Articolo di Eugenia Fattori
Se potessi tornare indietro nel tempo e cambiare qualcosa, cosa cambieresti?
Chiunque prima o poi si è fatto questa domanda, anche Ryan Murphy, che ha deciso di rispondere addirittura con una serie TV, dall’1 maggio disponibile su Netflix. E la sua personale risposta è facilmente intuibile, dato che la serie si chiama “Hollywood”: Murphy tornerebbe indietro nel tempo per cambiare, almeno in parte, la storia del cinema.
A moltissime persone a questo punto verrà spontaneo chiedersi cosa ci sia da cambiare nei meravigliosi film della Hollywood classica, quella dell’epoca dei grandi Studios in cui la serie TV “Hollywood” è ambientata. E nel 1947 in effetti, anno reale in cui parte il racconto immaginario dello show, sono usciti capolavori come “Miracolo nella 34esima Strada”, “La Signora di Shanghai”, “Monsieur Verdoux”.
Ma chi, come Ryan Murphy, ama il cinema classico e allo stesso tempo è consapevole delle discriminazioni sistemiche che avvengono nel mondo e che storicamente hanno afflitto il grande schermo fin dalla sua nascita sa di trovarsi spesso di fronte alla scelta difficile di non poter amare pienamente un film senza dover mettere da parte ciò in cui crede, tollerando o ignorando le ingiustizie che stanno dietro alla sua realizzazione.
La storia dei film è disseminata di storie più piccole che ci parlano di omofobia, sessismo, razzismo, violenza e che spesso sono dimenticate da tutte le narrazioni ufficiali. Solo recentemente e solo grazie al lavoro eccezionale di persone come la critica Karina Longworth col suo podcast “You Must Remember This”, queste storie iniziano a conquistare l’attenzione di tutti. Le vicende delle persone marginalizzate dall’industria cinematografica vengono finalmente raccontate sempre più spesso al di fuori del gossip e dei dettagli pruriginosi e inserite in un discorso sistemico che ci parla non più di drammi personali, ma di una società che praticava e legittimava l’esclusione di alcune categorie non solo dentro ma anche fuori dagli schermi, perché, come ha detto l’attivista Marian Wright Edelman: «Non puoi essere quello che non vedi».
Anche al netto della storia, che ovviamente deve farci mettere a sistema alcune cose che in passato erano più tollerate, va sempre ricordato che “tollerato” e “giusto” sono due cose diverse; e che se alcune ingiustizie sistemiche come la segregazione facevano parte della società americana fino a pochi decenni fa, questo non deve essere comunque considerato una scusante per chi la praticava. Non depurare quindi “Via col Vento” dalle connotazioni razziste del personaggio della schiava Mamie e ricordare che l’attrice che la interpreta, Hattie McDaniel, vinse un Oscar per quella parte ma non poté sedersi tra il pubblico alla cerimonia per via della segregazione, non vuol dire quindi sminuire il valore del film ma analizzarne il significato storico che va oltre il linguaggio filmico, prendendo consapevolezza del fatto che i lungometraggi, ieri come oggi, sono una rappresentazione del mondo che aderisce anche a precisi scopi sociali e politici.
L’idea alla base della realtà alternativa di “Hollywood” è che la spinta propulsiva del Secondo Dopoguerra, grazie al benessere e al desiderio di cambiamento che la fine del conflitto portava con sé, avrebbe potuto creare le condizioni di partenza ideali per un rinnovamento sociale che investisse anche gli studi cinematografici, facendoli aprire all’idea di un cinema inclusivo in cui al rischio iniziale avrebbe senz’altro corrisposto un vantaggio enorme in termini di ampliamento del pubblico e quindi di guadagno.
Partendo da questa tesi, a Ryan Murphy e al co-creatore Ian Brennan basta cambiare un dettaglio (un produttore cinematografico che si sente male e la moglie che prende il suo posto e può dare il via alla produzione di nuovi progetti dello studio) per innescare la propria realtà alternativa in cui un gruppo di emarginati dello show business arriva al successo. Tutti insieme infatti creano un progetto rivoluzionario: “Meg”, una pellicola con la prima protagonista afroamericana, scritta da un afroamericano gay e che farà da veicolo per portare, tra le altre cose, una coppia omosessuale e una coppia multietnica sulla passerella degli Oscar. Un progetto che apre la strada ad altre produzioni con al centro altre storie non più indirizzate soltanto a un pubblico bianco ed eteronormato.
Il punto di partenza di “Hollywood” sono le memorie di Scotty Bowers, “Full Service: My Adventures in Hollywood and the Secret Sex Lives of the Stars”, in cui l’autore racconta di aver passato la vita procurando sesso a pagamento per le star di Hollywood, in particolare uomini gay che non potevano fare coming out, usando una stazione di servizio come copertura. Ma si vede che quel che interessa veramente alla serie TV di Murphy non è tanto raccontarci il lato trasgressivo e i proverbiali “oscuri segreti di Hollywood” (come spesso invece è stato fatto in passato da opere come “Hollywood Babilonia”, magistralmente debunkato dalla stessa Longworth nel suo podcast e che ha contribuito per decenni a propagandare leggende metropolitane come aneddoti storici), ma immergerci pienamente nella magia di un what if, una Dreamland che sarebbe potuta essere.
Un Paese dei sogni quindi, non più reale dei patinati e improbabili anni Sessanta di “Mad Men”, dei Cinquanta di “Ritorno al Futuro” o dei Paesi esotici di “Indiana Jones”, ma filtrato da un immaginario radicalmente diverso: per una volta con “Hollywood” ci troviamo di fronte a una fantasia scritta per solleticare l’identificazione delle persone che non hanno trovato spazio nelle fantasie cinematografiche eteronormate e rivolte ai maschi, come quelle di Steven Spielberg e George Lucas. Hattie McDaniel, insieme a Rock Hudson e Anna May Wong, è ad esempio uno dei personaggi reali che appaiono in “Hollywood” e la cui vita Ryan Murphy mescola a quella di personaggi di finzione, per provare a ipotizzare come sarebbe andata se a un certo punto il sistema hollywoodiano avesse scelto di dare davvero spazio a tutti, raccontando le storie delle donne, delle persone non bianche e non eterosessuali.
L’intento della serie è certo radicalmente politico, ma solo nella misura in cui considera il mostrare certe cose sullo schermo, che siano reali o meno, come un atto politico. Con questo show Murphy sembra chiederci: come sarebbero cresciute le persone marginalizzate (donne, non bianch*, non eterosessuali) se avessero trovato il loro equivalente sullo schermo con la stessa frequenza con cui l’hanno trovato i maschi, bianchi, etero e cis? Ha davvero importanza che quel che vediamo sullo schermo sia storicamente vero, per renderlo reale per noi? La risposta alla prima domanda è ovviamente che la storia, la nostra e quella del mondo, sarebbe diversa, perché saremmo cresciuti con l’idea di avere un posto in quel mondo e probabilmente con la certezza di meritarlo. La risposta alla seconda domanda, invece, è che non importa che quello che vedi al cinema sia reale, per renderlo importante: nessun maschio etero cis somiglia a Indiana Jones, ma vederlo sullo schermo lo ha reso un modello di mascolinità possibile, almeno in potenza.
“Hollywood” ci dice che è il momento di fare lo stesso lavoro per chiunque finora si sia sentito escluso e che per creare una realtà diversa, prima di tutto dobbiamo immaginarla.
il cinema deve prima di tutto raccontare buone storie appassionanti, l’jnclusione sociale non è il suo scopo principale, ma scrivere storie appassionanti e inclusive è possibilissimo e ben vengano
che c’è di eteronormato in spielberg? l’eterosessualità è solo numericamente maggioritaria (perciò rappresentata più spesso), normatia è l’omofobia e va combattuta
gli anni ’50 di madmen sono credibilissimi
Mad Men parte nel 1960 e finisce nel 1970. Forse prima di mettersi a discutere della credibilità storica meglio aver chiaro il decennio di cui si parla (e aver letto l’articolo)?