NdR “Femminile” e “maschile” sono qui utilizzati in senso binario, poiché è binaria la rappresentazione morantiana dei ruoli di genere, che in quest’ottica sono stati analizzati.
La questione identitaria e la presenza di personaggi altri, lontani dallo status narrativo tradizionale, sono certamente elementi ricorrenti nell’opera di Elsa Morante. Le posizioni antifemministe dell’autrice determinano una quasi totale assenza del femminile eroico; in questo senso è però interessante inquadrare la controparte eroica maschile, spesso ribaltata in prospettiva antieroica fino al parodico.
Wilhelm e Manuele nascono dalla penna della scrittrice in due momenti storici e creativi molto diversi. Wilhelm appartiene alla scarna schiera di coprotagonisti che animano il secondo romanzo, L’isola di Arturo (1957) (1), e nello specifico corrisponde al padre del fanciullo che dà titolo all’opera; Manuele è l’ultimo dei personaggi morantiani, il protagonista della conclusiva e più tormentata opera, Aracoeli (1982) (2). Nei due cosiddetti “romanzi maschili” di Morante, i due adulti, entrambi omosessuali, sono segnati dalla mancata realizzazione di legami amorosi e dalla fragilità dei rapporti parentali, oltre che dalla prigionia in contesti sociali fatti di regole molto rigide, inseriti in due immaginari di virilità che non lasciano spazio a “maschi diversi” (3). Il panorama morantiano è ricco di figure maschili che incarnano la diversità, ma l’attenzione focalizzata su questi due esempi di adultità mancata costituisce uno spunto interessante proprio per gli elementi di continuità presenti, nonostante la distanza pluridecennale che intercorre tra le due opere.
Wilhelm e Manuele si fanno esponenti di una natura doppia e scomoda, che deve fare i conti con i modelli di una virilità eccentrica; nelle proprie fisionomie e contraddizioni interne è condensato tutto il problematico discorso intorno alle mascolinità (fragili) che rappresentano. In generale, i personaggi maschili di Morante vivono nel disagio di abitare paradigmi di genere che non consentono loro alcun margine di azione, intrappolati nelle convenzioni che li vogliono forti e risoluti; l’incapacità di mantenere fede a queste strutture determina il loro rovesciamento parodico, i cui esiti più o meno tragici fanno emergere una nuova poetica del rifiuto. I mondi che entrambi abitano prevedono una serie di regole molto rigide rispetto all’orizzonte di attesa che grava sulla cultura dominante, in cui uomini socialmente diversi non sono contemplati. I due personaggi qui analizzati sono ridotti, per usare le parole di Silvia Valisa, a “veicoli dissonanti” (4), un concentrato di stereotipi ai quali l’autrice aderisce per plasmare personalità altre, ma in ultimo negando loro autonomia epistemologica. D’altro canto, la rappresentazione del femminile viene contemplata solamente nella forma di passivo oggetto del desiderio maschile, ancora una volta chiusa nella dicotomia madre/puttana ed incaricata di incarnare il mistero del suo legame con la natura.
Wilhelm, l’ape e la rosa
Il personaggio di Wilhelm viene presentato per lo più attraverso lo sguardo adorante del figlio, che lo paragona ai grandi eroi del passato mitico. Nelle rare sequenze di autorappresentazione, il lettore ha invece accesso a punti di osservazione molto diversi da quelli “luminosi” della narrazione di Arturo: la condizione dell’omosessualità nel misero contesto della provincia isolana, i rapporti umani dettati da interessi, la difficoltà di chi è altro all’interno di una invalicabile struttura sociale. Il breve ruolo del padre narratore contribuisce a decostruire e rendere ambiguo il romanzo, mostrando una prospettiva nuova, che mina le “certezze assolute” del fanciullo. Wilhelm si autorappresenta come un personaggio che alterna abitualmente presenza ed assenza nelle vite dei propri cari, essendo egli stesso il prodotto conflittuale delle due assenze ritenute fondamentali, quella materna e quella paterna, il che potenzia una problematica identificazione di genere.
Voci esterne, come quella dell’amico e amato Romeo l’Amalfitano, intervengono a decretare la sua natura valutata socialmente come contraddittoria e ibrida:
Dunque, pare che alle anime viventi possano toccare due sorti: c’è chi nasce ape, e chi nasce rosa. Che fa lo sciame delle api, con la sua regina? Va, e ruba a tutte le rose un poco di miele, per portarselo nell’arnia, nelle sue stanzette. E la rosa? La rosa l’ha in se stessa, il proprio miele: miele di rose, il più adorato, il più prezioso! La cosa più dolce che innamora essa l’ha già in se stessa: non le serve cercarla altrove. Ma qualche volta sospirano di solitudine, le rose, questi esseri divini! Le rose ignoranti non capiscono i propri misteri. […] Secondo me, tu, Wilhelm mio, sei nato col destino più dolce e col destino più amaro: “tu sei l’ape e sei la rosa” (5).
Doppia è l’intera vita di Wilhelm, che si giostra fra le brevi permanenze sull’isola di Procida e le continue ripartenze, tutt’altro che eroiche come aveva fantasticato Arturo, per far visita ai propri amanti. Come sostiene Concetta D’Angeli, quello del padre assente è un tema onnipresente nella produzione morantiana: nella declinazione del topos canonico del modello familiare otto-novecentesco, in nessun romanzo è presente alcun esempio di paternità positiva, anzi questa figura genitoriale, per proiezione autobiografica, è sempre inadeguata. In questo senso l’esperienza biografica dell’autrice trapela nella visione disturbata e disturbante del femminile, nella propensione a mettere al centro della vicenda antieroi che vivono in famiglie disfunzionali, nei personaggi maschili fragili e parodici.
Manuele, un “maschio fallito”
Il personaggio finale di Morante, Manuele, riflette l’intera esperienza personale di vita dell’autrice, anche e forse soprattutto nella misura in cui rifiuta l’ideale di un maschile virile. Si tratta di un uomo ormai adulto che compie un viaggio dentro e fuori di sé, alla ricerca dei ricordi della madre Aracoeli, ormai defunta. L’infanzia viene vissuta in comunione simbiotica con la genitrice, in una dimensione astorica, asociale e agendered, “bambino? bambina? Certi dati, là, non hanno corso. Maschio o femmina non significa niente. Là, non si cresce” (7). L’assenza di regole rigide nella prima parte della sua vita si riflette anche nel suo carattere androgino, tale per cui egli non si percepisce come maschio, ed allo stesso tempo non considera un tratto femminile a lui precluso quello che riguarda la maternità di Aracoeli: “L’io non si distingueva ancora dal tu e dall’altro, né i sessi uno dall’altro. Per tutto il tempo di Totetaco, io non ebbi nozione di essere maschio, ossia uno che mai poteva diventare donna come Aracoeli” (8).
Con il trasferimento agli altoborghesi Quartieri Alti ha inizio il suo gendering e l’infiltrazione di quel “germe”, il tentato (ma fallito) processo di mascolinizzazione che sancisce la separazione dalla madre, l’irruzione del padre (padrone, ma anche assente, infine fantoccio) e la definitiva incomunicabilità con qualsiasi soggetto femminile. Il protagonista dimostra le proprie contraddittorie pulsioni interne manifestandosi come “veicolo dissonante”, che avverte la propria omosessualità con lo stigma del fallimento della mascolinità. Partendo dal presupposto di Barbara Spackman che gli atteggiamenti coerenti con il proprio genere di appartenenza “portino le tracce di coloro che li hanno costruiti” (9), nella società patriarcale in cui egli vive quei ruoli di genere sono stati stabiliti dagli unici punti di riferimento storico-epistemologici fino a quel momento ritenuti autorevoli: i maschi bianchi occidentali. Non stupisce che il padre di Manuele, Eugenio, sia a sua volta figlio di quei rigidi modelli di mascolinità perpetrati dai genitori, che continuano a imporre modelli obsoleti:
Comportarsi virilmente! In realtà, i nonni dovettero accorgersi prestissimo che questa era una presunzione illusoria, nel caso mio. Senz’altro, ai genitori di mio padre bastò vedermi per capire che non ero un nipote secondo i loro voti e non rispondevo per niente al loro ideale virile. […] anzi, sempre più spaurito, io mi ridussi a un traballante cartoccetto di errori e di vergogne (tutti di un genere femminella) (10).
L’omosessualità di Manuele, come affermazione narrativa più che come riflessione etico-politica, viene tematizzata nel suo rifiuto di occupare uno spazio ideologico univoco; egli non si accontenta di un unico approccio alla realtà e vive un’ambiguità di carattere esistenziale che lo fa autoposizionare fra femminilità e mascolinità. Come affermano Cavarero e Restaino, è conservatrice la rappresentazione morantiana dei ruoli di genere, che separano binariamente il principio attivo del logos maschile da quello passivo della corporeità femminile. Ciò che Aracoeli mina in maniera esplicita è il successo epistemologico della polarità di questi due ruoli, che vengono sconfessati dallo stato parodico del soggetto narrante.
Sia Wilhelm che Manuele disattendono le aspettative: due uomini disperati che vagano in cerca d’amore e che nei rapporti familiari ripropongono gli stessi atteggiamenti problematici di cui sono figli. La disforia dei rapporti tradizionali si ritrova concentrata nelle loro esperienze degradanti, come in un groviglio. Dare voce agli scambi umani che vivono si dimostra, fino all’ultimo romanzo, un’esigenza imprescindibile. Raccontare la storia, piccola o grande che sia, significa spesso confrontarsi con il potere dei padri, figure dell’assenza; nel caso di Morante questo aspetto non può che rappresentare, a livello sia personale sia collettivo, un eterno conflitto.