Articolo di Stefania Covella
Una donna fantastica (Una mujer fantástica) è un film del 2017 diretto da Sebastián Lelio, vincitore dell’Orso d’argento per la Migliore Sceneggiatura al Festival Internazionale del cinema di Berlino 2017. Il film è stato selezionato per rappresentare il Cile ai premi Oscar 2018 nella categoria Miglior film in lingua straniera. Interpretato dalla magnifica Daniela Vega, è stato distribuito nelle sale italiane il 19 ottobre di quest’anno.
La pellicola è stata prodotta da Pablo Larrain, un regista sempre attento alle tematiche sociali. Lelio e Larrain sono entrambi cileni e hanno esordito alla regia lo stesso anno, nel 2006. Tutti e due fanno parte della prima generazione libera di frequentare le scuole di cinema e di ricominciare a girare dei film dopo la dittatura. Rientrano nell’ondata del nuovo cinema cileno.
In Una donna fantastica, Lelio ci regala il ritratto di una figura femminile molto forte, alle prese con una società che non l’accetta. Siamo ad un bivio storico: una parte del mondo alza muri, chiude frontiere ed emargina chi viene considerato diverso, mentre una controcultura tenace cerca di educare all’accoglienza e all’amore privo di pregiudizi.
L’approccio di Lelio è ammirevole dal principio: immaginatevi una sceneggiatura scritta a Berlino e un regista che ha paura di cadere nei soliti cliché, cosa ne sa di come vive una donna transgender di Santiago del Cile? Non basta crescere nello stesso posto.
Così incontra Daniela, una cantante lirica transessuale che – per un anno – gli fa da consulente culturale. La donna lascia fluire nella sceneggiatura i suoi pensieri, racconti generosi e personali, finendo per diventare la protagonista del film.
Questo è il segreto: l’autenticità fatta di umiltà nell’approccio e di ascolto pieno e condiviso, una realtà che vuoi raccontare ma non è la tua realtà e ti serve un modo, dei simboli e una voce.
Lelio ha trovato in Daniela una voce e l’ha ascoltata, ha inventato per lei delle immagini potenti e ha fatto spazio alle visioni.
Una donna fantastica è la storia di Marina Vidal (Daniela Vega): cameriera e aspirante cantante legata sentimentalmente ad Orlando (Francisco Reyes), un imprenditore di vent’anni più grande.
La loro è una felicità fragile, destinata a interrompersi la sera del suo compleanno, quando il suo grande amore ha un malore e muore. La donna viene subito vista con sospetto dai medici e dalla famiglia di Orlando, che avviano delle indagini per capire in che modo sia coinvolta nell’incidente dell’uomo.
Marina è una donna transgender e, per la maggior parte della famiglia di Orlando, la sua identità di genere è un abominio e la loro relazione una perversione. Per questo le è vietato partecipare al funerale e rischia di essere cacciata dall’appartamento che divideva con lui. Marina lotta, combatte per il diritto di essere sé stessa, battendosi contro tutto e tutti per difendere la propria identità e i propri sentimenti.
I titoli di testa scorrono sulle cascate di Iguazú filmate dall’alto, accompagnate da musica classica: sono il perfetto prologo di un film che scorre come un flusso naturale. Film che, a volte, pecca di surrealismo ed eccessi, compensati dalla straordinaria interpretazione di Daniela Vega. Lelio, al tempo stesso, svela e nasconde Marina agli occhi dello spettatore. Mette uno specchio al posto dei suoi genitali in una delle scene più memorabili.
Si tratta di una poetica di sottrazione e ambiguità che paradossalmente aggiunge spessore e magia proprio lì dove Lelio sembra negarci qualcosa.
Il regista cileno si concentra ossessivamente sui dettagli: la tensione dei volti, i colori e gli scatti nervosi di Marina. Anche se spesso scade nel didascalico – per essere certo di far passare il messaggio – calcando i sotto-testi dell’intreccio. Sono moltissimi i simboli che si susseguono: uno specchio deformante, un fantasma in un autolavaggio, un vento fortissimo, i colori primari riflessi sulla pelle.
Più Lelio pone al centro della scena Marina, più gli altri personaggi non sanno come trattarla e finiscono con l’emarginarla brutalmente. La insultano definendola mostro e frocio, sbagliando anche nel tentativo di odiarla e incasellarla a tutti i costi. Le fanno del male. La chiamano chimera e le chiedono se abbia cambiato sesso, e lei risponde quello che Lelio risponde a tutti noi:
“Sono affari miei.”
Mentre i familiari di Orlando ripetono a turno: “Non so come definire quello che vedo di fronte a me”, il regista ci mostra Marina. Sembra tutto così assurdo che vorresti poterla abbracciare e dirle che va tutto bene, difenderla dall’ottusità della gente.
Nonostante il regista si faccia portabandiera della diversity, non trasforma mai il proprio film in un manifesto a favore della comunità transgender, resta concentrato su Marina e sui suoi sentimenti, andando oltre il politicamente corretto e l’impegno civile.