Articolo di Eugenia Fattori
Se siete fan di Elizabeth Warren, l’accademica col caschetto biondo e gli occhiali che ama i cardigan e voleva diventare Presidente degli Stati Uniti, oggi è un giorno molto triste. Anche se per voi non era una candidata ideale, ma fate parte di una categoria marginalizzata – ovvero non di quella dei maschi, cisgender, eterosessuali, bianchi e borghesi – dovreste essere tristi, perchè l’America ha perso la sua ennesima occasione per eleggere una donna come President Of The United States.
Anche se pensate sinceramente che i due candidati maschi rimasti in corsa siano più adatti a battere Trump, dovreste essere dispiaciut*: perché il fatto stesso che lo stiate pensando è un’ingiustizia, non contro Warren personalmente ma contro le ambizioni di tutte le donne competenti e capaci che desiderano essere prese in considerazione per un lavoro o una carica importante e vengono automaticamente escluse dal processo per il solo fatto di essere donne.
Per spiegare meglio questo ragionamento, bisogna partire dalla biografia di Elizabeth Warren. Biografia che è, per molti versi, l’incarnazione del Sogno Americano: proveniente dalla lower middle class (quarta figlia di una casalinga poi impiegata di Sears e di un venditore diventato poi, a causa di una malattia che gli costò il lavoro e lo seppellì di debiti, custode di un condominio), ha iniziato a lavorare come cameriera a 13 anni e ha potuto proseguire le scuole fino all’Università soltanto grazie a una borsa di studio vinta per le sue doti nel dibattito, che l’abbiamo vista mettere in pratica brillantemente durante le primarie democratiche. Ha lasciato l’Università perché incinta, per riprendere gli studi accademici poco tempo dopo e avviare una carriera d’avvocata nel diritto commerciale per poi, totalmente dedita alla tutela di quella stessa piccola borghesia di cui facevano parte i suoi genitori, ritrovarsi progressivamente sempre più indebitata e impoverita.
Lei stessa racconta di come il suo percorso nella legge, partito da una ricerca che voleva dimostrare la malafede di chi dichiarava bancarotta, la portò verso il percorso opposto:
“Erano famiglie di grandi lavoratori, della classe media, che per la maggior parte avevano perso il lavoro, si erano ammalati e per questo erano finiti in un baratro finanziario. La maggior parte di loro erano in completo collasso economico quando avevano dichiarato bancarotta. Non avevano alternative alla bancarotta, se non restare sommersi dai debiti per il resto della vita; debiti che non avrebbero mai potuto ripagare. Questo cambiò la mia visione delle cose (…)”
Il processo di maturazione e consapevolezza lavorativo e personale di Warren è molto simile a quello che gli Stati Uniti hanno vissuto e stanno vivendo, quando, dopo la corsa apparente infinita della middle class verso il benessere e l’ascesa sociale, l’intero Paese inizia a fare i conti coi danni che un’economia basata sul capitale riesce a fare a lungo termine anche a scapito di chi sembrava esserne avvantaggiato. Lo chiamano Broken Capitalism ed è esattamente l’idea che sta alla base del programma molto complesso che Warren propone fin dall’inizio della sua corsa alle primarie americane: il suo è un tentativo di ridisegnare un sistema economico che arricchisce solo i più ricchi.
Se vogliamo, lo si potrebbe definire un socialismo alla portata degli americani, che cerca di non tradire lo spirito del Paese che ancora vive il capitalismo come espressione di individualità e libertà, ma al tempo stesso introdurre misure specifiche per generare un sistema economico più equo passando non da una rivoluzione, ma dalle riforme strutturali: è il programma concreto e solido, senza tanti fronzoli, di una politica di lunga esperienza che è anche un’accademica e una lavoratrice; cosa che la differenzia sia da Sanders (studente mediocre per sua stessa ammissione, la cui carriera prima di diventare politico a tempo pieno comprende i lavori di carpentiere, filmaker e scrittore) che da Joe Biden, la cui esperienza professionale extra politica include due anni da avvocato prima di essere eletto senatore a 29 anni, così come dalla maggior parte degli uomini che si è trovata a fronteggiare durante i dibattiti.
Sulla carta, Warren era quindi una candidata più solida e credibile, non solo come preparazione ma anche da un punto di vista biografico, il perfetto compromesso tra il moderato Biden e il socialista Sanders, nelle stesse parole di Warren “Someone who can both do the work to transform our government from the inside and who can bring pressure to bear on government by leading a grassroots movement from the outside”.
Quindi, perché non l’hanno votata?
La prima risposta, e probabilmente la più vera, è che nessuno lo può sapere. Sarebbe facile dare la colpa del mancato successo di Warren ad altri, parlare solo di sessismo (ma ne parleremo), di likeability e di electability (anche di questo parleremo), ma la realtà è che una corsa elettorale è il risultato di molte forze contrapposte che quasi mai hanno a che fare solo con la solidità delle idee e de* candidat*.
La likeability ha avuto indubbiamente un peso impossibile da trascurare: per l’elettore medio, come dice il Time, “big structural change” suona molto meno eccitante di “political revolution”. Al contrario dei grandi proclami ideologici di Sanders, i “plan” di Warren possono sembrare solo piccoli aggiustamenti alle policy attuali (ma nascondono la capacità di cambiare e “aggiustare” dall’interno le disuguaglianze nella struttura) e le storie di tostapane che mandano a fuoco le cucine di madri oberate dal lavoro dentro e fuori casa non sono invitanti quanto la retorica populista della più importante endorser di Sanders, Alexandra Ocasio Cortez, amatissima per idee e personalità nonostante, al contrario di Warren (e non perché meno brava, ma perché ancora inesperta), abbia finora un peso politico slegato dai risultati raggiunti.
Sicuramente, come la biografia di Warren confrontata con quella dei colleghi ampiamente dimostra, per una donna non è sufficiente essere molto più qualificata per una carica dei suoi colleghi uomini per vincere: deve essere eccezionale, deve piacere a tutti e deve essere inattaccabile sotto ogni punto di vista. La necessità della likeability, della capacità di piacere a più elettori possibili, per una donna comporta l’idea funambolica dell’essere contemporaneamente accessibile e desiderabile, concreta ma non troppo seriosa, energica ma non aggressiva. Una donna, come successo a Kamala Harris, può finire in fondo ai sondaggi di popolarità ed essere attaccata solo perché agli elettori non è piaciuto vederla contraddire con energia un uomo su un argomento che conosceva meglio di lui.
A una donna come Elizabeth Warren verrà chiesto pubblicamente di ritirarsi e appoggiare Sanders, dopo un cattivo risultato come quello del Super Tuesday, da parte degli stessi fan di quel Sanders che nel 2016 non solo continuò ad attaccare Clinton fino a luglio, ma ne minò anche la credibilità a un punto tale che molti ritennero il suo ruolo fondamentale nella vittoria di Trump.
Una sconfitta che ancora pesa così tanto ai democratici da far giocare queste primarie sul filo dell’electability, la teorica possibilità di un* candidat* di essere elett* alla presidenza. Warren è consapevole che, al di là del sessismo strisciante o degli attacchi da sinistra, il suo maggiore problema è che le persone la amano, ma decidono di votare per la scelta più safe.
E la scelta più safe è, immancabilmente, un uomo, e chiunque sia realista non può dismettere questo argomento del tutto: alla luce del risultato del 2016, sembrerebbe che persino il più inaccettabile degli uomini abbia una maggiore possibilità di vincere contro una collega donna. Per dirla con le parole della stessa Warren a Detroit, subito prima del Super Tuesday:
What I see happening is a lot of folks trying to turn voting into some complicated strategy. You know, pundits, friends, neighbors are all saying you have to second-guess yourself on this. But prediction has been a terrible business and the pundits have gotten it wrong over and over.
L’electability, però, è una profezia autoavverante che non ha nessuna attinenza con una realtà dei fatti in cui Clinton nel 2016 prese tre milioni di voti in più di Trump. Non abbastanza per vincere, in un sistema falsato dal Gerrymandering che il partito Democratico aveva pericolosamente sottovalutato, ma comunque la prova che l’electability contò pochissimo in una sconfitta da attribuire principalmente a una strategia sbagliata e a un avversario imprevedibile (e anch’esso fortemente sottovalutato) come Trump.
Autoavverante perché non esiste prova che Biden, che ha già perso due elezioni presidenziali, o Sanders, che oltre ad aver già perso una primaria contro Clinton (quella stessa Clinton che viene accusata di aver perso perché ineleggibile, in un cortocircuito di ragionamento che sarebbe divertente se non fosse, come dire, per niente divertente) ha una base che si identifica quasi esclusivamente come “very liberal” e vuole conquistare un elettorato in cui solo il 15% persino tra i democratici si definisce molto liberal, siano i candidati giusti per queste elezioni,
Questo significa solo che Biden o Sanders non partono con nessun vantaggio oggettivo contro Trump, non che non possano comunque vincere, dato che è impossibile prevedere l’andamento di uno scontro che deve ancora avvenire, con un Presidente in carica famoso per la capacità di far impazzire tutti i pronostici.
L’unica certezza che abbiamo è che non c’è alcun motivo di credere che Warren non avrebbe avuto le stesse chance, e che quindi fosse altrettanto eleggibile. Che non fosse altrettanto, anzi ben più, preparata dei suoi due colleghi. Che non avesse un programma concreto, solido, capace di attirare anche i conservatori. Che non sia una persona altrettanto onesta e rispettabile rispetto ai suoi colleghi – anzi, sicuramente non avrebbe avuto, come Biden e Sanders, bisogno di far fronte ad accuse di legami inopportuni con compagnie petrolifere ucraine o di tenere a bada supporter che aggrediscono volontari avversari.
Una volta eliminate tutte le altre variabili, ne resta solo una: Elizabeth Warren non è più in corsa alle primarie democratiche grazie al buon caro, vecchio, sessismo e gli USA – ma anche, di riflesso, tutti gli altri – hanno perso l’ennesima occasione di lasciar gareggiare una donna competente e vedere fin dove poteva arrivare.
Delle tante donne che sono partite all’inizio delle primarie, resta soltanto Tulsi Gabbard (che al Super Tuesday ha conquistato un solo delegato, ma potrebbe essere presente al prossimo dibattito) e con tutta probabilità vedremo scontrarsi alle elezioni due anziani uomini bianchi e borghesi, che ripeteranno lo stesso balletto che vediamo accadere da millenni. Quello di uomini normali, persino mediocri, che difendono il loro privilegio, chiudendo alle donne l’accesso alla gara per non rischiare di perderla.