Se in questi giorni provaste a scorrere i titoli in sala, tra una commedia dozzinale italiana di ambientazione natalizia ed un’altra commedia dozzinale italiana di ambientazione natalizia trovereste “Gone Girl”, l’ultimo film di David Fincher adattamento dell’omonimo romanzo di Gillian Flynn, che ne ha anche curato la sceneggiatura.
Ve ne parlo perché dopo aver letto l’ampiamente condivisibile recensione del blog I 400 Calci, ho scoperto con stupore l’esistenza di una polemica legata al film sintetizzabile nella domanda: “Si tratta di un racconto femminista o di un racconto misogino?”.
Ecco, a questo punto mi preme avvisare che subentrerà una serie di SPOILER necessari, perciò inviterei chi non volesse guastarsi troppo la visione del film a tornare in questa sede solo dopo aver colmato la lacuna.
“Gone Girl” parla di una donna carismatica che un giorno sparisce e delle sue sordide azioni antecedenti e successive all’evento. Parla di un marito non troppo smanioso di trovarla – almeno fino a quando non realizza che farlo è l’unico modo per salvarsi. Parla, infine, dell’incapacità di decifrare fino in fondo le dinamiche che regolano una relazione sentimentale, quale che sia il punto di osservazione che la cinepresa ci concede: se quello intimo dei diretti interessati o quello indiscreto della collettività, una volta divenuta la vicenda di dominio pubblico.
Bene, il mio giudizio prettamente “cinematografico” sulla pellicola si esaurisce già a questo punto con un sentito “andatelo a vedere”: si tratta dell’ennesimo poderoso thrillerone psicologico che vi aspettereste da chi ha diretto quella cosa formidabile che è Se7en.
Tornando alla sopraccitata polemica di genere, la parte del racconto che l’ha suscitata è proprio il ritratto di Amy, la figura femminile principale.
Amy è una donna che vuole preservare la propria autodeterminazione, e lo fa con mezzi quantomeno discutibili: simula stupri e uccisioni, organizza truffe ed arriva a macchiarsi in prima persona di omicidio.
Questa incoerenza morale del personaggio, che a legittime aspirazioni esistenziali risponde con soluzioni efferate e moralmente inaccettabili, ha generato interpretazioni contrastanti. C’è chi ha giudicato “Gone Girl” un film misogino nel suo dipingere una donna irreparabilmente ambigua e sgradevole il cui comportamento disonesto mette in cattiva luce le motivazioni femministe dalle quali parte. C’è invece chi al contrario ha lodato la pellicola come “il film mainstream più femminista degli ultimi anni”, per la capacità della sua antieroina di mettere a nudo tutti i taciti vincoli sociali ai quali la donna deve oggi ancora sottostare, anche in una comunità relativamente evoluta come quella nordamericana.
Ma, come dicevo, la polemica mi ha stupito. Perché io al termine del film ero semplicemente felice di avere appena visto un ottimo racconto di genere. Il fatto che, diversamente da moltissimi altri film di genere, a compiere azioni talmente deprecabili fosse in questo caso una donna mi era parsa soltanto una interessante variazione sul tema, un aggiornamento più strutturato del ruolo di “femme fatale” tipico del noir. E invece è stata proprio questa semplice variazione sul tema ad attivare l’attenzione critica dell’opinione pubblica, come se il fatto che ad architettare con perizia questi comportamenti negativi sia una donna e non un uomo costituisca di per sé un messaggio: è bastato, insomma, sovvertire gli stereotipi di genere all’interno di una formula narrativa consolidata per rendere il racconto non più moralmente codificabile dal pubblico.
Indagando in Rete, ho trovato effettivamente riscontro alla mia sensazione, e credo che il contributo della Flynn in prima persona aiuti ad una prima presa di coscienza: l’autrice ha dichiarato di trovare frustrante il fatto che nelle opere di finzione le donne generalmente appaiano buone, amorevoli in modo innato, oppure visceralmente cattive, pazze, puttane, mentre venga rigettata l’idea di una figura femminile che sia malvagia ed egoista per pragmatismo.
Riflettendoci sopra, se di “madri” e “puttane” avrei un fiume di esempi da fare, non mi vengono subito in mente donne indipendenti metodicamente negative: forse la Sposa tarantiniana di Kill Bill, ma anche in quel caso c’era alla base una forte componente viscerale, mentre escluderei le sue rivali, mercenarie pazze agli ordini di qualcun altro. Invito anche voi a fare questo giochino e magari a controbattere su quanti “Keyser Söze” al femminile abbiate incontrato.
Il dibattito ad ogni modo si risolve a mio avviso con quanto afferma l’articolista del Time Eliana Dockterman:
No, non sei una brutta persona se sei d’accordo con Amy. Gli psicopatici sono intelligenti. Le sue conclusioni [sul ruolo della donna n.d.r.] sono valide. Sono le azioni che ne scaturiscono ad essere contestabili.
“Gone Girl” è sicuramente una imponente metafora del rapporto di coppia e di come i suoi equilibri vengano influenzati da dinamiche interne ed esterne, ma non vuole affatto consegnare una percezione definitiva della figura femminile. È un film che reputa l’intelligenza del pubblico a cui si rivolge sufficientemente elevata da non considerare i fatti raccontati come regole universali.
Il suo “radicale” proposito femminista, se mai è progettualmente esistito, sta tutto nel tentativo di ricondurre la donna ad una dimensione reale, non stereotipata, con tutti gli aspetti disturbanti ed inattesi che possono conseguire dal ritratto di una persona controversa.
Questo trattamento è a ben vedere riscontrabile non solo nel personaggio femminile principale, ma anche in quelli secondari: ad esempio se pensiamo alla sorella solitaria del marito di Amy, oppure all’autorevolissima detective che segue il caso, laddove lo stereotipo narrativo avrebbe suggerito automaticamente nel primo ruolo una lesbica e nel secondo un maschio ombroso. Non mancano infine personaggi caricaturali che anziché sovvertire lo stereotipo lo enfatizzano (l’ottusa conduttrice televisiva, la stupida vicina di casa madre di tre gemelli), ma anche questi ruoli sono a mio avviso coerenti con l’intento dell’autrice di reclamare la “normalizzazione” della figura femminile.
Questa insomma è la mia opinione sulla faccenda, ma sarei molto curioso di sapere cosa ne pensate voi.
P.S. Spero venga apprezzato il mio sforzo di non ironizzare sul grottesco titolo italiano del film, “L’amore bugiardo”. È stata davvero dura. Confido comunque che il responsabile di questi scempi un giorno verrà consegnato al pubblico linciaggio di tutte le coppiette italiane cinematograficamente sprovvedute e raggirate nel corso degli anni e lapidato per oltraggio alla nobilissima arte della traduzione.
complimenti. non sapevo della polemica e neanche di questo articolo. piacevole sorpresa.
Grazie mille, siamo molto felici che tu ci abbia scoperto 🙂