Come insegnano le buone pratiche femministe, prima di tutto il posizionamento. Se scrivo della parola “uomo” e del modo in cui può diventare uno strumento di oppressione, lo faccio in quanto uomo che ha subito quelle oppressioni e che non vuole che una parola che lo definisce sia uno strumento di oppressione.
Il problema su cui puntare l’attenzione è che la parola “uomo” ha un uso generico consolidato, ma che proprio perché è un’abitudine tradizionale viene dato per scontato che quell’uso sia accettabile per chiunque. Sappiamo bene che l’italiano usa spesso un maschile generico per tante occasioni, come ci ricordano linguistǝ e sociologhǝ; e sempre loro hanno fatto più volte notare che le abitudini linguistiche rispecchiano abitudini sociali, e che sia le une sia le altre possono cambiare – basta volerlo in tantǝ.
Il caso storico più clamoroso del fraintendimento per cui la parola “uomo” abbia valore universale è illustre, e risale a più di duecento anni fa: nel 1789 l’Assemblea Nazionale Costituente francese emanò la celebre “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”; documento certamente molto bello e fondativo – peccato che Olympe de Gouges fece notare quanto anche a lei sarebbe piaciuto godere della cittadinanza e dei suoi diritti, e due anni dopo pubblicò la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”. Fu ghigliottinata. Da allora tante persone di tanti sessi, generi, orientamenti diversi hanno provato a far riflettere sul fatto che “uomo”, usato per tuttǝ, può voler dire qualcosa di discriminante e oppressivo, senza per questo far cadere la colpa specificatamente su qualcuno; ma certe abitudini sono difficili a morire. È più facile che muoia chi prova a metterle in discussione.
La parola “uomo” significa “essere umano” perché in genere le persone che la hanno usata con questo significato – in discorsi, documenti, libri, annunci – erano uomini. E così hanno insegnato a usarla anche a chi uomo non era; in realtà però, in molti casi – vedi sopra – loro più o meno consapevolmente intendevano proprio “uomini”, e non “esseri umani”. E, com’è ovvio, è sempre stato molto difficile per chi non è uomo – e bianco, ed etero, e occidentale, e cisgender – riconoscersi in questa presunta universalità di significato, perché le persone, astratte dal loro corpo e dalle differenze che le fanno essere singolǝ e unicǝ, non esistono. Come fu impossibile per Olympe de Gouges accettare di non esistere come essere umano che poteva avere accesso alla cittadinanza e ai diritti, malgrado anche lei avesse preso parte a una rivoluzione, allo stesso modo oggi è molto difficile per tantǝ accettare di essere “uomini” quando uomini non sono, e (non) avere pari diritti e pari possibilità.
Nominare fa esistere: “uomo” non è sinonimo di umano, di umanità, se non come abitudine; l’etimologia non spiega un uso sociale, che invece è spiegato dal potere, dalla tradizione, dal contesto culturale che hanno diffuso e consolidato quell’uso. Lo sapete come si chiama tutto ciò, vero? Patriarcato, cultura patriarcale.
Distinguere i casi in cui “uomo” non è affatto sufficientemente generico per tuttǝ permetterebbe una riflessione su di sé che molti uomini non fanno, perché finalmente si vedrebbero anche loro esistere non come un’entità neutra, una sorta di “modello base” che vale e può stare al posto di tuttǝ, ma come un genere specifico e particolare tra gli altri specifici e particolari. Forse in questo modo tanti uomini comincerebbero a interrogarsi sulle costruzioni di potere che hanno consentito loro, per secoli, di chiamarsi a esempio e a modello di chi “uomo” (ed etero, bianco, occidentale, cisgender) non era, condannandosi, tra le altre cose, a responsabilità, decisioni politiche, ruoli sociali che potevano tranquillamente scegliere di non avere e di lasciare a chi spettano, a chi ne ha eguale diritto.
Spero anche io che un giorno potremo fare a meno di ogni distinzione di genere, soprattutto per quanto riguarda la politica, le lotte per i diritti; ma la strada che porta a quella libertà passa per la comprensione di tutte le oppressioni causate dal genere. Tra queste c’è pure la nominazione, che in ogni lingua non è avvertita come oppressione solo da chi non la subisce o da chi è stato abituato a non vederla. Non pensiamo certo a stupidaggini come quelle che alcunǝ dicono in questi casi, come “non si può vietare una parola”, “non è giusto imporre un significato”, “dove andremo a finire con questo politically correct” e sciocchezze simili. A me “uomo” piace e non voglio chiamarmi in un altro modo; vorrei però che “uomo” fosse solo il mio nome di genere, in modo che chi non è uomo come mi sento io di essere possa chiamarsi come vuole. Le libertà “imposte” sono solo altre forme di oppressione; le libertà si fanno, si creano, passo dopo passo, giorno dopo giorno, lentamente e inesorabilmente: alcune passano per il riappropriarsi di certe parole; altre passano per il ridimensionare l’uso di alcune parole, in modo da usarle, finalmente, con il consenso di tuttǝ.