Articolo di Francesca Anelli
Nel suo (consigliatissimo) saggio “King Kong Theory”, Virginie Despentes racconta del momento rivoluzionario in cui ha scoperto di poter guardare allo stupro che aveva subito non più come a un terribile e umiliante segreto ma piuttosto a una “circostanza politica”, un rischio “connaturato all’essere donna” all’interno di una società patriarcale e violenta. Questo cambio di prospettiva rappresentava un’enorme liberazione: “Paglia (la sociologa femminista che le aveva ispirato queste riflessioni e che purtroppo è poi stata al centro di numerose polemiche per via di affermazioni transfobiche, NdR) ci permetteva di vederci come delle guerriere, non più personalmente responsabili di quello che si sono andate a cercare, ma vittime ordinarie di quello che bisogna mettere in conto di sopportare se si è donne e ci si vuole avventurare all’esterno”.
Con queste parole, la scrittrice non voleva né normalizzare né sminuire la violenza sessuale ma piuttosto guardarla come un fenomeno sistemico, sollevando finalmente le donne dall’ingiusta responsabilità di evitarla a tutti i costi – attraverso la limitazione della propria libertà di movimento ed espressione – e dal peso di un’umiliazione che in realtà è soltanto il riflesso di un sistema di valori sessista e non certo il naturale ordine delle cose.
Il recente smascheramento di gruppi Telegram dedicati allo scambio di materiale pornografico non consensuale ha riportato al centro del discorso pubblico una narrazione della violenza sessuale che, però, non sembra aver recepito il messaggio di Despentes. Si tratta, purtroppo, di una visione comune non soltanto a chi non ha ancora compreso l’entità e la gravità di questo fenomeno, ma anche a chi, in buona fede, cerca di presentarsi come alleat*.
La sacrosanta condanna nei confronti di chi ha diffuso immagini intime senza il consenso della persona ritratta si è, infatti, spesso accompagnata a due atteggiamenti/posizioni, apparentemente innocui e di buon senso, che in realtà riflettono e alimentano la cultura dello stupro.
Il primo problema è l’enfasi sull’umiliazione della vittima, che dovrebbe restituire la gravità di un atto meschino come il revenge porn, ma che di fatto rinforza una narrazione ulteriormente ghettizzante e sessista. Il motivo è che in genere si parla di umiliazione quando si compie qualcosa di disdicevole, di cui è giusto, o comunque normale, vergognarsi. Se usiamo questo concetto in riferimento a dei “nudes” (o comunque a qualsiasi contenuto di stampo pornografico prodotto consensualmente) stiamo quindi associando una libera espressione della sessualità femminile a una condotta in qualche modo disonorevole, che non si addice alle “brave ragazze” e che va quindi tenuta il più possibile privata. Ma la ragione per cui diffondere immagini di questo tipo è inaccettabile non ha a che fare con la loro natura di “porn”, quanto con la presunzione di poter disporre a proprio piacimento (del corpo) delle donne, e dunque utilizzarle come merce di scambio senza alcun riguardo per la dimensione del consenso – che, invece, le riporterebbe a una condizione di parità.
Insistere sulla sfera dell’umiliazione sposta quindi l’attenzione dal problema reale e soprattutto dai reali colpevoli, per indirizzarla ancora una volta sulle vittime del sistema e sull’atto – questo sì moralmente neutro – di esporsi ed esprimersi in maniera libera e personale. Bollando come “umilianti” quei contenuti, insomma, si isola e colpevolizza chi li ha prodotti e non chi li ha diffusi, contribuendo a rinforzare una spirale di vergogna e sessuofobia di cui a farne le spese sono sempre e soltanto le donne – e non solo quelle direttamente coinvolte.
Questo ci porta, poi, al secondo aspetto problematico di una narrazione del genere: gli inviti a “stare attente a chi si inviano certe foto” o direttamente a non scattarle, che per quanto apparentemente in buona fede, sono di fatto paternalistici e controproducenti. Tutelarsi di fronte alla percezione del pericolo si può certamente considerare una scelta saggia, ma suggerire di evitare o limitare pesantemente una condotta del tutto innocua, naturale e piacevole perché il suo prodotto potrebbe essere strumentalizzato non è espressione di buon senso ma un vero e proprio ricatto. Significa, in pratica, svilire la libertà, le necessità e i desideri delle donne, legittimando e rinforzando, al contrario, uno status quo che si regge proprio sul controllo del corpo femminile e su ruoli di genere assegnati arbitrariamente. Significa, ancora, sottoscrivere l’idea che gli uomini non possano controllare i propri istinti e desideri sessuali, e imporre quindi alle donne di farsi carico della responsabilità delle azioni maschili, semplicemente non fornendo loro alcun pretesto per trasformarsi nelle “bestie che sono”. Questa visione del mondo non è soltanto retrograda e totalmente fuori strada (la violenza sessuale ha poco a che fare con il desiderio in quanto tale) ma anche profondamente disumanizzante: svaluta gli uomini e sminuisce il desiderio femminile, negandone l’esistenza o al limite bollandolo come sacrificabile. Di conseguenza, chi sceglie nonostante tutto di seguirlo è sia “sporca” che irresponsabile.
Dietro questi consigli si nasconde, insomma, il più classico victim blaming, che contribuisce, come il focus sull’umiliazione, a far sentire le donne ancora più sole e a impedire loro di esprimere a pieno se stesse.
Come suggerisce Despentes, il modo migliore per parlare di e alle vittime di violenza sessuale – che si tratti di molestie, stupro o revenge porn – è aiutarle a “riformulare” questa narrazione tossica e limitante.
Ribellarsi a un sistema che è costruito contro di te non è irresponsabile, ma coraggioso. Vivere la propria sessualità in maniera libera e senza paura non è disdicevole, ma sano. Subire una violenza di questo tipo non rappresenta un’umiliazione da cui non ci si può riprendere mai più, ma soltanto un episodio che non dice niente del valore morale di una persona e non ne definisce l’esistenza.
Solo una contro-narrazione di questo tipo potrà darci gli strumenti per ridimensionare un fenomeno essenzialmente culturale e che si nutre, dunque, di immaginari e parole.
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