Articolo di Beatrice Carvisiglia
Disobedience esce in Italia il 25 ottobre e attira la nostra attenzione per due principali ragioni. In primo luogo, Sebastián Lelio ha diretto anche Una donna fantastica, film che abbiamo apprezzato e recensito qui. Seconda e non meno importante motivazione è il romanzo da cui Disobedience è tratto, opera di Naomi Adelman, autrice anche del distopico Ragazze elettriche (di cui trovate invece la nostra recensione qui).
In Disobedience, tuttavia, Lelio mette in scena un ambiente decisamente più cupo, trascinandoci nel mondo ristretto di una piccola comunità ebraica londinese. La narrazione si apre con l’omelia del rabbino Rav Krushka, un discorso su angeli e bestie il cui filo conduttore è proprio la disobbedienza e il comportamento dell’uomo di fronte alla totale libertà di scelta. Questo tema si dipana per tutto il racconto, con il ritorno della figlia Ronit, interpretata da una magnetica Rachel Weisz, fuggita anni prima a New York per esercitare la sua professione di fotografa.
Ronit decide di tornare a casa del suo amico Dovid (Alessandro Nivola), allievo prediletto del rabbino e, inaspettatamente, marito di Esti, una Rachel McAdams dal viso angelico e dalle vesti castigate, perfettamente calata nel ruolo della moglie devota. I tre ex amici si ritrovano dunque a convivere nell’attesa del funerale di Krushka, sollevando in questa maniera le ceneri di sentimenti mai del tutto placati. Ronit è la pecora nera della comunità, colei che ha smarrito la via indicata dalla Torah: porta i tacchi e le gonne, fuma, dice cose sbagliate come “non voglio avere figli”, è sensuale negli sguardi e nei gesti. Esti è il suo esatto opposto: indossa parrucche geometriche e colli a vita alta, segue diligentemente tutte le regole imposte dalla comunità, comprese quelle che regolano la sua vita intima con il marito. Tuttavia, ad essere al centro di un dramma esistenziale è proprio Esti, che non riesce a far pace con la sua identità sessuale, trattata alla stregua di una “malattia”.
Tra queste due donne all’opposto esiste una sorta di incastro simmetrico, che i volti delle due protagoniste riescono a rendere creando sullo schermo un’alchimia potente di angoscia e desiderio. Le scene tra le due sono misurate minuziosamente: vi è uno stacco evidente tra la parte iniziale della narrazione, dominata dai canti liturgici, e la prima scena di solitudine delle due amanti, in cui a risuonare è invece la Love song dei Cure. Modernità e antico, tradizione e rigore contro invece ciò che appare immorale e ingiusto.
Lelio riesce a creare un’atmosfera cristallizzata nel tempo grazie a una scala di colori perennemente dominata dai grigi. Un ambiente tetro, colmo di tensioni, in cui le gabbie che si stringono attorno alle protagoniste assumono contorni solidi e palpabili. Un contesto in cui la religione opprime l’individuo dettando le regole del suo vivere più intimo, in cui chi trasgredisce la regola è condannato all’oblio.
Così è forse per Ronit, osteggiata dalla comunità e dimenticata anche dal padre. La disobbedienza assume allora un valore nuovo, così come la libertà di scelta. Libertà che è anche e innanzitutto affettiva e sessuale: è il richiamo della carne contro la dittatura dello spirito. L’energia e il magnetismo delle due protagoniste esplodono e gettano nel subbuglio un’ intera comunità, tratteggiata con le sue piccole maldicenze e dicerie che si fanno cattiveria.
Sebastián Lelio ci lascia un film che, se non è un invito a disobbedire, è quantomeno una riflessione sul senso della disobbedienza e sulla necessità di mettere in discussione ciò che consideriamo giusto o morale. Disobedience riesce in questo scopo anche perché è impreziosito da una fotografia raffinatissima, che inchioda lo spettatore alla tensione dei protagonisti e ci rende partecipi della loro immutabilità e della conseguente frustrazione. Quello che ne esce sullo schermo è un dramma imponente e sensuale, in cui finiamo per chiederci se non sia il desiderio il primo motore della libertà e soprattutto, quanto passione e sovversione siano intimamente legate quando c’è di mezzo la lotta per l’uguaglianza.