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Ripartenze, mancanze e prese di responsabilità: intervista a Divi dei Ministri
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Ripartenze, mancanze e prese di responsabilità: intervista a Divi dei Ministri

I Ministri non hanno bisogno di particolari presentazioni. Sedici anni fa hanno iniziato facendo gavetta tra i piccoli club e circoli e negli anni sono diventati un punto riferimento nel panorama musicale italiano, superando i confini della scena indipendente, influenzando tanti gruppi che sono nati dopo di loro e rimanendo sempre riconoscibili nel tempo, non solo per le loro giacche napoleoniche, ma anche e soprattutto per i loro testi. Attuali, politici, i loro brani parlano di vite, vite normali, capaci di essere trasversali e conquistare un pubblico di generazioni diverse, muovendosi con importanti cambi di prospettiva. E, come a voler sottolineare un elemento di continuità nello stravolgersi di punti di vista, vita e abitudini, nell’ultimo anno si sono affidati allo stylist Nicolò Cerioni e alla sua arte per i loro abiti di scena.

Dopo aver collezionato oltre 500 concerti tra centri sociali e grandi festival, dividendo il palco con artisti quali Foo Fighters, Coldplay e Subsonica, a fine marzo torneranno nuovamente sui palchi per un tour di nove date con partenza il 31 marzo da Roncade e arrivo a Trezzo sull’Adda il 29 aprile.

La settimana successiva, il 6 maggio, uscirà Giuramenti, il nuovo disco anticipato una manciata di giorni fa dal singolo Scatolette: del tour, del disco, della situazione in cui siamo immersi da oltre due anni, di presa di responsabilità, mancanze ed estetica abbiamo parlato con Divi, bassista e cantante dei Ministri.

Ripartite con il tour in concomitanza con il termine dello stato di emergenza. Quanto siete emozionati?

Più che emozione direi che è una liberazione! Come puoi immaginare, le condizioni con cui abbiamo vissuto il tour l’estate scorsa erano un compromesso, non quelle che di solito scegliamo. Adesso, in teoria, tutto un po’ switcha e si può cominciare a pensare ai live per davvero, nel mondo in cui ce li ricordavamo. I concerti ce li siamo fatti andare bene come si poteva farli, adesso un po’ meno; più che essere emozionati siamo rinfrancati, torniamo a un concetto di normalità, una condizione esistenziale importantissima per noi.

Qual è la cosa che vi è mancata più di tutte tra quelle che si potevano fare prima?

Ce ne sono tantissime, ma forse, in questo periodo, più che avere delle mancanze, c’è stato un accorgersi di cose. Ci siamo accorti di quanta distanza si sia creata, al di là della Covid-19 che ha solo contribuito ad amplificarla, anche nell’ambito musicale. Oggi i meccanismi della musica non sono più quelli che mettono al centro l’essere umano, non funzionano più in una dinamica da persona a persona, da artista ad ascoltatore: si è sempre più diventati produttori di qualcosa che è un mero oggetto di consumo su una tal piattaforma. Manca il rapporto umano. E di questa distanza da colmare ce ne siamo accorti ancora di più durante la pandemia.

Momento spoiler: qual è il brano che non mancherà in scaletta?

A parte i grandi classici come “Abituarsi alla fine”, in un momento come questo sicuramente “Diritto al tetto”. È un brano che racconta l’importanza di una situazione, nel periodo che abbiamo vissuto, a un certo punto volevamo stare fuori di casa, quel tetto non lo volevamo. Dell’ambiente domestico ne abbiamo fatto il pieno e ci siamo accorti di quanto sia importante uscire.

La tua risposta mi anticipa la domanda successiva, che riguarda il “tornare in strada” di cui parlate anche in “Numeri”, quell’uscire, quel fare rumore, ritrovarsi… Ma quanto le persone hanno – oltre al desiderio – anche paura di tornare nel mondo reale dopo due anni di chiusura e monitor?

Secondo me hai centrato perfettamente il punto. Ultimamente quando ci chiedono se siamo contenti di questa ripresa rispondiamo di sì, ma temiamo che si sia cronicizzato un problema: la gente ha paura, non è perfettamente a suo agio nel tornare ad affrontare la condizione dei live, ed ancora più a monte il concetto di normalità. Si è creato un precedente da riportare nei ranghi, capendo come fare. Noi non sappiamo come si può risolvere, aspettiamo di vedere cosa succede: gli unici dati che abbiamo a disposizione, visto che sempre e solo di numeri si parla, cosa di cui ci lamentiamo anche nelle canzoni (ride, Ndr), sono quelli delle prevendite, e stiamo notando che le vendite vanno a rilento. Le persone sono entusiaste del tornare alla normalità ma questa felicità non trova riscontro nei numeri: è come se avessero delle riserve, come se ci fosse qualcosa che crea turbamento. Ora poi si è aggiunta la guerra e fa capolino un concetto che fa paura per davvero…

In “La nostra buona stella” c’è una frase che, estrapolata dal contesto del brano, trovo attualissima per descrivere il sentimento di questi ultimi due anni: “Noi siamo gli occhi stanchi/Siamo la delusione/Che tutto resti indietro/E che si possa andare solo avanti”. Quali sono stati gli input, le molle che vi hanno tenuto vivi come musicisti e come esseri umani tra i vari lockdown?

Di sicuro non ci siamo mossi per inerzia, pensando alla citazione inserita nel brano. Con questa domanda anticipi un po’ il concept di quel che sarà il disco prossimo. Noi abbiamo scelto questo percorso considerandolo un’alternativa, mentre oggi è una scelta che va spesso a braccetto con logiche di business, imprenditoriali. Credo che i giovani siano molto meno ingenui e più, passami il termine, skillati su questo aspetto, mentre al tempo, quando abbiamo iniziato, eravamo davvero dei paciocconi che volevano solo trovare nella musica un’altra via, affascinati dalla possibilità di vivere diversamente senza vedere nel suonare opportunità economiche, che invece adesso sono costantemente sotto ai riflettori. Scegliendo questo percorso abbiamo fatto un giuramento vero e proprio: questo è un concetto cruciale in relazione anche ai contenuti del prossimo disco che si chiamerà, appunto, “Giuramenti”.

In “I soldi sono finiti”, brano del nostro primo disco, diciamo “Amiamo i nostri vestiti/ Nessuno potrà mai levarceli/Un giorno ci siamo giurati/Che sarebbero stati gli unici”, vestiti che non sono di certo abbigliamento, ma sono la musica intesa quale scelta di vita, dettata da passione e impulsi con la voglia di raccontare: l’artista non fa “fan service”, ma anzi, dovrebbe modificare i pensieri delle persone e illuminarle. Per noi questo è un principio fondamentale e crediamo sia importante riflettere sul fatto che fare musica sia parificabile ad avere una missione, un fardello, una croce da tenersi sulla schiena. Fare il musicista è una missione per certi aspetti come quella del prete.

Siete personaggi pubblici e quello che dite ha una grande potenza, anche sul pubblico più giovane oltre a quello di vecchi come me…

Su questa cosa sfondi porte aperte, la musica è una risorsa.

Ma anche una responsabilità…

Esattamente. Si è parlato e si parla molto di come versi la cultura, di come venga gestita, di quanto sia malmessa da un punto di vista gestionale, ma nessuno si preoccupa di quello che viene comunicato e come viene comunicato. La capacità di discernimento non è automatica nelle persone e i generi che vanno per la maggiore oggi sono invece estremamente controversi per concetti e contenuti propinati, ma di contro non ci sono strumenti forniti, soprattutto alle generazioni ipergiovani, per capire dove stia il vero e dove cominci il gioco. E questo, per me, è un enorme problema.

E come si risolve?

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Non lo so, sicuramente ci vuole un’estrema presa di responsabilità del sistema musica. C’è una crisi di valori, è evidente. Certo, si può avere un momento di leggerezza e di gioco ma deve essere controbilanciato da un momento importante a livello culturale. E ciò allo stato attuale viene trascurato.

Peraltro, in questo periodo storico sembra quasi che a tutti costi si debba per forza staccare la testa, divertirsi, perché siamo stati troppo in casa. Eppure, proprio per quello che è successo, a cui si somma quello che in questi giorni sta accadendo, serve qualcuno che dica qualcosa.

Abbiamo visto di tutto in questi anni, ma penso ognuno debba fare la propria parte dentro il proprio sistema. A me sembra che chi ha un ruolo debba smettere di esercitarlo per adeguarsi alla situazione, questo mi turba. Noi musicisti abbiamo ormai un’età, siamo una generazione diversa di quella dei ragazzi di oggi che ascoltano musica differente, hanno ideali diversi, paradossalmente sono più aperti, multietnici, più liberi nei costumi e nei valori, ma parallelamente non è detto che abbiano il fondo critico che noi avevamo, e che sì era in parte anche un po’ imposto. Noi, da oramai vecchi, dobbiamo capire il confine tra l’adattarsi e il rimanere come una volta. Si tratta di un confine piccolissimo: è giusto rimanere ancorati al presente per non chiudersi in una gabbia – e come musicisti per non rimanere nel fan service in quanto il rimanere nell’idea che la gente ti ascolta ha di te è una cosa terribile; dall’altra parte oggi la credibilità è tutto, articolare un concetto, raccontarlo, avere una visione da suggerire per leggere la realtà in maniera costruttiva è fondamentale. E questa cosa la fai rimanendo fedele a te stesso.
Diciamo che siamo impegnati in una lotta per trovare un equilibrio tra l’adattarsi in continuazione e l’evitare di vendersi come diciamo in “Scatolette”.

Tra passato, presente e futuro: come sarà il prossimo album?

Sarà un disco partorito dentro a logiche non di suonato insieme con rabbia, visto che eravamo tutti distanti, al cui centro c’è l’aspetto della scrittura e del songwriting, al netto del fatto che siamo una band che vuole esprimere le cose col proprio timbro sonoro, quindi il concetto di songwriting è sempre abbastanza relativo. Sarà orgogliosamente un album a tinte diverse che vuole farsi ascoltare non tanto in termini pop quanto in termini di scrittura: vogliamo valorizzarne i concetti, per noi questo è l’aspetto davvero importante.

Estetica, musica, Ministri: avete iniziato che la giacca era il tratto distintivo della vostra immagine, oggi la gestione dell’immagine rispetto a vent’anni fa con anche l’arrivo dei social è cambiato totalmente: come vivete questo aspetto?

Da boomer in fine dei conti! (Ride, Ndr) Ci siamo messi le giacche per circoscrivere l’ansia da salita sul palco, un momento catartico che abbiamo sancito con quel metterci quel vestito: è stata un’ottima trovata per risolvere il tema di come abbigliarsi durante i live. Ultimamente, anche nell’ambiente musica, l’immagine conta sempre di più, l’impatto scenico è diventato importantissimo, chiunque, ad ogni livello, lo cura. Noi siamo rimasti attuali e concreti nel presente proprio per quella scelta fatta tanto tempo fa. Recentemente la collaborazione con Nick Cerioni ci ha fatto svoltare: Nick è prima di tutto un estimatore del progetto da tantissimi anni e per un gioco di contatti siamo finiti a fare progetti con lui, accorgendoci che c’è una profondità dietro quell’aspetto estetico che per noi da sempre è stato considerato estremamente marginale, quasi un escamotage per poter esistere sul palco. E invece no, c’è tutta una cultura, un concetto che Nick sa raccontare, e noi ci fidiamo completamente di lui, che ci permette di affrontare questo argomento con molta più serenità e soprattutto di dargli un senso.

(ridendo) Quindi curarsi e dare un aspetto carino a come si è non scredita l’attitudine alternative?

Ma no, sicuramente, no! Ragazzi! Va bene che col punk sono state rotte tutte le regole, poi c’è stato un momento di grande nichilismo col grunge, ma la musica ad ogni livello, quando si ritrova con tutto quel contorno fatto di gente e attenzione diventa fisiologicamente spettacolo.

Noi adoriamo i Queen, Michael Jackson e la spettacolarizzazione del momento-evento musica, è importante dare un senso all’immagine, è un aspetto importante non fuorviante, non significa vendersi!

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