Questo 25 aprile sarà una Festa della Liberazione diversa. Non ci saranno le piazze gremite, le deposizioni di corone, la visita ai monumenti storici e ai luoghi della memoria, le manifestazioni e i cortei, i concerti per cantare insieme “Bella Ciao”, le conferenze e gli incontri. Non ci saranno gli anziani partigiani e partigiane che raccontano le proprie storie di liberazione ai giovani riuniti. Alcuni di loro non ci saranno più, perché il Covid-19 se li è portati via. E forse anche a questo sarebbe bene pensare, quando si riflette sulle perdite umane che stiamo vivendo: pezzi di storia vanno via, non torneranno più, nessuno potrà restituirceli. Allora ci ritroveremo ad affrontare la questione del loro lascito: cosa sappiamo, cosa abbiamo imparato, come possiamo portare avanti le loro esistenze?
Sarà una Liberazione diversa, è vero, ma ciò non vuol dire che non ci sarà una Festa. Nelle nostre case, sui nostri balconi, attraverso i nostri schermi, avremo l’occasione di far vivere questa giornata importante e tutti i significati che veicola e raccoglie in sé. Dovremo avere più determinazione e più consapevolezza per superare il limite dell’isolamento. Dovremo impegnarci di più. Perché questo ci ha sempre chiesto il 25 aprile, in fondo: impegnarci di più. Impegnarci a non dimenticare, a non lasciare andare, a non essere indifferenti. Allora, oggi, noi vogliamo rispondere a questo appello, a questa richiesta tramandata attraverso i decenni.
Vogliamo farlo tramite l’allenamento della memoria, forse il regalo più grande che ci è stato fatto. La memoria di cosa voglia dire essere liberi e libere, di cosa sia la libertà. Interroghiamoci per sapere se profondamente abbiamo coscienza di cosa siano stati il regime fascista e l’occupazione nazista in Italia. Da cosa ci siamo liberati? Per cosa dobbiamo dire “grazie”? Perché questa è una Festa? Perché è nostro dovere portare avanti la memoria di ciò che è stato e del lascito che ci viene chiesto di accogliere?
Abbiamo raccolto alcuni esempi per poter riflettere, insieme, sulla realtà storica del fascismo e del nazismo nel nostro Paese. La realtà che ha vissuto, e deciso di cambiare, chi ha reso possibile questa giornata. Ecco come sarebbe stata la nostra vita senza di loro:
Le stragi nazifasciste – Biancamaria Furci
Dall’estate del 1943, quando l’alleanza fra Italia e Germania è ancora ben salda, la penetrazione tedesca in territorio italiano trasforma la nostra penisola in un fronte di battaglia che vede schierati i due eserciti contro la coalizione anglo-americana. È a quel momento che vanno fatte risalire le prime “morti collaterali”, vittime civili coinvolte fra due fuochi. Ma solo dopo l’8 settembre 1943 e fino al 25 aprile 1945 le truppe del Terzo Reich, diventate esercito d’occupazione in Italia, si renderanno responsabili di eccidi e massacri deliberatamente compiuti a danno di civili inermi. La guerra non risparmia nessuno, e l’iniziale alleanza con la Germania nazista agevola estremamente l’occupazione, coadiuvata con i reparti della Repubblica sociale italiana che continuano a sostenere il Duce e Hitler.
Si parla allora di “guerra totale”, venti mesi di guerra civile durante i quali tanto gli occupanti nazisti (la Wehrmacht e le SS) quanto i sostenitori fascisti si accaniscono contro la popolazione civile compiendo vere e proprie stragi. Non si è trattato di rappresaglie e vendette come spesso vengono narrate, bensì crimini di guerra; una guerra ai civili che minava in maniera strategica le forme di lotta resistenziale partigiana nascenti o in atto, avvalendosi delle uccisioni violente e di atti dalla brutalità inaudita come arma contro l’opposizione.
L’Atlante delle stragi naziste e fasciste, creato nel 2006 da un team di storici con l’intento di raccogliere censire e catalogare tutti questi episodi, ci dice che le vittime sono state circa ventitremila suddivise in oltre cinquemilacinquecento atti. Non solo eccidi di civili, ma anche violenze ai danni dei militari italiani all’estero nella fase successiva all’Armistizio e l’internamento di italiani in Germania e nell’Europa orientale.
Gli eccidi più noti, che hanno riguardato prevalentemente la popolazione civile indifesa, sono nomi ben presenti nella memoria degli italiani:
Fosse Ardeatine (335 militari e civili, fra cui 75 italiani di origine ebraica, rastrellati dalle proprie case, condotti in una cava fuori dalla Capitale e lì fucilati; una risposta alla bomba partigiana che il giorno prima aveva ucciso 33 soldati occupanti, seguendo la linea “Dieci italiani per un tedesco” adottata in queste situazioni)
Sant’Anna di Stazzema (quattro reparti delle SS insieme a bande di fascisti circondarono una frazione del comune di Stazzema, dichiarata in precedenza dai tedeschi territorio neutrale in grado di accogliere sfollati di guerra, e in tre ore massacrarono 560 civili dei quali 130 bambini; fra loro Anna Pardini, la più giovane vittima degli eccidi nazifascisti, di appena venti giorni)
Marzabotto-Montesole (un insieme di stragi compiute fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 nei paesi alle pendici del Monte Sole, vicino Bologna, che conta un totale di oltre 800 vittime, per la maggior parte donne, anziani e bambini, in quanto gli uomini erano stati fatti nascondere nei boschi per paura che i soldati tedeschi in arrivo volessero rastrellarli; i metodi e la brutalità di queste stragi le hanno rese tristemente famose, come l’uccisione nel cimitero di 195 civili riunitisi in preghiera nella chiesa di Casaglia o i bambini dell’asilo di Cerpiano riuniti insieme alle mamme e ai nonni in oratorio e massacrati con le bombe a mano)
Solo una decina fra i quattrocento casi di stragi accertate diedero vita a un processo. L’impunità è stata quasi totale. Nel 1960, seicentonovantacinque fascicoli riguardanti le stragi nazifasciste sono stati archiviati, permettendo così l’insabbiamento dei procedimenti e la mancata giustizia per oltre quindicimila vittime. Ecco da cosa ci siamo liberati. Da cosa siamo stati liberati. Dalle morti sistematiche, atroci, ingiuriose che potevano colpire chiunque e in qualsiasi momento.
Antisemitismo e leggi razziali – Benedetta Geddo e Rachele Agostini
Gli anni di persecuzione si snodarono uno dopo l’altro. Le leggi erano così umilianti, perché avevano deciso che questa minoranza (35.000 – 37.000 ebrei italiani di allora) fosse declassata a cittadini di serie B. […] Erano molte le cose che non potevamo fare, proibite, e ci venivano indicate in un modo sottile, sotterraneo e universalmente accettato.
– Liliana Segre
Quando parliamo di Leggi razziali in riferimento alla storia italiana, parliamo di un insieme di provvedimenti legislativi applicati dal 1938 al 1944, atti a sottrarre diritti e libertà fondamentali alla popolazione ebraica del nostro Paese. È importante ricordarle, in quanto esempio offerto dalla Storia di odio che si fa sistema, codice di condotta, tessuto sociale. Un intero gruppo etnico individuato come altro e combattuto come un nemico, con un processo di de-umanizzazione che cresce con ogni limitazione fino a diventare eliminazione fisica.
Non le chiamiamo quasi mai con il loro nome intero, “leggi razziali fasciste”, anche se il loro contenuto fu enunciato per la prima volta da Benito Mussolini (il 18 settembre da Trieste, per la precisione) e anche se il manifesto ideologico da cui presero il via, più conosciuto come Manifesto della Razza, comparve originariamente sul Giornale d’Italia con titolo “Il Fascismo e il Problema della Razza” (luglio 1938). È quasi come se, più o meno inconsciamente, le considerassimo altro dal fascismo. Ed è un problema.
È molto facile credere alla versione della Storia degli “italiani brava gente”. Quella dove il fascismo alla fine era una dittatura da ridere e le leggi razziali sono state una terribile imposizione del nostro alleato cattivo. La Germania nazista, quella sì che era mostruosa, mentre noi dentro al gorgo della soluzione finale siamo solo stati trascinati. E invece le basi per le leggi razziali vengono proprio da noi, che amministravamo le colonie in Eritrea e Somalia emanando leggi (già nel 1933) che decretavano chi fosse cittadino italiano e chi no. Chi fosse noi e chi fosse altro. Razzismo contro le popolazioni africane al quale si aggiunge il razzismo antisemita con le leggi del 1938: due tappe dello stesso percorso, quello che il fascismo voleva intraprendere per isolare e preservare la razza italiana. Un’ideologia abbastanza familiare, no?
Finché non scenderemo a patti con questa parte della nostra storia non riusciremo mai ad andare davvero avanti. La nostra incapacità di affrontare il passato della nostra nazione ha conseguenze enormi sulla società moderna, delle quali però ancora ci stupiamo. Com’è possibile che Liliana Segre debba andare in giro con la scorta? Così.
Le deportazioni – Biancamaria Furci
Dopo settantacinque anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, non è ancora stato possibile stabilire con certezza assoluta l’identità e il numero degli italiani che furono condotti nei campi di concentramento e sterminio nazisti.
Sappiamo che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, l’esercito tedesco catturò circa un milione di soldati italiani. Fra questi, duecentomila riuscirono a fuggire e per la maggior parte andarono a unirsi alla lotta partigiana, centottantaseimila scelsero di prestare servizio per l’esercito tedesco o la neonata Repubblica di Salò, mentre i seicentocinquantamila che si erano rifiutati di appoggiare il nazifascismo furono condotti nei lager in Germania e in Polonia, perdendo lo status di prigionieri di guerra e diventando IMI (Internati Militari Italiani), una condizione che li privò di qualsiasi diritto e tutela. Sono questi soldati, emblema della sconfitta italiana, i primi partigiani. Si contano circa settantamila morti fra quelli deportati nei lager.
I soldati non sono stati i primi italiani a subire la deportazione. Furono 23.826 gli italiani e le italiane deportati nei campi di sterminio per motivi politici, nei cui confronti erano stati emessi mandati di cattura per motivi di sicurezza. Antifascisti, partigiani, oppositori politici, sindacalisti. A questi vanno aggiunti i lavoratori deportati dopo gli scioperi del marzo 1944, per un totale di circa trentamila. Erano loro i triangoli rossi dei campi di concentramento e sterminio, il simbolo dei prigionieri politici, e presero parte ai comitati clandestini che operarono rivolte e sabotaggi. La metà dei deportati per motivi politici trovò la morte nei lager nazisti.
La percentuale di ebrei italiani uccisi nei campi di sterminio fu anche maggiore. Dopo l’Armistizio divennero ricercati della polizia tedesca e dei collaborazionisti italiani. Spesso si usa dire che il fascismo non fece deportare nessun ebreo; questo è smentito dal fatto che quasi metà degli arresti di ebrei italiani furono operati dai repubblichini di Salò, e per l’altra metà i soldati tedeschi vennero aiutati dal censimento degli “italiani di razza ebraica o parzialmente ebraica” condotto nel 1938 dai fascisti. Una pagina particolarmente dolorosa riguarda il ghetto di Roma, quando, il 16 ottobre 1943, 1023 ebrei vennero rastrellati dalle proprie case e deportati ad Auschwitz. Ne tornarono diciassette, l’89% dei deportati era stato condotto direttamente nelle camere a gas all’arrivo. Furono oltre novemila gli ebrei italiani deportati nei campi di sterminio, nella quasi totalità dei casi ad Auschwitz. Nei lager, in ottomilacinquecento trovarono la morte. Oggi sappiamo i nomi e le storie di ognuno di loro.
A tutti questi si sommano quegli italiani deportati, principalmente nei campi di lavoro, “quasi senza un perché”: 800 civili romani del quartiere Quadraro in seguito all’uccisione di tre soldati tedeschi, un migliaio di sfollati della Val di Susa dopo l’attentato partigiano a un ponte, 50 sacerdoti, 300 giovani che erano stati arrestati allo stadio dopo una partita Milan-Juventus. E molti, molti altri dei quali risulta difficile tracciare storie e percorsi.
La deportazione non guardò in faccia a ceto sociale, mestiere, sesso, età. Nessuno poteva dirsi al sicuro, perché il regime e l’occupazione avevano riscritto le regole del potere sulla vita altrui. Quelle vittime sono un monito costante dell’orrore nazifascista.
La condizione della donna – Eugenia Fattori
Difficile riassumere in poche righe il rapporto complesso delle donne italiane con il fascismo: almeno inizialmente, le italiane furono sicuramente vittime di una fascinazione verso il regime. Attrazione che fatichiamo a spiegarci ora, ma che veniva principalmente dall’esaltazione apparente del regime di tutte le forme di modernità e da una nuova responsabilizzazione, almeno formale, delle donne come individui che seguiva a un’epoca vittoriana di infantilizzazione e relegazione allo spazio domestico.
Ma al contrario il fascismo si svelò presto come un tentativo di contenere e irregimentare le spinte femministe di autonomia che venivano dal nuovo ruolo femminile che si era delineato durante la Grande Guerra, quando con gli uomini al fronte le donne si trovarono a vivere una vita fuori di casa, professionalizzandosi e organizzandosi.
Ogni caduta verso la dittatura è un insieme di spinte contraddittorie e non dovrebbe essere difficile immaginare quanto fosse semplice, per questa generazione di donne che erano state mobilitate socialmente in maniera prima sconosciuta, scambiare per progresso il ruolo autoritario e rigidamente inserito nel binarismo di genere che offriva il fascismo (in cui la sottomissione alle necessità dello Stato andava a braccetto con la sottomissione all’uomo) e che utilizzava astutamente il riconoscimento dello status di Cittadine e la campagna per la protezione sociale come cavalli di Troia per negare l’emancipazione reale e ridurre le italiane al ruolo di fattrici e organizzatrici.
Il fascismo spazzò via il femminismo di inizio secolo con una retorica fortissima, in grado di appiattire i bisogni dell’individuo e creare un’uguaglianza unicamente di facciata, utilissima però per restaurare i modelli tradizionali e delegare così all’economia familiare le conseguenze delle politiche del regime. In un’economia in cui la forte disoccupazione maschile non poteva conciliarsi con l’immagine del successo fascista, il lavoro femminile andava eliminato per creare un’illusione di prosperità. Alle donne in cerca di realizzazione e libertà doveva quindi essere venduta una libertà apparente all’interno del nucleo familiare.
L’epoca fascista creò un ideale di donna così pervasivo che ancora oggi finisce per infiltrarsi nella contemporaneità. La ritroviamo facilmente in quell’esaltazione del ruolo femminile contrapposto al ruolo maschile tipica della retorica delle destre contemporanee (un ruolo attivo, energico, tollerato e persino premiato purché ancillare e separato dal territorio del potere maschile), nell’esaltazione del sacrificio attraverso lo stereotipo della “supermamma” che sa fare tutto dentro e fuori casa (amplificata dalle nuove sfide della conciliazione tra lavoro e maternità che invece di essere riconosciute come ingiustizie vengono in questo modo rese tollerabili, perché verniciate di una patina di coraggio e abnegazione), nella misticità pseudoscientifica sul dolore del parto naturale o sull’allattamento al seno, e così via.
Una donna asservita ai bisogni dell’uomo e della famiglia, privata della solidarietà e della collaborazione femminile e, anzi, indotta a una competizione con le altre donne sull’aderenza al modello della “donna perfetta”: un’immagine che non suona estranea né così antiquata a molte di noi, indice di un’eredità culturale che ancora oggi permane fortissima.
Censura e soppressione delle libertà – Arianna Latini
Il totalitarismo prevede il controllo sistematico dell’intera società, allo scopo di reprimere ogni forma di opposizione e di imporre, in ciascun ambito e a tutti i livelli, l’assoluta adesione all’ideologia del regime. In Italia il piano fascista di annullamento delle libertà, sia individuali che collettive, si attuò su due fronti: da un lato con la soppressione del dissenso, dall’altro con la propaganda.
Lo squadrismo fascista provvide (con minacce, rappresaglie, violenze, carcere, confino e omicidi) a eliminare fisicamente gli oppositori politici, gli intellettuali dissidenti e, in generale, i cittadini non fascisti. Il militarismo limitò e poi negò le libertà pubbliche e private dei cittadini. Mussolini disponeva di un suo esercito personale, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (fondata nel 1923), e di una polizia segreta, l’OVRA, che di fatto soppiantarono le forze dell’ordine preesistenti. Anche la giustizia era sotto il suo diretto controllo, grazie al Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato, le cui sentenze erano inoppugnabili.
Stessa sorte toccò all’ordinamento politico: il Parlamento fu di fatto destituito e sostituito dal Gran Consiglio del Fascismo (1923), composto da figure scelte dal Duce stesso. Con le Leggi Fascistissime (1925) furono sciolti tutti i partiti, ad eccezione del PNF, il Partito Nazionale Fascista, venne negato il diritto allo sciopero e furono abolite le associazioni sindacali.
La fascistizzazione della società avvenne passando per il totale controllo dei mezzi di informazione (giornali e radio), di intrattenimento (cinema) e di istruzione (scuole e università) e permise a Mussolini di minare il dissenso alla base, nella sua fase germinale di costituzione. Con la soppressione della libertà di stampa e grazie alla censura, idee eversive o comunque non allineate al fascismo non potevano circolare liberamente. Come la libertà d’espressione, anche quella di pensiero e di opinione furono negate. Le coscienze individuali e collettive furono annientate. Mancavano dunque sia le condizioni intellettuali che materiali per poter dissentire al regime. I pochi che vi riuscivano venivano presto eliminati. Anche di questo ci siamo liberati.
La resistenza italiana – Biancamaria Furci
È impossibile parlare della Liberazione dal nazifascismo senza parlare della Resistenza italiana. Fino all’8 settembre 1943, l’Italia resta il principale alleato del Terzo Reich, rendendosi partecipe e colpevole dell’occupazione dei territori invasi. La prima Resistenza europea si rende quindi necessaria anche contro di noi.
È dopo il crollo del fascismo e l’armistizio con gli anglo-americani che nasce in Italia una vera forma di opposizione strutturata. Le forze politiche già antifasciste dichiarano nell’immediato la nascita del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale, il 9 settembre 1943, comprendendo un gran numero di realtà eterogenee non di rado divise dalle forti differenze ideologiche (comunisti, socialisti, democristiani, liberali e non solo). Ma l’obiettivo comune della lotta al nemico esterno e a quello interno, all’occupazione nazista e al regime fascista, risulta più forte di qualsiasi distanza. Alla Resistenza partigiana prendono parte militari e civili, uomini e donne, ragazzi (talvolta bambini) e anziani, professori universitari e manovali. Questo movimento riesce a essere unito e coeso nel rispetto delle differenze individuali, molte contrapposizioni vengono messe da parte in nome di un ideale e uno scopo più alti.
La clandestinità e l’assoluta segretezza rendono difficoltose le manovre di raggruppamento e la pianificazione delle azioni, accogliendo iniziative spontanee e la frammentazione anche geografica dei vari gruppi. Nonostante questo, la lotta partigiana si estende e si solidifica, venendo accolta con favore da una grande parte della popolazione e sedimentandosi mano a mano nel tessuto sociale. Solo così riesce a resistere agli arresti, alle torture, alle deportazioni, alle esecuzioni, alle stragi di civili.
Nasce in montagna la Resistenza, nelle nostre valli e nei nostri boschi, per organizzarsi sempre più passando dalle bande alle brigate e istituendo i gruppi cittadini (come le SAP e i GAP, squadre e gruppi di Azione Patriottica) e le strutture politiche come i Gruppi di Difesa della Donna, quest’ultimo mette in luce le rivendicazioni femministe e il protagonismo delle donne nella resistenza partigiana. La Resistenza nazionale presenta peculiarità dovute ai luoghi e alle caratteristiche di ogni gruppo, e accoglie in sé una molteplicità di espressioni differenti, che vanno dalla lotta armata all’opposizione civile disarmata.
Grazie a questa pluralità di interventi raggiunge risultati impressionanti, arrivando ad avere fra la primavera e l’estate del 1944 interi territori sottratti all’occupazione nazifascista, non senza pagare un conto altissimo di perdite. La controffensiva tedesca si fa ancora più spietata, con continui rastrellamenti ed esecuzioni di partigiani catturati. L’inverno del 1944, mentre gli Alleati sono fermi sulla linea gotica, è un massacro continuo. Nella primavera seguente, allo stremo delle forze sia fra i combattenti che fra la popolazione, il CLN è ormai un vero governo, strutturato e compatto, e l’attività partigiana unita a quella degli Alleati e al sostegno della popolazione riescono a concludere e vincere la guerra di Liberazione. È il 25 aprile 1945.
Ma ecco in cosa la Resistenza italiana vede una caratteristica propria e imprescindibile: è una sollevazione popolare, un bisogno condiviso, una volontà comune che si avvale dell’aiuto e del coraggio di centinaia di migliaia di persone che operano nel proprio piccolo, nel proprio quotidiano. È questa l’eredità confluita nella nascita della Repubblica Italiana e nella sua Costituzione. È questa l’eredità comune che celebriamo oggi, che cerchiamo di ricordare: il sacrificio di chi considerò la libertà come il valore più grande al quale si potesse dedicare la propria vita.
Siamo i vostri fratelli
figli di queste colline.
Ci fu chiesta la vita.
Avevamo poco di più
ma la demmo lo stesso
perché voi poteste continuare
a sperare
in un mondo più umano,
non offriteci solo preghiere
ma la rabbia.
Una rabbia feroce
contro chiunque
voglia mettere di nuovo
l’uomo contro l’uomo.Monumento ai caduti – Moresco (FM)