Tra i tanti argomenti sollevati forse troppo di sfuggita nei giorni di ansia per la Legge di Bilancio c’è anche il cosiddetto “congedo di paternità”. Al di là delle questioni strettamente legislative (per esempio che il provvedimento di legge è ancora sperimentale e va rifinanziato di anno in anno, cosa che non tutti sanno) pochissimo si è detto sull’impatto che questa misura ha o potrebbe avere sulla cultura italiana, del lavoro e non.
La percentuale di padri italiani che sfrutta il periodo di congedo retribuito a propria disposizione è ancora molto bassa rispetto sia a paesi dove il congedo di paternità è ormai consuetudine (Svezia, 80%) sia a paesi dove la misura è stata introdotta relativamente di recente (Germania, 25%). Fioccano le testimonianze e i racconti di padri che hanno qualche timore a chiedere anche i pochi giorni obbligatori in azienda: hanno paura di mettersi in una cattiva luce verso il datore di lavoro.
Queste resistenze culturali non si eliminano con l’azione della legge, che obbliga a pochi giorni di assenza (pagata) dal lavoro, ma non può forzare un cambiamento di mentalità. Tra l’altro, quella italiana è ancora una legge poco conveniente perché si va a inserire in una situazione familiare dove, nella maggior parte di casi, esiste un gender salary gap: se chi prende lo stipendio più basso è lei, e il periodo di congedo prolungato viene retribuito meno, per la coppia è più conveniente che il periodo di congedo lo sfrutti solo la madre. Così la situazione economica nata da un pregiudizio di genere alimenta altri pregiudizi di genere, perpetuandosi.
E a proposito di questioni culturali e pregiudizi, non si capisce perché gli uomini non manifestino, non si organizzino, non si facciano sentire per questo problema in quanto padri. Di loro si sente parlare solo e soltanto come “padri separati”; dobbiamo pensare che non esistano padri non separati che vogliono rivendicare politicamente il loro diritto a essere vicini quanto le madri ai loro figli appena nati? Questo non è un diritto da pretendere? I dispositivi di legge sul congedo di paternità si devono a delle donne: Turco prima, Fornero poi. Perché sembra inimmaginabile un movimento di padri che si attiva quando la relazione di coppia funziona e per rivendicare diritti sicuramente non rispettati, e invece pare che i padri si organizzino solo quando la relazione non funziona, per rivendicare una giustizia secondo loro mancante?
In questo modo una voce sociale importante, che lotterebbe per una equa ripartizione dei diritti nella coppia quando la coppia ancora esiste, non c’è, non si fa sentire; è molto difficile non credere a un pregiudizio patriarcale se i padri sembrano capaci di organizzarsi rumorosamente solo quando sono “separati”. Provate a usare Google per cercare “associazioni di padri”, il risultato è inquietante. Nel frattempo, pochi sanno dell’esistenza dell’Istituto di Studi sulla Paternità.
Senza una vera e propria educazione alla paternità, qualsiasi misura di legge può fare poco contro un sistema culturale che continua a perpetrare le sue ingiuste tradizioni di ruoli di genere. Ed è grazie a queste ingiuste tradizioni che si scambia un gruppo di uomini arrabbiati per gli unici padri i cui diritti sono calpestati. La realtà è che la stragrande maggioranza dei padri non sa neanche di averceli, certi diritti, e quindi non lotta per avere quello che non sa essere suo; non lotta per riavere quello che un sistema non paritario gli toglie dalla testa, ben prima che una qualche legge possa tentare di rimettercelo.