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L’occupazione di Gezi Park e il G8 di Genova, un confronto spontaneo
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L’occupazione di Gezi Park e il G8 di Genova, un confronto spontaneo

Durante il Milano Pride del 26 giugno 2021, alcunɘ attivistɘ sedutɘ con noi durante uno dei Pride forse più tranquilli degli ultimi anni ricevono notizie foto e testimonianze delle violenze perpetrate durante il Pride di Istanbul. Si organizzano prontamente per mandare messaggi di solidarietà e alzare la nostra attenzione (ancora grazie stregafemminista, rastelling, alwaysithaka).

In Turchia la situazione delle comunità marginalizzate sta attraversando un momento molto caldo, anche a causa della decisione da parte del governo di abbandonare la convenzione di Istanbul. Decido di informarmi meglio e un persona turca che conosco mi spiazza abbastanza con la consapevolezza che le femministe occidentali tendono a fare spesso una cosa: dimenticarsi del contesto. A questo punto decido di mettermi in ascolto, per cercare di capire meglio, e prendo la decisione di occupare il mese a raccontare la situazione in Turchia da un punto di vista il più possibile vicino a chi ha vissuto quella situazione e il famoso contesto.

“Ogni repressione comincia dall’occupazione del parco Gezi”

L’occupazione di piazza Taksim e Gezi Park viene definita rivolta, protesta, talvolta tentativo di rivoluzione. Mentre mi informo il più possibile, seguo pagine femministe turche, mi sforzo di comprendere…c’è però un sottofondo. La ricerca svolta per scrivere questo articolo è stata paragonabile a voler ascoltare la musica del vicino con lo stereo acceso in casa propria.

L’anno scorso ha visto infatti il ventennale dai fatti di Genova, il G8, il movimento No Global, in un momento storico drammatico in cui viene solo da dire che le persone giovani a Genova avevano ragione. Il confronto fra questi due eventi e la loro successiva evoluzione perciò non arriva da un confronto ragionato e logico ma dal caso. Da un lato le immagini che ho scelto di vedere e raccontare per solidarietà e vicinanza nei confronti di un popolo in rivolta e dall’altro l’importante momento di passaggio del testimone generazionale tra chi ricorda Genova e chi dovrà raccontare Genova.

L’occupazione di Gezi Park nasce come la rivolta ambientalista di una cinquantina di attivistɘ che il 28 maggio 2013 piazzarono le tende in un parco al centro del quartiere europeo della città, a seguito dell’annuncio del progetto di trasformare quel parco in un centro commerciale e appartamenti di lusso in stile ottomano. La polizia reagisce in maniera violenta all’occupazione e lɘ attivistɘ tramite i social chiedono aiuto. In breve arrivano nuove persone a occupare il parco e la piazza.

In testa sventolano bandiere arcobaleno di gruppi LGBTQIA+, poi tantissimɘ studentɘ, collettivi femministi, lavoratori e lavoratrici, persone della borghesia, soprattutto persone singole che volevano difendere il parco. Le istanze della rivolta si moltiplicano e arrivano a essere una vera contestazione nei confronti del governo di  Recep Tayyip Erdoğan. Non solo le richieste si moltiplicano ma le persone scendono in piazza in un numero stimato di tre milioni in tutto il Paese; non solo a Istanbul, anche Ankara, Antalya e Smirne. Prima a Istanbul e a seguito delle proteste nelle altre città ovunque, la polizia mostra una repressione inaudita e violenta. Addirittura a Smirne vengono attaccate con gas lacrimogeni le persone che scesero in strada a pulire i disordini del giorno prima. L’occupazione durò tre settimane, morirono otto persone e migliaia furono ferite.

Non riesco a non vedere l’incredibile somiglianza di varietà di istanze delle piazze che a Genova cercavano, a partire dall’ambientalismo, un mondo governato in modo più equo. E lo chiedevano direttamente ai potenti della terra. Persone diverse con istanze specifiche diverse ma insieme con un obiettivo comune. L’altra somiglianza sta nello spropositato uso della forza, dei gas, i manganelli, gli arresti e i morti. A guardare le proporzioni oltretutto tra il numero di partecipanti e i feriti, si stima abbiano partecipato alle proteste di Genova 300mila persone con 20mila membri dell’arma schierati. Erdoğan in televisione sostenne che “quando loro riuniscono 20 persone, io ne chiamerò 200mila. Quando loro ne portano 100mila, io ne avrò un milione“.

Risulta palese quanto in entrambe le occasioni i diritti umani furono sospesi, esisteva solo la volontà di annichilire chi il tempo sta già confermando avesse ragione.

Altra somiglianza sta nell’assordante silenzio della Comunità Europea, sempre pronta a gonfiare il petto in nome della libertà ma straordinariamente distratta. In un caso per interesse personale diretto e nell’altro per interesse trasversale. Le somiglianze però si fermano qui.

Le proteste di Genova sono durate dal 19 al 22 luglio del 2001, non c’erano i social network. Tutto ciò che succedeva a Genova arrivava al resto del mondo solo tramite televisione, radio, giornali. Era il 2001, la televisione che adesso ci fa venire i brividi per il modo in cui racconta i fatti era pienamente sotto l’influenza del Premier Silvio Berlusconi. Durante l’occupazione di Gezi l’uso dei social network è risultato fondamentale per mostrare un punto di vista immediato, coordinarsi, testimoniare.

La seconda differenza sta nella percezione dell’identità di chi manifestava. Recep Tayyip Erdoğan definì i manifestanti Çapulcu ovvero “saccheggiatori”, loro si sono però appropriati del termine, auto-identificandosi in esso col significato “attivista per i diritti umani”. Carlo Giuliani per la stampa e l’opinione pubblica era un teppista; “manifestante” in Italia per almeno dieci anni è stato sinonimo di violenza, black bloc, cappucci neri, rivoltosi, persone che vogliono solo distruggere le città e che poi si lamentano della reazione della polizia. Tutt’ora la polizia ha conservato il buon nome mentre chiunque manifesti per i diritti umani “se la sta andando a cercare”.

La grande differenza è che a Genova un’intera generazione ha smesso di credere nelle lotte di piazza, nella fiducia tra attivistɘ e in Italia si è smesso di cercare una ferma opposizione in piazza. Ovviamente sto parlando in senso generale, sto parlando di popolo. Guardiamo alla Francia con un punto di domanda in testa, chiedendoci come facciano a riempire le piazze per settimane, e ce lo chiediamo davanti a una crisi economica senza precedenti, licenziamenti di massa e qualsiasi tipo di oscenità perpetrata in Parlamento.

Dopo Genova le persone sono cadute nel sonno del mondo neoliberista schematizzato da Naomi Klein. Viviamo nel migliore dei mondi possibili al di fuori della storia. Ricordiamo Genova come un punto che termina il discorso, un trauma del passato come se fosse un punto di inizio e fine.

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In Turchia il significato di Gezi ha dato inizio a due fenomeni: il primo, la paura di Recep Tayyip Erdoğan. A chi afferma che attacchi le donne, i lavoratori, la comunità lgbtqia+ per odio, islamismo, conservatorismo rispondo con ciò che è stato risposto a me. Alle sue prime elezioni Recep Tayyip Erdoğan dichiarò candidamente che era contento vedendo il Pride, che i turchi potessero celebrare tutti i loro colori. Un liberista? Certamente no, ma sicuramente un politico che non teme una comunità.

Dopo Gezi il popolo turco ha dimostrato il suo potere e da lì il governo è diventato quasi maniacalmente ossessionato dalle comunità che potevano sfidarlo. Ogni settimana da qualche parte in Turchia ci sono femministe in piazza contro l’abbandono della convenzione di Istanbul o lo sfratto delle donne trans dalle zone del centro di Istanbul, nelle università ci sono occupazioni contro le ingerenze statali. Tuttɘ scendono in piazza, sanno che verranno arrestatɘ e poi liberatɘ, sanno di affrontare la violenza della polizia che resta impunita. A Gezi Park è iniziato qualcosa e non è ancora finito, non è un trauma collettivo; o meglio, è anche quello, ma non solo.

Mentre scrivo, ascolto il podcast di Internazionale sui fatti di Genova e mentre mi commuovo vorrei arrivare a una conclusione duplice. La prima, di informarsi e dare la giusta visibilità diffusa alle istanze sollevate dalle persone in rivolta in Turchia, anche quando non è il trend topic. La seconda è di non fermarsi ai reportage e ai documentari su Genova, ma dopo aver ascoltato tutto di riflettere e cercare di accettarne l’eredità abbandonata lì e farla uscire dall’ombra della ferita tra lo Stato e il popolo. Sarebbe eccessivamente ingenuo chiedere di prendere gli avvenimenti turchi come esempio, ognuno ha la sua storia ma forse è giusto pensare di uscire dall’ombra di un fatto concluso e pensare a un inizio.

A riprova dell’importanza che l’occupazione che Gezi Park ha avuto nel dimostrare la pericolosità di un popolo in rivolta agli occhi di Recep Tayyip Erdogan, risale a pochi giorni fa la notizia della mancata scarcerazione di Osman Kavala. Osman Kavala è un imprenditore turco che è stato incarcerato nel 2017 e viene mantenuto in carcere con l’accusa di essere tra i finanziatori e promotori delle proteste (nel frattempo l’accusa è diventata di spionaggio). Non solo pare che Gezi sia la parola magica che fa inasprire qualsiasi pena, ma è anche la scusa con cui cercare e perseguitare gli oppositori. Questa spasmodica ricerca dei mandanti ha anche un secondo significato: togliere autodeterminazione a un popolo. Popolo visto come marionetta, come mezzo che sicuramente qualcuno di molto potente manovra.

La paura la fanno i popoli in rivolta anche se sono accomunati da un’ideale. Mi azzardo a dire “ieri no global”, mi riazzardo a sussurrare “oggi No Tav”.

Artwork di Chiara Reggiani
Con immagini di: Mstyslav ChernovMstyslav ChernovCanKaya1Ares FerrariMichele FerrarisAres Ferrari.
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