Articolo di Benedetta Geddo
“Liberi non sarem se non siam uni“

Alessandro Manzoni, grande pilastro del panorama intellettuale dell’Ottocento e ben noto a chiunque sia passato attraverso il sistema scolastico italiano, nel 1815 scrive una canzone intitolata Il proclama di Rimini, che riprende l’appello pubblicato lo stesso anno da Gioacchino Murat. Nel 1815 l’Italia non è ancora una nazione vera e propria, ma al suo interno l’attività rivoluzionaria ribolle: l’obiettivo dei patrioti è unificare la nazione (le opinioni non erano proprio tutte concordi su che ordinamento politico si sarebbe dovuto dare a questa nuova nazione, ma questa è un’altra questione), riunire tutte le persone che si identificano come italiane sotto una sola bandiera. Manzoni ha molto a cuore la causa dell’Unità poiché deluso, anche lui come molti altri, da Napoleone, che sembrava un liberatore e invece era solo l’ennesimo straniero venuto a conquistare oltre alle Alpi; ne parla, per esempio, anche nel coro dell’Atto III dell’Adelchi. E come lui ne parlano moltissimi altri intellettuali suoi contemporanei, italiani come Ugo Foscolo, ma anche stranieri, come il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte, perché anche la Germania è attraversata dal desiderio di unificazione.

I movimenti di unificazione e indipendenza attraversano tutto l’Ottocento, e possono considerarsi il primo “prototipo” di nazionalismo: intellettuali, politici e condottieri che chiamano a raccolta un popolo in nome della sua lingua o tradizioni o provenienza geografica e lo invitano a scrollarsi dalle spalle le catene di un oppressore straniero (nel caso dell’Italia, dove la potenza straniera era l’Austria) o unirsi in un’unica nazione (nel caso della Germania, che era spezzettata in una serie di principati e staterelli minori).
La fine del secolo vede molti più stati nazionali di quanti ce ne fossero cent’anni prima, fatti da popoli uniti dietro a una bandiera, a un nome comune, a una lingua (chi più chi meno). E questo ideale di patria è effettivamente nazionalismo, che si definisce come “insieme delle dottrine e dei movimenti che attribuiscono un ruolo centrale all’idea di nazione e alle identità nazionali”. Il nazionalismo è tra i motori che spingono avanti la Grande Guerra, perché assieme all’idea di nazione va a braccetto il dovere per i suoi cittadini di difenderla da altre nazioni, altre identità nazionali.
Nel suo libro Sapiens. Da animali a dei, lo storico Yuval Noah Harari descrive come fin dai tempi della Rivoluzione cognitiva dell’Età del Bronzo gli esseri umani si siano sempre divisi tra “noi” e “loro”. La definizione di cosa sia “noi” e cosa “loro” è cambiata molto nel corso della storia, ma la distinzione è sempre rimasta ben salda, esemplificata nel modo in cui sono costruite le nostre società e nella lingua che parliamo. Il nazionalismo viene proprio da qui, da questa divisione fondamentale che il genere umano ha sempre operato: da una parte “noi”, dall’altra “loro”. È stata una divisione tra “noi” e “loro” a spronare all’azione i patrioti dell’Ottocento (ma prima di loro, per esempio, anche i rivoluzionari francesi del 1789 operavano su questa distinzione, dove “noi” era il popolo e “loro” erano gli aristocratici). Nel Novecento, la stessa distinzione è stata portata all’estremo, il concetto di nazionalismo teso fino al degenero, al “noi siamo meglio di loro”: ed ecco che in Germania si è sviluppato il nazismo, in Italia il Fascismo, e il Giappone si è unito all’asse con le sue tendenze imperialistiche. Alla fine, anche l’imperialismo si basa su una divisione “noi” e “loro”, dall’Impero Romano fino al moderno imperialismo statunitense: “noi” civilizzatori, “noi” portatori di pace.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il termine “nazionalismo” si porta irrimediabilmente dietro un’accezione negativa, e probabilmente a ragione: solo perché la distinzione “noi” versus “loro” è vecchia come l’umanità stessa, non vuol dire che sia anche giusta. Quel che è certo è che la parola “nazionalismo” è legata indissolubilmente ai totalitarismi del Novecento, alla Seconda Guerra Mondiale, e quindi forse erroneamente la si crede una cosa del passato. Una cosa “finita”, chiusa nelle pagine dei libri di storia, quando non ci potrebbe essere nulla di più sbagliato.

Questi primi decenni del XXI secolo sono terreno fertilissimo per il nazionalismo, che si sta avendo un’impennata praticamente in tutto il mondo (tanto da domandarsi se se ne sia mai davvero andato). Basta rileggerne la nozione, e ripercorrerne la storia, per rendersene conto: il nazionalismo attribuisce un ruolo centrale all’identità nazionale; la sua degenerazione prende quell’identità nazionale e la sposta in alto, sopra a tutte le altre; e questo processo mentale è ovunque, al giorno d’oggi, e non c’è posto in cui non ci sia un qualche tipo di “noi siamo meglio di loro”. È da questa nozione di superiorità che escono le discriminazioni che infestano la società occidentale: discriminazioni su base di genere (dove “noi uomini” siamo meglio di “loro donne”), orientamento sessuale (dove “noi etero” siamo meglio di “loro omosessuali”), religione (dove generalmente “noi cristiani” siamo meglio di “loro di qualunque altro credo”) ed etnia (dove, ancora, “noi bianchi” siamo meglio di “qualsiasi altro essere umano sulla faccia del pianeta”).
Nella pratica, tutto questo si traduce nell’affermazione (a cui assistiamo in tutto il mondo) di partiti e ideologie che favoriscono la chiusura e l’odio nei confronti del diverso, che promuovono l’immagine della patria come ancora in pericolo, ancora da salvare, come se continuasse ad esserci una guerra in atto. Le tensioni che serpeggiano all’interno della società attuale non sono tanto diverse dai movimenti del Novecento: vengono dalla stessa identica radice, e hanno quindi le stesse basi, anche se ovviamente applicate agli inevitabili cambiamenti che la storia fa andando avanti.

Negli anni Trenta la Germania, che aveva scatenato la Grande Guerra, si era ritrovata sconfitta: le sanzioni che le erano state imposte dalle nazioni vincitrici avevano devastato l’economia (più o meno in tutti i libri del liceo si racconta delle “massaie tedesche che andavano a comprare il pane con una carriola piena di marchi, che erano essenzialmente carta straccia talmente il loro valore era crollato”), e la crisi economica aveva di conseguenza lasciato dei profondi segni sulla società. Il popolo tedesco ha quindi creduto facilmente a un uomo che diceva loro che i veri nemici, i veri colpevoli, non erano i governanti tedeschi stessi che avevano trascinato la nazione in guerra, ma un gruppo di “loro” all’interno della comunità di “noi”: gli ebrei. È molto più facile, dopotutto, scaricare le colpe su un capro espiatorio e pulirsi la coscienza, ed ecco che il nazionalismo tedesco, quello che aveva spinto Fichte a scrivere i suoi Discorsi alla nazione tedesca, viene corrotto (esattamente come i Discorsi stessi), perdendo quella che poteva essere la sua “giustificabilità” e diventando l’ideologia inscindibile dal nazismo che è ancora oggi.
Lo stesso schema si è ripetuto nel XXI secolo: le specifiche sono diverse, ma gli elementi fondamentali ci sono tutti. Il mondo ha sperimentato un progresso tecnologico incredibile, e la globalizzazione che ne è conseguita (anche inevitabilmente, aggiungerei, dal momento che le tecnologie moderne hanno di fatto avvicinato il mondo, rendendo possibile comunicare da un lato all’altro del pianeta in minuti se non secondi, quando anche solo sessant’anni fa ci volevano settimane) si è portata dietro tutta una serie di fenomeni accessori. Le nuove migrazioni, per esempio, hanno fatto sì che molte delle città più grandi del pianeta diventassero dei veri e propri melting pot e incontri di moltissime culture diverse.

La crisi economica in mezzo alla quale sembriamo vivere costantemente dal 2008 ha poi fatto il resto: in un clima di instabilità e soprattutto insicurezza economica, è facile trovare un capro espiatorio a cui addossare la colpa, un “loro” che è diverso da “noi” e quindi è per forza un male da guardare con sospetto. “Noi” ci chiudiamo a riccio per tenere fuori “loro”, li releghiamo a certe fasce della società (o a luoghi fisici, veri e propri ghetti, come le periferie delle grandi città per esempio) con malcelata intolleranza. E questo processo mentale è alimentato esattamente dallo stesso nazionalismo che alimentava le discriminazioni nel Novecento: il senso di nazione degenera in una spinta alla difesa della patria da un nemico che non è un vero nemico, ma che viene dipinto come tale. “Lottare” contro questo nemico alimenta un senso di sicurezza che è solo un’illusione, ma che è comoda, esattamente come tutte le illusioni.
Finché nella nostra mente collettiva di specie umana continuerà ad esistere il concetto di “noi contro di loro”, finché non riusciremo a superare questa distinzione, continuerà ad esserci anche il nazionalismo, assieme a tutte le sue conseguenze. Ed è quindi importante tenere gli occhi aperti, pensare con la propria testa, imparare a riconoscere gli schemi e le condizioni sotto le quali si ripresenta, per non cadere nelle trappole di chi lo sfrutta senza scrupoli.