Articolo di Stefania Covella
La Feminist Film Theory è la teoria e critica cinematografica femminista, una riflessione sul linguaggio e un metodo di codifica che si interroga sul rapporto tra rappresentazione e differenza sessuale nel cinema. Si sviluppa come una teoria autonoma rispetto agli women’s studies e rende il cinema classico – in particolare quello hollywoodiano – un terreno ideale d’analisi psicoanalitica e semiotica.
Laura Mulvey, teorica del cinema, sceneggiatrice e regista cinematografica inglese, nel 1975 divenne famosa per il saggio Visual pleasure and narrative cinema (Piacere visivo e cinema narrativo). Viene considerata la fondatrice della Feminist Film Theory. Il risultato dell’analisi filmica in ottica psicoanalitica (freudiana e lacaniana) dimostrava un’evidente struttura patriarcale. Questa presa di coscienza svelava il ruolo della donna sul grande schermo: la bambola, il premio, il feticcio. La bionda.
Se riflettiamo sul rapporto tra narrazione e piacere, immagine e desiderio dobbiamo chiederci:
A chi appartengono le fantasie che il cinema veicola, da chi e per chi vengono create? Il cinema è l’arte che si fonda sul piacere di guardare, ma chi è il soggetto di questo sguardo e chi l’oggetto del desiderio?
Le prime risposte della Feminist Film Theory a queste domande, sono state molto dure: il cinema è voyeurismo e feticismo. Si formano così i concetti di gaze e desire e quindi il legame tra sguardo e desiderio.

Il cinema classico risulta così misogino e dominato dal male gaze: la tendenza ad assumere un punto di vista maschile quando non se ne ha uno specifico e in particolare la tendenza a rappresentare i personaggi femminili come oggetto della visione e dell’apprezzamento maschile.

Laura Mulvey, all’inizio, dimostra un approccio aggressivo, ma necessario per ottenere un riconoscimento sociale immediato. Saprà poi mettere in discussione alcune analisi portate avanti dalla Feminist Film Theory, riconoscendo che non tutti i film classici si rivelano in contrapposizione all’identità femminile o almeno non completamente.
Daniele Clementi, presidente UICC – Unione Italiana Circoli Cinema ha tenuto una lezione illuminante su questo argomento, durante il Lecce Film Fest. Ha parlato di cinema femminista, postfemminista e “gender” prendendo in analisi i film e l’approccio di Alfred Hitchcock, Billy Wilder e Howard Hawks.
Le donne dei loro film erano oggetti del desiderio maschile, l’eroe era indiscutibilmente l’uomo, ma a volte le donne si rivelavano anche soggetto e – analizzando questi film a posteriori – si intravedono slanci di assoluta modernità.
Per motivi di tempo e spazio, per questa volta, ci concentreremo solo su Hitchcock. Le sue attrici predilette erano donne alte e bionde, algide e dai lineamenti delicati, ma dalle personalità ambigue e spesso malvage, come la Melanie de Gli uccelli (1963) o Madeleine Elster di La donna che visse due volte (1958).
Ma anche donne coraggiose e intelligenti come Teresa Wright in L’ombra del dubbio o Alicia in Notorious, mentre il personaggio di Shirley McLaine in La congiura degli innocenti è assolutamente lontana dal cliché della casalinga di periferia degli anni ’50.
Le sue donne sono sempre in balia di uomini – spesso potenti – le traditrici fanno sempre una brutta fine e alla femme fatale non spetta un destino migliore. Quasi tutte comunque sono cattive e destinate a soffrire, un tantino limitante insomma. E sono sempre bionde: dal platino estremo di Kim Novak in La donna che visse due volte, alla chioma dorata di Ingrid Bergman di Notorious, Hitchcock le descrive così:
“Le bionde sono le vittime ideali, sembrano virginali fiocchi di neve dai quali traspare un’impronta insanguinata”.
Se Hitchcock ci sembra ambivalente verso la figura femminile, la sua posizione verso quella materna – spesso inibente – è assolutamente chiara. Lo vediamo in Psycho (1960) che non ha bisogno di analisi e sotto-testi, è palese il complesso edipico e il ruolo riservato alla figura della madre. La stessa cosa – leggermente occultata, ma neanche troppo – la vediamo in Gli uccelli (The birds 1963), non si capisce bene perché i volatili siano impazziti e abbiano cominciato ad attaccare e, guarda caso, si fanno più aggressivi quando la mamma di Mitch vede Melanie avvicinarsi al figlio.
Tania Modleski ha analizzato tutto questo nel saggio The women who knew too much. Hitchcock and Feminist Film Theory, prendendo in considerazione i sette film principali del regista e tenendo conto del contesto storico e degli altri film dell’epoca.
La finestra sul cortile (1954) ci fornisce un perfetto esempio hitchcockiano di ambivalenza e uso dello sguardo. LB Jefferies (James Stewart) è un fotografo con una gamba rotta e per questo è bloccato su una poltrona, dalle finestre di casa sua può vedere quelle dei vicini e sospetta che un uomo abbia ucciso la moglie. Noi, come lui, siamo bloccati – spettatori passivi dei drammi umani messi in scena – si crea così un rapporto intimo tra noi e Jeff e ci identifichiamo nel suo sguardo: quelle finestre diventano il suo e il nostro cinema.
La figura femminile principale è la fidanzata Lisa Freemont (Grace Kelly). Nella sua prima scena appare sfocata agli occhi appena aperti di lui, ancora mezzo addormentato, mentre si piega per baciarlo. Può essere una donna prostrata all’uomo o quasi una figura femminile materna e quindi dominante, non oggetto ma soggetto femminile.
Oppure ancora: Lisa entra nella casa dell’assassino mentre Jeff la guarda bloccato e inerme. Lei è nella casa del presunto assassino, oggetto del nostro e del suo sguardo e vuole compiacerci lo/ci saluta come a dire: guarda, guarda come sono brava, guardami. O è soggetto: cerca le prove in un luogo pericoloso mentre lui è fermo e passivo lei è nel pieno dell’azione: l’eroina.
Sono tutte chiavi di lettura-critica corrette, una non esclude l’altra.
Il cinema di Hitchcock è quindi segnato da dinamiche del desiderio ambigue. La violenza cui vengono sottoposte le donne sembra pari alla forza nascosta dietro la maschera di fragilità che indossano o sono costrette a indossare.
Anche la distinzione tra le diverse visioni e identificazioni come spettatore o spettatrice si assottiglia, secondo la Feminist Film Theory. Ad esempio, lo spettatore a volte si identifica fortemente col femminile, come in Rebecca, la prima moglie (1940) o in La finestra sul cortile (1954) tende a identificarsi con il soggetto maschile passivo. Così anche il cinema classico diventa una forma simbolica più aperta, capace di ospitare, a seconda dei film, dinamiche del desiderio ed esperienze spettatoriali diverse (Paolo Bertetto).
Quindi Hitchcock era misogino o progressista rispetto al patriarcato hollywoodiano?
In realtà resta perfettamente ambivalente, nonostante gli evidenti mommy issues. Analizzando maggiormente la complessità della rappresentazione e del filtro personale del re del brivido, non possiamo che – ironia della sorte – trovarci davanti a un mistero.
L’arte è sempre comunicazione e risuona del suo contesto. Per questa ragione l’importanza della Feminist Film Theory non sta nelle risposte, ma nel porsi le giuste domande.
Bisogna approcciarsi in modo critico a quello che si guarda. Il male gaze è un dato di fatto che non toglie valore al prodotto cinematografico o artistico in senso più ampio. Ciò non toglie che la sua massiccia presenza in film, libri, pubblicità e fumetti, influenzi sia la realtà sia il nostro immaginario. I problemi saranno anche altri, ma oggi dovremmo avere tutti i mezzi per fruire del cinema in modo più consapevole. La realtà è che una rappresentazione non è mai solo una rappresentazione.
P.S.
La vera idola di La finestra sul cortile è Stella, l’infermiera.
BIBLIOGRAFIA
Visual pleasures and narrative cinema – L. Mulvey;
Visual and other pleasures – L. Mulvey;
The women who knew too much. Hitchcock and feminist Theory – Tania Modleski;
La psicoanalisi e Hitchcock: che cosa la psicoanalisi può imparare da Hitchcock – Salvatore Cesario;
Metodologie di analisi del film – Paolo Bertetto.