatori del Galles.
La pellicola è balzata agli onori della cronaca in occasione dell’ultimo Festival di Cannes, nel corso del quale ha ricevuto la Queer Palm (e dell’esistenza di questo premio ero completamente all’oscuro io, ma Wikipedia mi spiega che viene assegnato ai film con tematica LGBT presentati a Cannes).
Credo che ci sia davvero un milione di ragioni per cui il film meriti di essere visto, ma quella su cui volevo concentrarmi in particolare è il senso di bene comune che permea la storia, che ben spiega perché occuparsi anche dei diritti di quelle categorie che non ci riguardano direttamente significhi salvaguardare i diritti di tutti.
La pellicola racconta dell’intuizione di Mark Ashton, giovane attivista gay che, consapevole di come le condizioni sia della propria comunità, sia dei minatori inglesi tartassati dall’ultraliberismo di Margaret Thatcher fossero originate da un nemico comune, dà vita al movimento LGSM (acronimo per “Lesbiche e gay a sostegno dei minatori”). Da qui in poi, tutto il film è di fatto un percorso di avvicinamento fra le parti in gioco per perseguire una causa che si rivelerà gradualmente essere sempre più decisiva per entrambi.
A questo punto il designer che è in me proverà a spiegarvi che dietro a questo percorso di reciproca comprensione, mai dato per scontato dal racconto, si cela un modello che si articola in 5 passaggi. Vi anticipo da subito che grazie alle Meraviglie dell’Internet questo articolo è interattivo: se vi limitate a leggere i titoli non troverete SPOILER, mentre se cliccate sopra ciascuno per leggere le varie descrizioni ne troverete eccome (comunque calma, non vi sto raccontando il finale di Interstellar).
Fatto il giochino? Cliccato a caso sui titoli? No? Andate subito a recuperare il film.
Insomma, se dovessi pensare ad un aggettivo per “Pride” credo che sceglierei “efficace”: so che sembra una definizione un po’ algida se applicata ad un racconto tanto commovente che parla di una causa sostenuta fino a mettere in gioco le proprie vite, ma vi spiego perché.
“Pride” ha un messaggio da trasmettere, ovvero che interessarsi del futuro del prossimo significa contribuire al proprio futuro. Per farlo, non sceglie un approccio pedagogico, ma di fare adottare al pubblico il punto di vista ora di una, ora dell’altra categoria. E, in assoluta onestà, non ti racconta che farlo sia facile, ma anzi elenca puntualmente una serie di barriere che un processo del genere deve superare e le immense energie da spendere per farlo. Infine, per dire tutto questo riuscendo al contempo a restituire la complessità delle fasi senza appesantire la fruizione del racconto, sceglie la formula estremamente comunicativa della commedia. Una commedia, va specificato, nella migliore tradizione britannica: brillante e garbata, tenera ma anche amara quando necessario e sempre a fuoco nella sua argomentazione, in pieno pragmatismo anglosassone.
La splendida testimonianza di “Pride” non vuole insomma dipingere un mondo felice che non esiste, ma una realtà che può davvero essere resa migliore di quanto sia dagli stessi attori che la animano, se tutti ne acquistano consapevolezza. Ho trovato anche qui illuminante nel suo minimalismo un rapido scambio di battute tra un frequentatore del club gay e Mark Ashton: alla domanda del primo sul perché sia necessario investire tante risorse per i minatori, quest’ultimo risponde “Perchè loro raccolgono il carbone necessario a produrre l’energia che alimenta la discoteca dove puoi ballare le Bananarama”. Il concetto di bene comune spiegato in una battuta, insomma.
In tutto questo io trovo davvero che “Pride” sia un film efficace, che grazie alla sua capacità di comunicare potenzialmente non solo a chi è già sensibile a queste tematiche, ma anche a chi ne è estraneo e non se ne sente coinvolto può contribuire ad infrangere un’altra manciata di barriere sociali. E fra questo tipo di barriere sociali includerei non solo i temi dell’omosessualità, ma anche della parità di genere (non a caso la casalinga gallese Siân James farà tesoro dell’esperienza arrivando a diventare la prima donna nel Parlamento a rappresentare la Contea di Swansea).
In conclusione: una lezione che ho appreso dalla lettura dei classici greci e latini è che quando un autore sceglie di raccontare una storia passata non lo fa per mero esercizio di cronaca, ma per evidenziarne l’attinenza con il presente e per dare uno stimolo a migliorare il futuro. Il mio auspicio è che “Pride” ricordi, se non proprio a tutti, ma almeno a coloro che ne hanno saputo ascoltare il messaggio, che da una crisi non solo economica, ma anche identitaria e di valori si può uscire non pensando a preservare il proprio guscio come la “pancia” suggerirebbe, ma attraverso la cooperazione e lo scambio di conoscenza finalizzati al perseguimento di un bene comune. Io, personalmente, sono davvero convinto che migliorare la qualità della vita di una minoranza migliori anche quella della maggioranza, o anche solo di un’altra minoranza: se non lo fossi stato, del resto, non avrei fatto le due di notte a scrivere questo articolo.