Articolo di Eleonora Viotto
“Crescita”. Mamma mia, che parola opprimente.
E pensare che solo un anno fa era un semplice concetto nella mia testa unicamente legato alla speranza, vana (adesso posso dirlo con certezza), che mi sarei potuta alzare ancora di qualche centimetro, mentre la dura verità è che resterò molto probabilmente la stessa tappetta che sono ora per il resto della vita.
Quando si parla di crescita, ci sono da sempre due principali correnti di pensiero: quella secondo la quale crescere è la cosa migliore che ti possa capitare, fieramente portata avanti da tutta una serie di individui compresi in una fascia di età che va dai cinque anni più o meno fino alla fine dell’adolescenza; e quella secondo cui il diventare adulti è una sorta di punizione terribile ma inevitabile che colpisce tutti, sostenuta con orgoglio soprattutto da qualche grande saggio intorno a noi che generalmente ha superato la mezza età e che adora turbare la spensieratezza di chi sogna l’indipendenza e la libertà con frasi sentenziose e catastrofiste del tipo: “Goditela finché puoi, poi quando sarai più grande te ne accorgerai…”.
In realtà, non ho mai considerato più di tanto queste affermazioni sentite e risentite, anche perché le persone che le dicevano erano gli stessi che ai tempi delle scuole medie mi avevano augurato di spassarmela alla grande, perché al massimo due anni dopo mi sarei senz’altro trasformata in una specie di brufolosa, piagnucolona e nevrotica bestia mitologica (che poi stava sotto la seria definizione di “adolescente”) e invece io ho superato il periodo tra i quattordici e i diciotto anni assolutamente incolume, senza fare esperienza di nessuna fantomatica crisi di identità.
Perciò sono sempre stata fervida sostenitrice della prima teoria, quella che considera l’entrata nel mondo adulto come il momento in cui si può smettere di chiedere ai genitori il permesso di uscire, quando si può finalmente lasciare il nido natio, tanto accogliente, ma altrettanto soffocante e, soprattutto, quando non è più necessario cercare di sostenere una conversazione di senso compiuto con la propria madre alle tre di notte, dopo essere tornata da una festa, senza che questa si accorga che siete tanto stabili sul pavimento di casa come lo sareste su un tappeto elastico e che non sapete in quale guardarla, delle tre paia di occhi che lei possiede in questo momento.
E invece la crisi ha aspettato e aspettato tranquillamente e alla fine si è decisa a presentarsi proprio quando nessuno la aspettava più. Perché io, proprio io che ho sempre amato il giorno del mio compleanno, ho da poco compiuto vent’anni e la verità è che ne avrei fatto proprio volentieri a meno.
L’aspetto disarmante del crescere è che pare di stare su uno di quei tipici ponticelli di legno che si vedono nei film di azione, ondeggianti e sospesi sopra un fiume dove si celano coccodrilli affamati: non sei in una posizione che ti mette a tuo agio, hai una fifa folle, sai che non devi guardare giù, ma per qualche stupida ragione, tu continui a guardare giù. E soprattutto, anche se fino ad adesso hai abbozzato solo qualche tremolante passo in avanti, sai benissimo che non puoi tornare indietro. Anzi: non vuoi proprio tornare indietro. Perché la vita che facevi fino a qualche mese fa è una vita che non ti appartiene più. E perciò mentre sei in bilico tra una marea di nuove esperienze (le bollette da pagare, la spesa, il calcare nel bagno, le persone nuove che conosci e che non sai se ti piacciono veramente) e la vecchia routine che ti sembra così strano riprendere in mano quando torni a casa, arriva un momento in cui non puoi fare altro che sentire sotto sotto una costante impazienza, un sottile nervosismo che si nasconde dietro ogni altra sensazione o emozione; l’impressione di sbagliare sempre qualsiasi cosa.
Ed è la fame di vivere, ne sono sicura, ed è “normale”, ed è “tipico dell’età”, e “non ti fare tutte queste pare mentali”, e “vedrai che poi passa”… Ma, diciamocelo una volta per tutte: fa schifo lo stesso.