“Febbre”, di Jonathan Bazzi (edito da Fandango), è uno di quei libri che prendi in mano e non riesci più a smettere di leggere, anche se ormai è tardi e sai che domani dovrai svegliarti presto. In me, personalmente, questa fame di lettura l’ha alimentata il leitmotif incredibilmente reale del romanzo, la cui sincerità mi ha quasi disorientata e, allo stesso tempo, incoraggiata a ricercare un simile percorso di onestà e rivalsa anche nella mia stessa vita.
“Febbre” non è infatti solo un libro, ma anche un percorso di vita e di (ri)scoperta. È un esordio letterario autobiografico che non si limita a raccontare l’infanzia, l’adolescenza e la maturità dell’autore stesso (senza seguire un particolare ordine cronologico), ma che si spinge ben oltre, dando un volto allo stigma, alla ricerca di sé, all’ambivalenza dei luoghi e degli spazi, e infine interrogandosi a fondo sui percorsi di partenza e di arrivo.
Partendo da una febbre che non sembra voler passare, passando da un appartamento che racchiude le storie di generazioni intere (ma soprattutto dei bambini invisibili), “Febbre” ci porta tra le case di una Rozzano reale e spietata fino ad arrivare a una Milano ugualmente inesorabile, soffermandosi nel tragitto della consapevolezza di una diagnosi e di un Io in continuo divenire.
“Febbre” è la storia di Jonathan, ma nei suoi intenti liberatori può benissimo intersecarsi con le storie di chi, al mondo, è alla ricerca di un moto liberatorio e di riscatto nei confronti di una società che sembra non smettere mai di inscatolare gli individui entro i confini della “norma”.
Candidato al Premio Strega 2020 , la forza di questo esordio continua a brillare per potenza narrativa e sociale.
Per dare maggior luce a questa forza, abbiamo deciso di parlarne direttamente con l’autore. Questa è la nostra intervista a Jonathan Bazzi.
Ciao Jonathan! Grazie mille per questa intervista. Parto subito con la prima domanda: chi è Jonathan Bazzi oggi e chi era Jonathan Bazzi ieri?
Un tipo più inquieto di quel che sembra. In passato sono saltato da una cosa all’altra, faticando a soffermarmi su un solo interesse, ambito, campo. Spesso mi sono sentito limitato da me stesso, inespresso, confuso. Ora col libro forse le cose sono cambiate. Sono riuscito a portare alla luce un progetto a cui pensavo da anni, un progetto che, tra l’altro, si è rivelato, si sta rivelando, fortunato, circondato d’affetto.
Cosa ti ha portato, a livello umano, “Febbre”? E cosa ti porterai di “Febbre” nel Jonathan Bazzi di domani?
Il mio libro mi ha permesso di riassumere anni di peregrinazioni, giri, esperienze. Nelle sue pagine molte cose hanno trovato il modo di stare insieme, parlarsi. È anche un libro che provvede a portare la parola lì dove c’è stato silenzio, vergogna, omertà. È un libro-azione, un libro che fa delle cose. Nel futuro spero di restare fedele alla spregiudicatezza alla base di questo libro, che è stata a tratti anche incoscienza. Spero insomma di non addomesticarmi.
Passo un attimo a una domanda un po’ più tecnica: quando e perché è nata l’idea di scrivere “Febbre”?
L’idea arriva dal 2013-2014. Volevo raccontare Rozzano, il paese all’estrema periferia sud di Milano in cui sono cresciuto, e la mia infanzia in quel luogo. Le sue figure, le sue atmosfere. Era un progetto che tardavo però a concretizzare, preda come sono della dispersione. Poi è arrivata la febbre del 2016, ho scoperto di essere sieropositivo: a quel punto ho capito che avevo di fronte a me un ulteriore tratto della mia identità, ingombrante, per qualcuno vergognoso. Dunque ho pensato di tenerli insieme, raccontarli congiunti, intrecciati. Perché si parlavano, avevano delle cose da dirsi.
“Febbre” è diviso temporalmente in due fra il Jonathan del passato, bambino e adolescente che vive a Rozzano, e quello grande e adulto a Milano. Anche la narrazione di Rozzano stessa potrebbe essere divisa in due, perché è sia un luogo da cui vuoi scappare, sia una città che ti rendi conto essere necessaria per capire e capirti. Quali altre dualità si celano dentro di te?
In generale la dinamica ambivalente, invischiante, mi interessa molto e credo abbia fatto parte della mia storia, soprattutto da piccolo. Penso, ad esempio, a molte delle mie prime figure affettive di riferimento. In realtà immagino faccia parte dell’esperienza di molti: provenire da luoghi, situazioni o relazioni dolorose, problematiche, pone in una tensione difficile da risolvere, perché quei luoghi, quelle persone fanno parte di noi, siamo noi. Questo credo porti ad abitare uno spazio emotivo appunto ambivalente, fatto di conflitti irrisolvibili, ma anche pieni di potenziale creativo, trasformativo.
Dicevamo. Rozzano (MI) gioca un ruolo centrale all’interno di “Febbre”. La descrivi in modo molto schietto e reale, ponendo grande attenzione verso le dinamiche abusive e discriminatorie che spesso vivono/perpetrano le persone che ci abitano. Che rapporto hai adesso con Rozzano?
Ci torno con piacere. Oggi mi incuriosisce, la guardo con occhi diversi. È un posto particolare, con alti livelli di reattività. Altamente narrativo. Credo di doverle molto, anche come autore. La lingua che uso, il mio corpo a corpo diretto con le parole, credo arrivi anche da lì. Rifiuto spontaneamente le coordinate borghesi, conformi.
Quanto ha influito il “mito di Milano” (come città da vivere, studiare, esplorare) sul tuo percorso formativo?
Sicuramente molto. Milano era il centro, geografico ma soprattutto ideale. E da piccolo sentivo in me questa esigenza di conquistare il centro, lo sguardo degli altri, le cose che contano. Sono stato un bambino, per varie ragioni, messo un po’ da parte e Milano nel corso del tempo è diventata il simbolo della mia voglia di riuscire a diventare davvero me stesso, di allinearmi alle mie spinte ideali, alle mie vocazioni. Milano per me era sinonimo di scuola e poi di incontri e luoghi importanti. Di un’apertura al mondo che a Rozzano non c’è, non arriva.
“Febbre” parla (anche) di stigma. Stigma che aleggia attorno alla sieropositività, all’omosessualità, alla provincia degradata. Secondo te quanto potere liberatorio può sprigionare una scrittura così schietta ed emancipatoria come la tua, proprio dal peso di questo stigma?
Spero molto. Lo stigma è una tradizione, un modo consueto, depositato, di fare le cose. E io, nel rifiutare lo stigma, cerco al contrario di scegliere il mio modo di calcare la scena del mondo. Nel caso dell’HIV, non dirlo pubblicamente, assecondare la tradizione del pudore e della vergogna, avrebbe significato onorare quella tradizione, confermarla. Ho cercato quindi di appropriarmi della sieropositività esplorandola a modo mio, contagiando io questa condizione con la mia personalità, affinché non prendesse il sopravvento. Volevo e voglio renderla una delle mie caratteristiche, una tra le tante.
Artwork di Elisa Seitzinger
“Rozzano è la mia carta d’identità fatta di strade e palazzi, la rappresentazione materiale della mia paura di essere scoperto e giudicato in quanto poveraccio, figlio di poveracci, di operai che non hanno studiato”. Il senso di vergogna, spesso e volentieri, trattiene dal realizzarsi/esprimere chi si è veramente, facendoci sentire ulteriormente inadeguati. Secondo te, la sovraesposizione da social media quanto (o se!) può peggiorare questo senso di inadeguatezza? E come possiamo eventualmente combatterlo?
Sicuramente è un tema che esiste. Ma io credo che la rete e i social siano davvero un po’ tutto e il contrario di tutto. Mi spiego: se possono sicuramente incrementare il senso di inadeguatezza, in molti casi hanno aiutato e aiutano persone che partivano svantaggiate (per ambiente, situazione o contatti) a trovare una propria identità e persino un pubblico. Quindi sono per non demonizzarli. Allo stesso tempo, sì, è importante tracciare delle soluzioni al predominio di alcuni sguardi o alcune ristrette forme di vita: per me questo coincide spesso col moltiplicare le voci, diversificare le forme e le identità rappresentate. Il mio modo di intendere la scrittura va proprio in quella direzione: mettere al mondo qualcosa che mi sembra non ci sia ancora o sia poco raccontato.
Ci sono stati libri, saggi, film, telefilm, opere artistiche che ti hanno permesso di trovare una rappresentazione positiva e veritiera nell’arco di tempo in cui è ambientato “Febbre”?
Per quanto concerne l’HIV, devo dire che a lungo le rappresentazioni sono rimaste ferme all’epoca degli anni Ottanta e Novanta. Anche per questo uno dei miei obiettivi era quello di aggiornare l’immaginario, elaborare parole e rappresentazioni nuove. Sul resto, posso dire di essere da sempre un grande fruitore di opere create dalle donne, ed è soprattutto attraverso la scrittura femminile che ho trovato la mia voce.
Ultima domanda. Che poi è più un’affermazione: la copertina del tuo libro è pazzesca. Qual è la sua storia?
È un’illustrazione di Elisa Seitzinger ed esisteva già, l’avevo vista circa un anno prima dell’uscita del libro. Ho avuto la fortuna (più unica che rara) di poter contribuire alla scelta della copertina e ho proposto questa immagine perché mi ha colpito moltissimo sin dalla prima volta che l’ho avuta davanti agli occhi. Inizialmente l’ho scelta sulla base di una vaga, per quanto forte, affinità, ma poi ho capito che si lega in modo molto intimo al gesto alla base di questo libro. L’offerta di un punto di vista, di uno sguardo. Questo è il modo in cui ho visto ciò che è accaduto, questo è lo sguardo dei bambini invisibili.
“Febbre” di Jonathan Bazzi è il protagonista del nostro #Sinossy di maggio. Ci vediamo venerdì 29 maggio sul nostro account Instagram, per parlare insieme nelle storie di questo libro straordinario. Vi aspettiamo!