Articolo di Rachele Agostini
Se è vero che il mondo dello spettacolo non è nuovo agli scandali, quello che da qualche giorno sta rimbalzando ovunque su giornali, televisioni e social media potrebbe essere uno dei più imponenti nella storia recente di Hollywood: lo Scandalo Weinstein.
Il nome suona familiare ma, perlomeno in Italia, non è necessariamente associato ad una personalità o un volto.
La ragione per cui suona familiare è che si tratta di uno dei più influenti produttori del cinema contemporaneo, socio fondatore insieme al fratello Bob di Miramax, prima, e dell’omonima The Weinstein Company, poi. Tra i suoi maggiori successi film quali The Hateful Eight e Shakespeare in Love, che nel 1999 trionfò agli Oscar ricevendo anche la statuetta per il Miglior Film.

Proprio la Weinstein Company il 9 ottobre ha diffuso la notizia del licenziamento del maggiore dei due fratelli (nonostante i due insieme detenessero più del 42% delle quote della società), fornendo una motivazione generica che fa riferimento ad una violazione del codice di condotta morale della Compagnia.
I fatti sono, però, un po’ più complessi di così, ed è diventato chiaro a tutti nei giorni immediatamente precedenti e successivi alla notizia; alcuni giornalisti statunitensi hanno infatti portato alla luce una serie di verità sul conto del produttore (verità che da circa trent’anni circolavano nella forma di pettegolezzo), riguardanti molestie e violenze a sfondo sessuale commesse da Weinstein nei confronti di diverse giovani attrici.
LO SCANDALO
Lo scoppio della bomba si deve principalmente a due testate giornalistiche:
– The New York Times, che con un articolo di Jodi Kantor e Megan Twohey ha dato il via alla vicenda e sta continuando a fornire aggiornamenti su di essa;
– The New Yorker, che ha acceso definitivamente i riflettori con l’inchiesta di Ronan Farrow, pubblicata il 10 ottobre. In essa troviamo i risultati di un’indagine lunga dieci mesi, con le testimonianze di tredici donne che hanno parlato di vicende verificatesi tra il 1999 ed il 2015 (ed una traccia audio che prova inequivocabilmente la veridicità di almeno una di queste).

GLI SVILUPPI
In una nota pubblica di poco successiva alla notizia del licenziamento, Weinstein ha ammesso una parte delle colpe a lui attribuite.
Ha chiesto scusa, ma contemporaneamente ha minacciato vendetta nei confronti del New York Times, sostenendo di poter provare la propria estraneità rispetto a molte gravi accuse che in brevissimo tempo hanno seguito le prime.
Sono bastati infatti pochi giorni per portare alla luce altri dettagli, che se possibile rendono gli avvenimenti ancora più spiacevoli: non soltanto le nuove testimonianze (reperibili appunto in un articolo del Times), ma anche il coinvolgimento di tante star internazionali accusate, in modo più diretto, di aver contribuito ad insabbiare la vicenda (come, secondo The Independent, è stato il caso di Matt Damon e Russel Crowe) ed altre, secondo accuse più lievi, rifiutatesi di rilasciare dichiarazioni quando interpellati dal Guardian.
Fonti non ancora confermate parlano anche di somme di denaro versate in passato ad alcune delle vittime per comprare il loro silenzio, e della fuga di Weinstein dal Paese in queste ultime ore nel tentativo di aggirare la giustizia.

I COMMENTI
Mentre le celebrità si dividono tra chi condanna pubblicamente Weinstein (fra loro anche alcune di cui continua a non essere chiara la posizione nelle vicende, come Meryl Streep e Ben Affleck) e chi continua a mantenere il silenzio (perché vuole tenersi fuori dalla vicenda o perché, al contrario, come il fratello e socio, c’è troppo dentro), il popolo della rete non perde occasione di mettere in mostra i vari modi in cui si può mancare di rispetto ad una notizia:
- C’è chi pensa che la cosa più intelligente da fare sia riderci sopra, e confeziona battute di pessimo gusto che poi non ha neppure il buon senso di tenere per sé;
- Chi contribuisce alla disinformazione inventando nomi da aggiungere alle liste già piuttosto lunghe delle Harvey Girls (come sono state soprannominate le vittime) o delle celebrità complici dell’insabbiamento delle vicende.
- Chi ne fa un caso politico per via del pluridecennale sostegno di Weinstein alla fazione democratica: alcuni Repubblicani che strumentalizzano la vicenda per screditare Hillary Clinton e Barack Obama, ed alcuni Democratici che, per difendere la reputazione del proprio schieramento, sminuiscono lo scandalo, mettendolo a paragone con quello che aveva colpito il Presidente Trump (all’epoca solo candidato).

Guardando a queste reazioni con attenzione, appare chiaro come ci sia qualcosa che nessuna di queste tratta con sufficiente riguardo: LE VITTIME.
Le donne di cui continuiamo a vedere i nomi e le immagini (ed il cui numero totale, sebbene imprecisato, si aggira per ora intorno alla ventina) hanno subito abusi e molestie, in diversi casi fisiche e/o reiterate – per quanto anche episodi isolati e limitati al piano verbale siano inaccettabili – sono ridotte, quando va bene, ad essere un aspetto secondario della vicenda.
Quando va male vengono attaccate: perché dopo tutto il tempo che è passato hanno perso il diritto di parlare; perché forse poi stai a vedere che stanno inventando o ingigantendo tutto per avere un po’ di pubblicità; perché comportandosi o vestendosi in una determinata maniera sono responsabili almeno in parte di quel che succede loro, ecc. Il classico atteggiamento di victim blaming che, nella vicenda Weinstein, è esemplificato dai commenti della stilista Donna Karan.
È davvero tanto assurdo ed inconcepibile che attrici giovanissime e sconosciute, appena all’inizio della loro carriera, tacciano davanti a proposte ed aggressioni sessuali di un cosiddetto pezzo grosso perché terrorizzate dall’idea di non essere credute e perdere di conseguenza ogni opportunità di lavorare?
Come se in una settimana di copertura mediatica non fosse stato ripetuto qualche centinaio di volte che quello di Harvey Weinstein e del suo disgustoso modo di trattare le donne era un segreto di pulcinella ad Hollywood, e che il suo caso non è il primo né sarà l’ultimo.
Come se la Weinstein Company non avesse deciso di licenziarlo soltanto perché messa spalle al muro dall’esposizione pubblica, nell’estremo tentativo di salvare la propria reputazione.
Insomma, le cose stanno così.
E quel che è peggio è non stanno così solo nello show business, che – quando nessuno impedisce ai giornalisti di smascherarne i lati più deprecabili – è esposto allo sguardo di chiunque.
Realtà lavorative di tutto il mondo, di qualunque genere ed entità, vedono ogni giorno donne (e certo anche uomini, seppur molto più raramente) ridotte alla stregua di oggetti perché qualcuno si sente autorizzato ad esercitare su di loro quel genere di potere.
Ogni giorno moltissime di queste persone decidono di non denunciare, perché terrorizzate dall’idea che l’opinione comune dia alle loro parole lo stesso valore che chi le ha molestate ha dato alla loro persona – ovvero nessuno – e che quel gesto possa finire per ritorcersi contro di loro; e coloro che decidono comunque di compierlo, vedono quasi sempre quelle paure avverarsi.
Per quanto imponente, uno scandalo non basterà da solo a cambiare le cose, perché quel che bisogna cambiare è innanzitutto la cultura nascosta anche dietro al più piccolo di questi episodi.
Possiamo però augurarci che l’orrendo vaso di Pandora scoperchiato da questa vicenda ed il destino di Weinstein (che attualmente deve affrontare la perdita della carriera, la gogna mediatica, la richiesta di divorzio da parte della moglie e la possibilità concreta di un processo penale ai suoi danni) riescano a scuotere le coscienze abbastanza da spostare il sentire comune, anche solo di un po’, verso la direzione giusta.