“L’auto contiene insito il monopolio, la distruzione di tutte le altre forme dell’andare”1.
Così l’antropologo Franco La Cecla sintetizza il rapporto fra l’essere umano e l’automobile, facendo luce sul primato assunto – e mai rimesso in discussione – di un mezzo di trasporto che cancella, limita, annulla tutti gli altri.
Se il capitalismo, come ha scritto il sociologo e filosofo Mark Fisher, ha vittoriosamente convinto tuttə noi che non ci fossero alternative, l’industria automobilistica ci ha asservitə alle auto, portandoci non solo ad esserne dipendenti, ma a venerarle, a vederci la nostra emancipazione dalla natura, donandoci finalmente la libertà.
Una questione di spazio
“Le auto sono in mezzo a noi da circa un secolo e ormai abbiamo concesso loro talmente tanto spazio che viviamo in un mondo che non è più fatto per noi, ma per loro”2.
Siamo diventate, senza bene rendercene conto, persone schiave di uno strumento che ci obbliga a percorrere distanze che senza di esso non sarebbero mai esistite, “che ci isola dagli altri, che ci cambia l’umore in peggio, che causa ogni anno tra automobilisti, motociclisti, ciclisti e pedoni circa un milione e mezzo di morti – più di 3 mila al giorno, secondo l’OMS – e che costa in media a ogni automobilista dai 2 ai 4 mesi all’anno di lavoro”3.
Sono tutto, sono dappertutto, non solo per le strade, ma anche nelle immagini che ci scorrono davanti quotidianamente (gli investimenti dell’automotive nel giornalismo e nella comunicazione rappresentano la maggior parte degli introiti pubblicitari), in qualsiasi forma di manifestazione culturale (il Primavera Sound di Barcellona è finanziato da Seat, il Festival di Cannes è sponsorizzato da Renault, il Coachella da BMW) e sportiva, dove gli esempi si sprecano.
Secondo l’OICA4, solo nel 2018 sono stati prodotti 95.706.29 nuovi veicoli, che si sono andati ad aggiungere al miliardo e 300 milioni di veicoli già esistenti. Le auto sulla Terra in questo momento occupano uno spazio equivalente almeno al doppio degli esseri umani che ci vivono.
Una questione di tempo
Se pensare agli spazi umani – spazi potenzialmente di incontro e di scambio, di gioco e libertà – ridotti sempre più all’osso può fare impressione, riflettere sul tempo che questo mezzo, che a breve chiameremo di non trasporto, prosciuga è un esercizio ancor più inquietante.
Le automobili occupano il nostro tempo sia attivamente – mentre si guida non si può e non si deve fare null’altro – sia passivamente, quando non siamo noi a guidare – pensate, per esempio, alle auto che rallentano tutti gli altri mezzi di trasporto, i pedoni, le biciclette…
Come suggerisce il saggista Andrea Coccia:
“Consumiamo il 95% della benzina che buttiamo nella nostra automobile per non realizzare nessuna delle sue promesse: andare lontano, andare veloce, andarci in tanti, trasportare cose, essere liberi, scoprire il mondo. L’automobilista medio non fa nessuna di queste cose: la macchina la usa per andare vicino a casa, lentamente, quasi sempre da solo e portando, oltre a se stesso, al massimo la borsa col computer”.
Ne siamo dipendenti a vari livelli, e il problema più grave legato alle quattro ruote non è nemmeno il suo impatto sull’ambiente, che dovrebbe comunque far riflettere. L’auto ha sì cambiato il paesaggio, rendendolo indubbiamente più grigio, sporco, ma soprattutto ha cambiato noi, i nostri contatti con le altre persone, isolandoci ed estraniandoci. Crediamo che il suo utilizzo sia ascrivibile a un diritto inalienabile per l’umanità, un tappeto magico in grado di portarci dove vogliamo e quando lo desideriamo, ma assomigliamo sempre più a umanoidi stravolti che ogni giorno trascorrono su quel tappeto ore e ore fermi, in coda per andare al lavoro. L’alta velocità è riuscita a capitalizzare il tempo di poche persone, deprezzando il tempo di tutte le altre.
Ecco qui esemplificata alla perfezione la differenza tra diritto e privilegio: se estendi a tuttə un diritto, il mondo migliora; se provi a massificare un privilegio, il mondo diventa un inferno e quel privilegio una gabbia.
Una questione di classe
Sì, anche la velocità è un privilegio. Su cosa si fondò la nobiltà? Sul possesso dei cavalli, ovvero sul privilegio di potersi spostare più velocemente deə altrə. Il tempo è l’unica ricchezza che abbiamo, una ricchezza di cui siamo tuttə dotati, l’unica che non si accumula, ma si può solo spendere.
“Dimmi quanto ci metti a spostarti e ti dirò quanto sei libero. E il 99,9% del mondo è molto poco ricco e molto poco libero. Chi fa veramente parte dello 0,1% del mondo, la classe dei super ricchi, ha ormai superato il rapporto con lo spazio e con il tempo che hanno i comuni mortali. Si sveglia a Londra, pranza a Roma e fa l’aperitivo a Parigi, se vuole. In macchina ci passa il meno tempo possibile, facendo guidare quasi sempre qualcun altro. Anche tutto il resto del mondo si muove, ma nella maggior parte dei casi si muove in macchina, con la quale si sposta prevalentemente tra casa, lavoro, scuola e centro commerciale”5.
La vera svolta arriva con la consapevolezza che se agli albori l’automobile poteva essere considerata un privilegio, ora che ce l’hanno tuttə, e spesso più di una per nucleo familiare, continuare ad attribuirle questo significato si fa più faticoso. Guidare è diventata “roba da poverə”, specie se traghetta le anime dannate sul posto di lavoro. La macchina non è più “roba da ricchə” almeno da quando, nell’immediato dopoguerra, i più grandi gruppi industriali del mondo la resero un prodotto di massa per mantenere sempre in crescita i livelli di produzione della guerra. Il loro sogno si è più che avverato: oggi potremmo parlare dell’auto come patrimonio dell’umanità. Il boom economico, con la sua spinta ai consumi e la creazione del mito dell’auto utilitaria e operaia, delle vacanze al mare e della democratizzazione della felicità, ha messo d’accordo tuttə.
“L’automobile è il cuore pulsante del capitalismo, il simbolo vivente del trionfo dei bisogni dell’individuo su quelli della collettività, ma anche della legge del profitto su quella della sostenibilità, della crescita all’infinito sulla ricerca dell’equilibrio, […] è la vittoria del diritto di arricchirsi a dismisura di una manciata di individui contro il benessere e la libertà di autodeterminazione di tutti gli altri […]. Convinti che l’automobile sia l’ultimo rifugio del nostro diritto alla libertà e alla felicità personale, non ci siamo resi conto che siamo finiti in una trappola iper-classista. La gran parte dei chilometri e delle ore che passiamo in auto servono a colmare delle distanze che le macchine stesse hanno creato”6.
La città di Milano conta circa 1 milione e 400 mila abitanti. Per le strade della capitale italiana dell’efficienza e della velocità circolano 1 milione e 800 mila automobili. Non ci stanno più, non ci stiamo più. Eppure, ogni notte, sempre più macchine hanno il proprio tetto sopra la testa, mentre sempre meno persone possono godere dello stesso privilegio.
Se tuttə si muovono, nessuno si muove
La paradossale sensazione di potersi muovere liberamente cresce con l’aumentare delle automobili in circolazione. Ciò che avviene in realtà è che la concreta capacità di muoversi si abbassa, complice anche il diradamento o la scomparsa totale dei mezzi pubblici. Il dominio dell’auto è stato causa della marginalizzazione del tessuto ferroviario, ovvero il più forte tessuto socio-politico del Novecento. Il riferimento è alla categoria dei ferrovieri, perlopiù socialisti e anarchici mossi da istanze comunitariste, in contrapposizione a quelle individualiste che muovevano gli Stati Nazione.
“Più auto circolano e meno mezzi pubblici resteranno attivi, rendendo la macchina ancora più necessaria, nella testa della gente, per sopperire alla carenza di servizi. La scusa migliore per sospendere un autobus, un tram o una piccola linea ferroviaria è sempre stata questa: ormai hanno tutti la macchina, i mezzi non li prende più nessuno. Chi paga ottiene i diritti dell’automobilista, mentre tutti perdono il diritto di essere pedoni”7.
La verità è che senza stabilire un tetto all’impiego di energia e di risorse non si realizzeranno mai rapporti sociali caratterizzati da livelli alti di equità. Alla lunga si è visto che accelerare il trasporto non fa che generare una domanda universale di altri mezzi motorizzati, creando fra i vari livelli di privilegio distanze inimmaginabili. Nonostante sia indubbio che l’industria del trasporto sia essenziale per la produzione ottimale di traffico, è fondamentale che questo processo non passi più attraverso l’esercizio di un monopolio radicale sulla mobilità personale. Contro la fine della città postulata dalle macchine è più che mai necessario decolonizzare il nostro immaginario.
“Forse è possibile, forse, come le bici ad Hanoi, richiede solo una grande capacità di sgusciare tra la cretinaggine delle auto e il flusso generale che solo apparentemente può bloccarci”8.