Quando abbiamo letto questo post di Giorgio Fontana (vincitore del Premio Campiello 2014 con il libro Morte di un uomo felice) ci sono venuti i classici occhioni a cuore.
Che Giorgio scriva cose interessanti è fuor di dubbio – basti pensare che oltre a firmare pezzi per IL, il Domenicale del Sole, Tuttolibri e Internazionale, sceneggia storie per Topolino! – ma questa sua riflessione merita davvero la più ampia condivisione.
Sperando di fare cosa grata ai/alle nostri/e lettori/lettrici, la riportiamo integralmente (ma volendo, la trovate anche qua).
Negli ultimi giorni si è discusso molto della sentenza di assoluzione di sei accusati per stupro per quanto accaduto a Firenze nel 2008. Secondo la Corte d’Appello di Firenze, la ragazza coinvolta ebbe dei rapporti sessuali con i sei maschi (tutti italiani, tutti fra 20 e 25 anni) ma era anche presente a sé stessa; la ricostruzione dei fatti per i giudici non fa supporre “alcuna cesura apprezzabile tra il precedente consenso e il presunto dissenso della ragazza, che era poi rimasta ‘in balia’ del gruppo”.
Analizzando dal punto di vista linguistico la sentenza, Giusi Marchetta ha sottolineato come essa trasudi giudizi morali, fino a diventare inconsciamente un “piccolo manualetto per un eventuale stupratore. Si descrive in modo abbastanza accurato l’identikit della vittima ideale: una ragazza moderna, emancipata, con una vita sessuale “non lineare” (come invece dovrebbe essere, dice una simpatica vocina che viene dritta dagli anni Cinquanta)”. Un punto sollevato anche da Carlotta Majorana: la vita sessuale della ragazza — “disinibita”, “fragile ma creativa”, “in grado di gestire la sua bisessualità” — è dolorosamente messa in rilievo, come se fosse un fattore essenziale.
Il 19 luglio scorso la ragazza coinvolta ha pubblicato una lettera sul blog Abbatto i muri, dove ha scritto fra l’altro:
Abbiamo perso tutti. Ha perso la civiltà, la solidarietà umana quando una donna deve avere paura e non fidarsi degli amici, quando una donna é costretta a stare male nella propria città e non sentirsi sicura, quando una giovane donna deve sospettare quando degli amici le offrono da bere, quando si giudica la credibilità di una donna in base al tacco che indossa, quando dei giovani uomini si sentiranno in diritto di ingannare e stuprare una giovane donna perché e’ bisessuale e tanto “ci sta”.
Cosa possiamo fare?
Credo che concentrarsi solo sulla sentenza rischi di essere, a meno di non avere seri strumenti giuridici per elaborare un’opinione sensata, poco produttivo per un fine più ampio. Quello che possiamo fare è invece lavorare sul fine più ampio: ovvero estirpare una volta per tutte dalla coscienza maschile una visione gretta e pericolosissima delle donne, ancora fondata sul possesso e il senso di superiorità. Che nei casi peggiori si trasforma in violenza — una violenza per cui c’è un largo margine di impunità: non giuridico, ma sociale. Una sorta di vaga giustificazione collettiva basata su un rimosso enorme da parte dei maschi.
Giusi Marchetta, in chiusura di pezzo, diceva che le analisi e gli interventi pubblicati sul caso venivano quasi interamente da donne. Che fine hanno fatto gli uomini, in una situazione che riguarda moltissimo gli uomini?
Ha ragione.
Con questo articolo vorrei dunque offrire un breve contributo sul femminismo e sulla necessità di una più attenta coscienza della questione femminile. La semplificazione che ne risulterà può apparire fastidiosa a chi ha una conoscenza precisa dei molti temi in agenda, così come il punto di vista — necessariamente parziale. Me è una scelta coerente con il fine: parlare a una fetta precisa di persone. Ai maschi, appunto.
Un maschio che parla ai maschi di quanto grave sia il problema della differenza di genere e della violenza implicita ed esplicita sulle donne oggi. Mi sembrava importante.
Il lettore ideale di questo pezzo potrebbe dunque essere l’uomo democratico e impegnato che però non ritiene ci sia alcuna disparità sessuale in Italia oggi. Oppure quello di sinistra, consapevole di tale persistente disparità, ma scettico di fronte al concetto stesso di femminismo. O quello per cui “Questa o quest’altra cosa le donne non le possono fare e basta, è una questione genetica”. O sperabilmente quello che nega ogni violenza ma ritiene che donne vestite in una certa maniera “un po’ se lo meritano” se qualcuno fa loro degli apprezzamenti pesanti e le mette a disagio. O anche il mio ipotetico ex compagno delle medie, che mi apostroferebbe dicendo: “Femminismo? Ma sei frocio?”. (Sì, direbbe proprio così).
Pensavo a un articolo del genere già da tempo, quando un’amica giornalista (Federica Cocco) mi chiese se mi definissi femminista o meno. Avevo titubato e preso tempo chiedendo definizioni più precise di quelle fornite su Twitter. Ma di base, perché avevo titubato?
Perché noi maschi siamo educati malissimo: perché questa parola ci fa sentire in difficoltà — come se ci derubasse di un ruolo o di un potere. E in effetti sarebbe proprio questo il suo compito, inteso in senso positivo: abbattere un’egemonia che si è andata calcificando nei millenni, e ormai suona quasi implicita, quasi naturale. Ma non lo è affatto.
In realtà, il nucleo del femminismo è un affare di buon senso per chiunque abbia una coscienza democratica e uno sguardo appena attento alla struttura diseguale della società. E fra le tante cose urgenti, questa forma di ri-educazione mi sembra particolarmente urgente. Spero che quanto segue possa aiutare i maschi come me a capire che dirsi femministi è una cosa molto sensata: non si tratta tanto di una questione di genere, quanto di potere — il potere che noi maschi esercitiamo, anche inconsciamente, ogni giorno. E spero sia anche un parziale risarcimento per le volte in cui ho titubato, per ignoranza o stupidità.
E dunque:
1. Femminismo significa innanzitutto riconoscere che gli esseri di genere femminile sono stati discriminati più o meno sempre nella storia dell’essere umano; e insieme combattere perché questa discriminazione abbia termine.
2. “Discriminati” vuol dire ad esempio che rispetto ai maschi devono da sempre occuparsi della famiglia, hanno conquistato molto tardi il diritto al voto, hanno stipendi più bassi, sono oggetto di violenze e soprusi da parte dei maschi, sono considerati incapaci di svolgere certe professioni o meno dotati in certe discipline, eccetera eccetera. Questi sono fatti: se trovate che siano opinioni o che siano fatti sensati, siete dei maschilisti.
3. Ma maschilismo e femminismo non sono due ideologie contrapposte ed equivalenti, del tipo “W gli uomini e abbasso le donne” o “W le donne e abbasso gli uomini”. Il femminismo non vuole creare una società oppressiva fondata su un genere; testimonia invece l’eguaglianza fra uomini e donne. Come per fascismo e antifascismo, la questione è semplice: da una parte c’è il torto, e dall’altra la ragione declinabile in modi differenti.
4. Il femminismo è dunque la critica radicale a una teoria genetica — gli uomini superiori alle donne — in tutte le sue incarnazioni storiche, anche le più subdole e sottili.
5. Il femminismo non implica affatto che uomini e donne siano identici fisicamente. Né che abbiano differenze culturali o di genere che possono essere rivendicate: implica però che tali differenze possano essere rivendicate liberamente. Per dirla con Gloria Steineim, femminista è “chiunque riconosca l’uguaglianza e la piena umanità di donne e uomini”.
6. La disparità fra maschi e femmine, nonostante alcuni enormi passi avanti, vale ancora oggi. Detta in maniera spiccia, in genere per un maschio la vita è molto più semplice e sicura. Per un maschio bianco ed eterosessuale, poi, è estremamente più semplice e sicura. Viviamo in una società dove per una ragazza tornare a casa la sera è sempre fonte di qualche preoccupazione. Credo che molti maschi diano per scontata la cosa, e consiglierebbero alla ragazza di evitare certe strade, portarsi dietro una felpa per coprire il vestito sulla strada del rientro, e così via. E va bene: ma sono soluzioni parziali che non colpiscono il problema centrale: perché dare per scontato questo fatto? Perché voler vivere in una società del genere?
7. Le femministe non sono donne che non si lavano, non sono “automaticamente delle lesbiche”, non mettono pantaloni di lana grezza, non sono hippy fuori tempo massimo, non pretendono che le donne siano superiori agli uomini o debbano comandare la nostra società, e non sono buzzicone moraliste. Secondo Felienne Hermans (per citare una voce molto recente), le femministe sono una rottura di scatole perché dicono proprio ciò che non vogliamo sentire: ovvero che il mondo è diseguale, e che non è solo merito nostro se abbiamo ottenuto una posizione nella vita — ma anche, ahimé, del nostro genere o del nostro colore.
8. Se una donna vi lascia, può essere terribile: chi lo nega? Magari vi ha tradito. Magari è una persona che vi ha mentito fin dall’inizio. Solo che difficilmente una donna vi umilia, vi picchia, o pretende che voi siate sua proprietà fino al punto di uccidervi. Il femminismo dice che nessuno (né uomo né donna) dovrebbe pretendere di avere un possesso sull’altro. E la triste verità è che gli uomini danno per scontato questo possesso, forti anche della loro maggiore prestanza fisica. Per dirla in modo abbastanza netto: viviamo in un mondo (e in una nazione in particolare) dove metà degli esseri umani accampa dei diritti assurdi sull’altra metà. E molto spesso viene giustificata: magari non in pubblico, ma in privato sì.
9. (Okay, so che non vi è mai passato per la testa di fare del male a una donna. Non siete voi il problema: ma il problema potrebbero essere gli amici dei vostri amici, e nessuno meglio di voi potrebbe convincerli che non sono degli amanti delusi o dei mariti con un diritto, ma solo dei luridi bastardi).
10. (E poi, anche se non avete mai fatto del male fisico a una donna, davvero non avete mai approfittato del fatto che sia una donna per farle in qualche modo del male morale? Per offenderla? Per metterla in difficoltà? Per sminuirla?)
11. Temo che gran parte dei maschi abbia paura a definirsi femminista perché teme che così facendo si senta svilito in quanto maschio. Ma il femminismo non implica alcun tipo di svilimento.
12. In Italia il problema della disparità femminile è spaventosamente diffuso: vi basta andare in un bar o parlare coi vostri amici per capire quanto la differenza sia percepibile, se siete un minimo onesti. E la responsabilità è nostra. Già: come al solito, la responsabilità di correggere una situazione di squilibrio è della parte forte, non di quella debole: se non cominciano i maschi a rendersi conto del loro potere allora è tutto molto più difficile. Per iniziare sarebbe già importante parlarne fra amici; mettere il problema sul tavolo ed evitare di liquidarlo o, peggio, di scaricarne la responsabilità in qualche modo sulla vittima e sul genere della vittima.
13. Il riconoscimento di tale disparità di genere — e la lotta per una sua risoluzione — ci aiuta a vedere meglio anche tutte le altre disparità che attraversano il nostro tessuto sociale: quelle fra bianchi e neri, fra italiani e stranieri, fra gay ed eterosessuali e così via.
14. “Il femminismo è la nozione radicale che le donne sono persone.” (Marie Shear).
(27/07/15)