Articolo di Stefania Covella
GLOW è una serie televisiva statunitense, una comedy-drama creata da Liz Flahive e Carly Mensch con la produzione esecutiva di Jenji Kohan (l’ideatrice di Orange is the New Black) basandosi sull’opera originale di David McLane.
La prima stagione è composta da 10 episodi di circa mezz’ora ed è stata lanciata da Netflix il 23 giugno 2017.
La storia è sempre la stessa: la vita scorre tranquilla fino a quando, all’improvviso, si presenta un’opportunità che cambia tutto. Una trama standard, vista e rivista, il più classico viaggio dell’eroe e l’orgoglio di ogni vogleriano. Partendo da qui può accadere qualsiasi cosa, dal dramma di rinascita alla commedia, da La La Land a Pretty Woman.
Invece accade Glow e non assomiglia a nient’altro.
Il viaggio dell’eroina è quello di Ruth (Alison Brie), un’attrice di belle speranze e pochi ingaggi, nella Los Angeles degli anni ‘80. Mantenuta dai genitori e con una lunga sfilza di provini andati male alle spalle, si trova a vivere un momento di stallo e sconforto. Il suo aspetto da brava e dimenticabile ragazza della porta accanto, con gli occhioni chiari e il sorriso candido, non le permette di conquistare una parte.
Hollywood, come da copione, investe esclusivamente su film con protagonisti maschili.
Ruth non è ritenuta adatta ai ruoli richiesti: bellissime ragazze sexy con poche battute e ruoli subordinati o stereotipati (tema che abbiamo affrontato anche nell’articolo sul gender-gap nell’audiovisivo, oggi come negli anni ‘80). Il Pilot, infatti, si apre con un’audizione di Ruth che recita con tono risoluto e partecipato, almeno fino a quando non le viene fatto notare che sta leggendo la line sbagliata. Per la precisione, quella del protagonista maschile. L’unica battuta che le spetta è: “C’è sua moglie sulla linea due“.
Tutto cambia quando Ruth si ritrova al provino di un nuovo programma televisivo: le Grandiose Lottatrici del Wrestling (Gorgeous Ladies Of Wrestling). Nel corso delle puntate, la nostra eroina imparerà a confrontarsi con un gruppo di donne diversissime tra loro. Insieme ai protagonisti maschili: Sam Sylvia – scorbutico regista di Z movie – e Sebastian “Bash” Howard, giovane produttore figlio di papà, creeranno i loro personaggi da combattimento.
Le ragazze affronteranno il palco come fosse la vita e la vita come se fosse il ring.
Quando sento la parola wrestling, visualizzo in automatico omoni sudati infilati in costumi imbarazzanti, mentre si schiantano a vicenda sul ring eseguendo coreografie sempre uguali. In particolare, penso a quel programma che guardavano i miei fratelli su Italia Uno, quello con i commenti di Ciccio Valenti e un inquietante lottatore vestito da becchino. Ora potrò immaginare GLOW e i suoi colori vivaci, credo che già questo sia un grande passo avanti per l’umanità tutta. Quello che accade dentro e fuori dal ring però non è altro che un mezzo per raccontare le persone e il bisogno – così umano – di rivalsa. Attraverso la rottura degli stereotipi e portando alta la bandiera della diversity, Glow si rivela la cosa più simile a un’opera di Dan Flavin. Alla fine il principio è lo stesso: prendere qualcosa di invisibile (come il gas neon) e permettergli di brillare, trasformandolo in arte.
Glow è divertente. Recitata bene e scritta anche meglio.
Non è tutta lustrini, capelli cotonati e tutine fluo, perché quello che luccica in Glow è soprattutto l’amicizia tra donne. Uno degli aspetti più interessanti è l’emergere leggero di una profonda riflessione sugli stereotipi, mettendo in luce l’immagine che ne danno i media. Il tutto, affrontato in modo poco politically-correct, finalmente. Infatti, il trionfo di Netflix (e di Glow) sta proprio nell’ironia pungente. Lo dimostrano le due donne più anziane del gruppo, che si mascherano da vecchiette. Una palese frecciata a Hollywood e al trattamento riservato alle attrici over-quaranta.
La bellezza dei personaggi, a volte, sta proprio nel contrasto tra la maschera che indossano sul ring e l’altra faccia della medaglia, quella vera. Come Debby (Betty Gilpin), che sul ring è Liberty Belle (una Capitan America al femminile) ma nella vita è una neo-mamma esaurita, il cui unico sollievo è una confezione di piselli surgelati poggiata sul seno infiammato dall’allattamento.
Quelle di Glow sono tutte donne in un certo senso fuori posto, fuori luogo, che non vanno a tempo e sbagliano il ritmo.
Lo ritrovano, poi. Per questo siamo tutte come loro, ma soprattutto siamo un po’ Ruth. Siamo lei, proprio all’inizio, quando dovrebbe fare una semplice mossa di wrestling e invece recita una scena di La gatta sul tetto che scotta. Siamo come lei perché tutte ci siamo ritrovate – almeno una volta – a fare un provino (o un colloquio) per un ruolo che non richiedeva tutte le competenze in nostro possesso, ma abbiamo sentito il bisogno di dimostrare di valere di più. Molto di più, soprattutto se ci siamo ritrovate a fronteggiare domande e insinuazioni sessiste. Come Ruth, forse siamo state penalizzate per questo o forse ce l’abbiamo fatta. Personalmente, durante ogni futuro colloquio, nella mia testa canticchierò “This Cat’s on a Hot Tin Roof” (la versione di Brian Setzer, perché solo il rock può sciogliere la tensione, ma che ne sanno gli HR).
Però, per quanto io ami Ruth e le altre ragazze, il mio striscione glitterato e il mio tifo sfegatato sono tutti per Sheila.
La ragazza lupo (Gayle Rankin), quella con due centimetri di eyeliner sugli occhi e una parrucca improponibile. Quella che, se avesse saputo dei tappeti dell’Ikea usati in Game of Thrones, ne avrebbe comprati un paio anche lei. Sheila è l’unica che non fa fatica a trovare un personaggio da interpretare, perché lo fa già nella vita ed è una maschera che non riesce a levare mai. Tra le altre cose, il suo personaggio permette di portare sullo schermo un argomento poco trattato come la dismorfofobia. Impossibile non amarla, si rivela indimenticabile.
L’ultima serie cult di Netflix, con un power-slam, ribalta gli stereotipi e li mette K.O. Alla fine, fuori e dentro il ring, vincono l’emancipazione e il femminismo autoironico che si fa sempre più pop e brilla di luce propria.