Oggi voglio condividere un messaggio con voi, voglio parlare alle femministe cattive, ma anche a tutt* coloro che non capiscono come alcune donne possano odiare gli uomini e, erroneamente, chiamarsi femministe.
Oggi voglio, senza alcuna presunzione, mettere nero su bianco ciò che la mia esperienza mi ha insegnato su questa categoria, sul perché il femminismo sia talvolta (di nuovo, erroneamente) associato all’odio per gli uomini e su quanto male faccia al femminismo questa rappresentanza.
Oggi voglio parlarvi di quando ero io stessa una femminista cattiva. Di quando mi chiamavo femminista, ma odiavo gli uomini.
Dicendo femminista cattiva mi riferisco a una persona che si identifica come femminista ma, spesso inconsapevolmente, non sposa il vero ideale femminista che mira alla parità dei sessi e si sbilancia invece predicando la supremazia femminile e il conseguente odio nei confronti di, rigorosamente, tutti gli uomini. La cosiddetta men-hater.
La prima cosa che voglio dire, tanto banale quanto necessaria, è che il femminismo non è questa cosa qua: il femminismo non è la supremazia della categoria discriminata e il sopravvento di questa sulla categoria che opprime. Il femminismo è questo:
femminismo
[fem-mi-nì-ṣmo] s.m.Dottrina e movimento che si propone di rivalutare il ruolo sociale e politico della donna e di ottenere la parità civile, politica, economica della donna rispetto all’uomo, nato e affermatosi con varia fortuna nel quadro della moderna società industriale.
La seconda cosa che invece voglio dire è che io comprendo a fondo i motivi (perlomeno alcuni) che portano le cosiddette femministe cattive a nutrire tali sentimenti e tale odio. Li comprendo perché fino a un po’ di tempo fa li condividevo: ho cominciato a chiamarmi femminista e al contempo a odiare gli uomini, credendo ingenuamente che le due cose fossero compatibili, se non addirittura che la seconda fosse necessaria alla prima. Stavo cominciando a vedere il male operato da una categoria a discapito di un’altra e non potevo farne a meno. Sia nel mio piccolo che nel mondo. Nella mia cerchia di amici, amiche e conoscenti. Al telegiornale e per la strada. Ovunque guardassi la maggior parte delle volte vedevo esempi di uomini cattivi, sessisti, maltrattanti, violenti. Uomini da odiare.
Allo stesso tempo vedevo il movimento femminista come un’ancora di salvezza, un barlume di speranza a cui aggrapparmi, una marea di donne (e purtroppo troppi pochi uomini) pronte a lottare, a mostrare il loro valore, pronte a far sentire la loro voce e a non tollerare più di essere maltrattate, uccise, discriminate. Il femminismo (o meglio: quello che all’epoca credevo essere femminismo) mi ha dato speranza nei momenti più bui, mi ha fatto conoscere persone meravigliose e mi ha fatto venir voglia di trasmettere agli altri il fantastico mondo che stavo iniziando a scoprire. La mia passione per il femminismo era nata dall’odio. All’epoca credevo che tutte le donne fossero paladine della giustizia trattate ingiustamente, e che tutti gli uomini fossero degli stronzi (non mi piaceva generalizzare, insomma). All’epoca credevo di essere femminista, perché nessuno mi aveva insegnato cosa fosse davvero il femminismo.
Sembrerà bizzarro ma la prima persona ad avermi insegnato il vero significato di questa parola, che tanto amavo quanto utilizzavo scorrettamente, è stata la meravigliosa Emma Watson, in un discorso alle Nazioni Unite che molt* di voi conosceranno e che io ricordo come un punto di svolta nella mia formazione femminista. Watson parlava dell’iniziativa HeForShe, creata per invitare gli uomini all’interno del dibattito femminista; perché violenza e discriminazione contro le donne sono problemi che riguardano tutta la popolazione ed è proprio dell’impegno di tutti e tutte che abbiamo bisogno.
Ma, soprattutto, la mia eroina di Harry Potter parlava di come il femminismo venisse spesso associato a un sentimento di odio verso gli uomini e di come questo dovesse finire, perché questo non era femminismo: dire che mi sono sentita chiamata in causa è dire poco. Quella è stata la prima volta in cui ho cominciato a dubitare di ciò in cui credevo così fermamente, è stata la prima volta in cui ho sentito la vera definizione di femminismo e in cui ho iniziato a capire che dovevo rivedere i miei principi. Sarebbe bello poter dire che questo procedimento è stato rapido e chiaro, che capire che odiare il sesso opposto non era la soluzione giusta è stato un gioco da ragazzi, ma purtroppo non è andata esattamente così.
Dopo aver sentito e accolto ogni parola di quel discorso ho cominciato a riflettere e a discutere con la gente, soprattutto con le ragazze e le donne che facevano parte della mia vita, a chiedere loro se si definissero femministe e cosa rappresentasse per loro questa parola. Credeteci o no, ma le risposte che ho ottenuto allora rispecchiavano molto ciò che Watson aveva anticipato: quasi nessuna delle mie amiche si identificava come femminista. Perché?
Perché non mi sento discriminata
Perché non mi è chiaro per cosa si batta il femminismo
Perché non odio gli uomini
Perché io mi batto già per i diritti umani
Il dibattito che stavo andando a creare serviva soprattutto a me, per capire cosa fosse il femminismo e per capire che per tutto quel tempo stavo andando fuori strada. Ero sicura che la parola fosse giusta, di volerla nella mia vita, ma avevo davvero capito cosa fosse? Con cosa mi stavo identificando? Cosa voleva davvero dire essere femminista?
Due parole importanti mi hanno portato dove sono oggi: formazione e informazione. Leggere e formarmi sul tema mi ha attrezzato con moltissima consapevolezza, la stessa che mi è servita per comprendere cosa significasse quella parola ancora oggi parecchio controversa, per discuterne, per capire altri punti di vista e continuare a crescere. Ho frequentato corsi di formazione e ho cominciato a parlare alle persone del femminismo, quello vero, quello senza odio. Quello che ha bisogno di uomini e donne per raggiungere il suo obiettivo. Quello che mira alla parità, nella sua accezione più ampia del termine.
Questa è la storia di come sono diventata “femminista per davvero“. Non voglio in alcun modo avere la presunzione di supporre che tutte le femministe cattive stiano attraversando o abbiano attraversato le stesse cose, perché ogni storia è diversa e merita di essere raccontata e ascoltata. Quello che voglio trasmettere con questo racconto è che capisco perché ci sono donne che odiano gli uomini: viviamo in una società patriarcale in cui le donne guadagnano meno degli uomini, vengono uccise e stuprate in percentuale nettamente superiore agli uomini, semplicemente perché donne. Ovviamente non vale per tutti gli uomini, non ci dovrebbe essere neanche bisogno di dirlo. Ma per molte donne, purtroppo, questa è ancora la realtà. È comprensibile che la reazione di pancia ad un fenomeno come l’oppressione del patriarcato sia l’odio. Per me e per molte altre donne è stato così.
Ovviamente adesso viene un grande ma, un ma per me importantissimo sul quale a momenti mi rendo conto di dover ancora lavorare. Il fatto che l’odio sia la reazione di pancia non è una giustificazione: nessuna violenza giustifica altro odio, altra violenza. Per quanto la tentazione di cercare vendetta non possa che esistere, il nostro compito è non cedervi. Il nostro compito è creare un mondo migliore in cui ogni persona possa godere dei propri diritti, indipendentemente dal sesso assegnato alla nascita. Il nostro compito è lottare per la parità, affinché sempre più uomini smettano di essere oppressori così che sempre meno donne vengano oppresse. Ma la soluzione non potrà mai essere quella di opprimere gli oppressori.
L’iniziativa di HeForShe mi ha fatto comprendere che il problema non sono gli uomini, ma il sistema patriarcale in cui viviamo, che ha un grande impatto su tutt* noi, nessun* esclus*. Comprendere questo passaggio mi ha portato alla presa di consapevolezza che per risolvere le gravi ingiustizie sessiste, a cui assistiamo ogni giorno, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile: dell’aiuto di donne, uomini e tutt* le persone che si identificano come non binarie. Comprendere questo passaggio mi ha aiutata e riappropriarmi della parola femminismo e a interiorizzare il suo vero significato.
Mi auguro che dall’odio un giorno arriveremo alla parità e che, così, essere femminist* non sarà più necessario.
Ciao. Mi piace la tua storia, e sono contenta che tu con il tempo sia riuscita a capire in cosa consista il vero femminismo. Anche io, a sedici anni, mi aprii, almeno culturalmente e individualmente (all’epoca non avevo computer, quindi non potevo collegarmi ad Internet, ma lessi tutti i classici, dalla De Beauvoir alla Irigaray) al movimento. Grassa, poco curata esteticamente, ero da sempre arrabbiata con i maschi perchè non mi calcolavano minimamente nemmeno come amica, prendendomi in giro con termini come cicciona. In più, vi era la rabbia per come gli uomini, in passato e attualmente, hanno sempre trattato l’altro sesso. Quindi si, forse per la maggior parte di noi, almeno all’inizio, è seriamente complicato non volere la supremazia femminile, vendicarci del danno subito. Come hai scritto, comprendi il motivo per cui alcune odiano i maschi. Io ho conosciuto una misandrica di quelle che sostengono il matriarcato. Ha vissuto esperienze terribili. Il tizio che una volta mi chiamò Gabibbo (ok, almeno 5 volte), sputandomi poi sui capelli, in confronto è un angelo caduto dal cielo. Non la voglio ovviamente giustificare, non essendo d’accordo con l’odio in nessuna forma. Allo stesso modo tuo, però, fortunatamente la maggior parte di noi comprende, con il tempo, il significato del vero femminismo. A mio parere attuale, per esempio, anche desiderare che le vittime maschili di attacchi da parte delle donne abbiano giustizia, è volere la parità dei sessi. L’attenzione verso il fenomeno del femminicidio è vergognosamente poca, ma è altrettanto vero che Pezzullo, colpito con l’acido dalla ex, non lo ha calcolato nessuno, mentre la bellissima Lucia Annibali è stata premiata da Mattarella. Scusa, ma lo trovo ingiusto pure. Comunque, per concludere, il vero problema credo che sia che, in qualunque maniera ti poni, per colpa del poco sapere esistente su questo argomento, se ti chiami femminista sei considerata dalla maggior parte come odiatrice di uomini.
Ho letto l’articolo. Ne approvo in pieno il contenuto. Forse il termine ‘femminismo’ è ormai sovraccarico di istanze ambigue, di aspirazioni legittime e non, pretese, spirito di revanche e certamente di comprensibile insofferenza per la violenza di mariti e compagni. Piuttosto che di rivoluzione femminista auspicherei che si parli ‘rivoluzione femminile’: sarebbe una locuzione meno ambigua; ma di certo una rivoluzione autenticamente ‘femminile’ nella società odierna non potrebbe più alimentare l’equivoco e l’alibi sessita a flusso incrociato (uomini contro donne – donne contro uomini) duro a morire e probabilmente sarebbe impegnativa per tutti, donne e uomini, perché richiederebbe l’accettazione di una parità senza equivoci e infingimenti nella quale la libertà e la responsabilità siano riconosciute e accettate da tutti/e come due sorelle siamesi. E’ vero che nel rapporto tra i sessi spesso sono quasi sempre le donne a subire violenza e iniquità: i fatti di cronaca lo attestano. Ma ci sono anche altri esseri umani, meno appariscenti, che il frastuono mediatico tende a dimenticare – maschi e femmine – che subiscono ancor più violenze di vario genere. Chi sono? i bambini , i preadolescenti e gli adolescenti, i giovani: spesso vengono tirati su da donne abbandonate dai loro coniugi o compagni; spesso sono proprio le madri (talvolta madri per caso) ad allontanare mariti e compagni dal talamo nuziale e dal tetto coniugale nella presunzione di poter essere sufficienti a crescere i figli senza la lor ingombrante e “inutile” presenza, impedendo a mariti e compagni di esercitare la fondamentale funzione di tagliare il cordone ombelicale – invisibile ma reale – che lega ancora madri e figli evidenziando nelle donne-madri una sorta di delirio di onnipotenza. Ma la violenza del combinato disposta si estende anche ai non-nati, perché non accolti in una deriva intenzionale rinunciataria che non promuove la vita. Il modo migliore per cambiare ‘il mondo’ è invece quello di procreare, di accogliere altri esseri umani ed educarli ad un sereno umanesimo (laico o cristiano che si voglia). Ma ora il finanz-capitalismo imperante cavalca l’ideologia del transumanesimo: una prospettiva folle che inibisce ogni prospettiva miglioristica nella relazione fra i sessi e per il futuro dell’umanità. Non saranno né le donne né gli uomini a comandare, ma saranno donne e uomini robotizzati a soddisfare le esigenze del “mercato” in un’inedita forma unisex.
Ercole De Angelis