Un nome, una nazionalità, il lavoro, il cibo.
Potrebbero sembrare dei sostantivi accostati a caso gli uni accanto agli altri, ma c’è qualcosa che li accomuna. Sono tutti argomenti che in passato, come anche nel presente, hanno scatenato – e continuano a scatenare – conflitti tra le persone. Da piccoli litigi a grande guerre tra paesi, ciascuno di questi sostantivi nasconde un qualcosa che spinge l’essere umano a lottare per tutelarli. Il bisogno.
Se per gli ultimi tre è facile comprenderne la motivazione, per il primo è molto complicato. Come mai anche un nome può essere concepito come un bisogno che va tutelato e difeso sfugge a tante persone, fino ad arrivare a una tale mancanza di comprensione da sfociare in negazione e violenza.
Siamo complicatə
Partiamo dal principio. Per quanto noi abbiamo il potere di definire la nostra vita e ciò che ci circonda, gran parte delle circostanze sfuggono al nostro controllo. Non scegliamo noi dove nasciamo, inteso come famiglia o come paese e da questo dipende gran parte del nostro futuro. Soprattutto nella prima fase della nostra esistenza, siamo in balìa di altrə e non possiamo decidere di noi stessə, ma arrivata l’adolescenza, iniziamo a scalpitare per definire e affermare il nostro spazio nel mondo.
Dal taglio dei capelli al colore della nostra maglietta, dalla macchina che guidiamo al lavoro che facciamo, vogliamo decidere ogni cosa di noi, arrivando magari a darci un soprannome o un alias. Vogliamo dare una nostra immagine al mondo e pretendiamo che ciò che diciamo venga accettato e compreso dalle altre persone.
Ogni aspetto di ciò che siamo e che proiettiamo al di fuori di noi è l’identità, di cui il nome fa parte per estensione. In latino, identità significava “medesimezza” e rappresentava la qualità per cui una cosa era uguale a un’altra. La legge italiana è ben chiara in tal senso: chiunque ha diritto ad avere una proiezione sociale di sé che corrisponda alla propria personalità. L’idea che io ho di me deve essere quello che io proietto all’esterno, la mia rappresentazione deve corrispondere a ciò che io sono, in tutte le sue sfaccettature. Non è sufficiente – anzi, è riduttivo – prendere una sola qualità di noi. Ognunə è tante cose, ne fa altrettante e mutano nel tempo.
Essere ed essere riconosciutə
Non è piacevole quando sulla base di un solo aspetto di noi veniamo poi interamente pregiudicatə da esso. Questo è il modo in cui funzionano gli stereotipi. Per il solo fatto di essere italianə, veniamo additatə come mangiatorə di pizza e suonatorə di mandolino – se va bene. Lo stesso fastidio si crea quando veniamo scambiatə per qualcosa che non siamo. L’identità personale, afferma la Cassazione, va tutelata e non deve essere modificata od offuscata, perché ciò che portiamo nel mondo deve corrispondere alla verità.
Però noi non siamo una verità. Siamo tante verità tenute insieme da un unico corpo. Bisogna tener conto di un aspetto fondamentale della comunicazione, di cui la nostra rappresentazione fa parte. Ciò che noi proiettiamo all’esterno viene recepito ed elaborato dalla persona verso la quale tale messaggio viene diretto. Abbiamo quindi due visioni dello stesso messaggio: chi lo invia e chi lo riceve. A sua volta il ricevente diventa proiettore di un nuovo messaggio, che può confermare o negare il suo contenuto.
Se per esempio io mi chiamo Giovannino, ma l’altra persona continua a chiamarmi Giovanni, la cosa potrebbe non darmi poi così fastidio. Ma se io affermassi di essere Margherita e l’altra persona continuasse a chiamarmi Giovanni, non sarebbe giusto se mi opponessi – magari anche arrabbiassi – davanti a questo rifiuto di accettare il modo in cui io mi proietto al mondo?
In altre parole, non avrei diritto di difendere la mia personale verità? No, o almeno, ci sono cose più importanti per le quali dovremmo arrabbiarci e batterci.
Questione di priorità
Ci sono sempre delle cose più importanti. Il benaltrismo sotto gli articoli di attivistə per la giustizia di genere non si contano nemmeno più. Prendiamo a riferimento la classificazione più famosa – ne esistono altre – dei bisogni: la piramide di Maslow.
Alla sua base, come fondamentale per la costruzione dell’essere umano, abbiamo i suoi bisogni fisiologici. Al piano superiore abbiamo la sicurezza, non solo materiale ma anche astratta. Salendo troviamo l’appartenenza, la stima e solo infine l’autorealizzazione. Il bisogno di riconoscimento è trasversale a questi ultimi tre gradini che eguagliano in superficie i primi due. Questo sistema è stato ampiamente criticato soprattutto per questa sua metodologia su base gerarchica. Più che un sistema bottom-up, il sistema dei bisogni va inteso come sistema interattivo, e dove quindi ognuno di essi è intimamente connesso.
Le guerre di indipendenza sono state scatenate proprio dalla rivendicazione di una propria identità nazionale, di slegarsi dal giogo dei colonialismo e delle dominazioni di uno stato che si percepisce come straniero e quindi ingiusto, pur in presenza di un relativo grado di benessere alimentare, che invece occupa la base più ampia della piramide maslowiana. Ciò significa che non è sufficiente un ampio soddisfacimento dei bisogni fisiologici affinché l’essere umano si ritenga poi al sicuro e realizzato.
Il diritto all’autodeterminazione
Proviamo a dire a una persona italiana che è spagnola o a una persona scozzese che è inglese. Ancora oggi ci sono delle nazioni prive di uno stato, popoli che chiedono autonomia rispetto a un governo che non sentono loro e che per questo vengono repressi con ogni strumento, anche violento.
È facile comprendere la loro frustrazione ed empatizzare verso la loro causa. Chi mai direbbe a un tibetano che non deve lottare per la sua autonomia perché deve pensare alla povertà del suo popolo? Solo quando è in gioco la sopravvivenza allora viene riconosciuto un generale diritto a lottare per affermarsi.
Alcuni aspetti dell’identità, però, non sono così evidenti. E allora ecco che la lotta per declinare un mestiere al femminile viene screditata, la richiesta di non essere chiamatə con un dead-name è calpestata, la pretesa di vedersi consideratə di un altro genere negata. Eppure da questo passa l’affermazione completa di un individuo nel mondo. La sua verità, il suo riconoscimento, è basata sul bisogno in base al quale ciò che sente dentro venga riconosciuto anche all’esterno.
Il riconoscimento per superare il conflitto
Nel momento in cui si accetta la sua rappresentazione nel mondo e non le istanze altrui, allora si può ipotizzare un sistema attraverso il quale evitare che il conflitto degeneri. Alcuni conflitti, anche al livello micro, sono considerati intrattabili, perché tutti gli strumenti che vengono messi in campo per superarli finiscono per fallire. Questi, però, sono casi che travalicano la singola persona e riguardano interi gruppi di esse. Il meccanismo, però, è identico.
Da un lato abbiamo chi chiede il rispetto della sua identità, dall’altro chi deve riconoscere tale identità. Il mancato riconoscimento genera frustrazione da entrambi i lati. Chi si vede negata la sua identità, per estensione, si vede negata come persona.
Chi nega lo fa per difendere la sua visione del mondo e il gruppo al quale sente di appartenere. Si differenzia dai primi, screditando le loro premesse, e si avvicina ai secondi, abbracciando i tratti che sente più affini ai suoi. La facilità con cui si sente vicino ai simili è la stessa con cui allontana i dissimili. La passione con cui si difende è pari a quella con cui nega.
La passione, l’energia che mette per affermare il suo bisogno di appartenenza è il medesimo bisogno d’identità che provano a difendere coloro che lo vedono negato.
Così cadono tutte le maschere di coloro ə quali difendono obiettivi più alti, bisogni più importanti, che non sono mai quelli di quantə vogliono essere riconosciutə. Di quantə chiedono che la verità che portano nel mondo sia poi accettata e rispettata.
La contraddizione alla base di questo ragionamento che nega il diritto di determinare la propria identità cadrà solo quando ci si metterà nei panni deə altrə e si percepirà il fastidio di un momento prolungato nel tempo.
Ogni giorno, ogni settimana, tutta una vita. Col nome sbagliato, con il genere sbagliato, con l’identità sbagliata.