Henrik Cronqvist dell’ University of Miami e Frank Yu della China Europe International Business School sono gli autori di una singolare ed interessante ricerca pubblicata di recente dall’ Harvard Business Review (HBR), uno dei più importanti giornali accademici per quanto riguarda l’economia e il management.
Cronqvist e Yu hanno analizzato le 500 più importanti aziende americane (quelle dello S&P 500 ovvero il più significativo indice azionario del mercato statunitense, realizzato da Standard & Poor’s) per quanto riguarda l’ambito Corporate Social Responsibility (CSR), confrontando il loro comportamento con dati relativi ai figli degli amministratori delegati – anche detti CEO – delle stesse. Facendo un piccolo passo indietro, per Corporate Social Responsibility (in italiano Responsabilità sociale d’impresa, ma nella maggior parte dei casi a livello sia accademico che aziendale si tende ad utilizzare la terminologia anglosassone anche nel nostro paese) si intende quel ramo del management che si occupa di studiare e mettere in pratica un comportamento aziendale che sia socialmente responsabile, ovvero che presti attenzione a tematiche etiche quali per esempio il rispetto – e benessere – dell’ambiente e delle persone.
Ciò che è emerso dallo studio è che quando alla guida c’è un amministratore delegato con almeno una figlia femmina, l’impresa riporta un punteggio dell’11.9% superiore alla media per quanto riguarda le misure delle attività di CSR, e allo stesso tempo che mediamente investe il 13.4% del proprio guadagno netto più delle altre imprese in piani di responsabilità sociale. Questi dati sono estremamente significativi in quanto per la maggior parte delle aziende avere un comportamento etico e socialmente responsabile non è esattamente una delle priorità.
Lo studio è basato sull’analisi della performance di queste imprese dal 1992 al 2012, un arco temporale piuttosto ampio, e le misure prese in considerazione sono quelle relative al livello di diversità presente in azienda, relazioni ed interazioni tra i dipendenti, sensibilità ambientale e attenzione ai diritti umani.
Il professor Cronqvist spiega nell’intervista all’HBR che diversi studi in campo economico, psicologico e sociologico attestano come le donne siano più propense rispetto agli uomini a preoccuparsi del benessere delle altre persone nella società, e che le figlie femmine accrescano questa sensibilità nei genitori. Per esempio una ricerca di Eboyna Washington (Yale University) mostra come i membri del Congresso Americano che hanno figlie tendono maggiormente a votare a favore delle leggi sui diritti riproduttivi, mentre Adam Glynn (Emory University) e Maya Sen (Harvard University) hanno riscontrato un comportamento simile nei giudici d’appello coinvolti in casi riguardanti questioni di genere. Come sottolinea il professore, un punto di svolta di questi studi è il fatto che hanno dimostrato come non siano solamente i genitori ad influenzare il comportamento e le abitudini dei figli, ma succede anche il contrario. E non solo nell’ambito privato della vita famigliare, bensì anche in quello lavorativo. Quasi banalmente, vedere la propria figlia discriminata nel mercato del lavoro influenza il comportamento dei genitori in rapporto alla questione dell’eguaglianza di genere nell’azienda in cui essi stessi lavorano.
E quando è proprio l’amministratore delegato ad essere una donna?
Gli autori dello studio hanno confessato di non poter fornire dati statisticamente rilevanti in risposta a questa domanda, in quanto il campione a loro disposizione era troppo ristretto. Il che, tradotto più semplicemente, vuol dire che delle 379 aziende campione usate per lo studio (non di tutte le 500 facenti parte dello S&P 500 è stato possibile reperire informazioni relative ai figli degli amministratori delegati, quindi non è stato possibile includerle tutte) solamente 14 sono guidate da una donna. 14 su 379. Il 3,7%. Già questo dato da solo dice tante cose: si potrebbe discutere a lungo su questo numero, ma non è lo scopo di questo articolo.
Pur non potendo esprimere risultati significativi da un punto di vista inferenziale, il professor Cronqvist comunque riferisce che osservando i dati del (seppure esiguo) campione, emerge come le imprese guidate da CEO donne ottengono risultati nelle misure di CSR ancora più elevati.
Dice il professore:
Secondo i nostri calcoli, avere un CEO uomo con una figlia produce risultati pari circa ad un terzo di quelli che produce avere un CEO donna. Gli studi sui membri del Congresso e sui giudici riportano numeri simili. Quindi possiamo ipotizzare che un uomo si comporta per un terzo in modo più “femminile” quando è genitore di una ragazza
In conclusione, l’intervista puntualizza come studi precedenti avessero già messo in luce la maggiore predisposizione verso l’adozione di politiche socialmente responsabili degli amministratori delegati che si identificano con idee Democratiche, piuttosto che coloro che si definiscono Repubblicani. Tuttavia l’appartenenza politica è una scelta autonoma, libera e consapevole, mentre nella maggior parte dei casi il genere dei figli non lo è.
Senza dubbio vi è ancora spazio a livello accademico per altri studi in materia, ma i risultati di questa ricerca – e delle altre qui citate – costituiscono un approccio alternativo e molto interessante per quanto riguarda gli studi di management.
Potrebbero essere una ragione in più per far sì che quel 3,7% pian piano diventi un numero più grande. Noi attendiamo (più o meno) fiduciosi.