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Il luogo di lavoro può essere anche un luogo di cura?

Il luogo di lavoro può essere anche un luogo di cura?

“Che misure applica l’azienda per gestire e migliorare l’inclusione e la diversità nell’ambiente di lavoro?”, oppure “In che modo l’azienda gestisce i reclami rispetto alle politiche anti discriminazione?”.

Se lavori in una azienda o ne possiedi una e non hai mai sentito pronunciare nessuna di queste domande, non preoccuparti: è (ancora) normale. I quesiti sopra enunciati sono contenuti in un questionario online, aperto e gratuito – se mai avessi avuto il dubbio. Si chiama “SDG Action Manager”, ed è stato sviluppato da UN Global Compact (iniziativa delle Nazioni Unite per promuovere a scala globale la cultura della responsabilità sociale d’impresa) insieme a B Lab (ente no-profit che certifica le aziende che volontariamente soddisfano i più elevati standard di trasparenza, responsabilità e sostenibilità), con l’intento di dare la possibilità a tutti i tipi di impresa di misurare l’impatto delle proprie performance di sostenibilità.

Una precisazione: non farti ingannare dal termine ‘imprese’. Le domande possono infatti essere d’ispirazione anche per ə cittadinə che vogliono fare la differenza – o perlomeno ‘esistere’ in maniera più rispettosa nei confronti propri e delle altre persone.

L’SDG Action Manager si fonda su degli obiettivi, e precisamente su quelli di Sviluppo Sostenibile (abbreviati SDGs), fissati dalle Nazioni Unite. Sono diciassette e tutti interconnessi fra loro. In pratica, puntano nella stessa direzione e lavorano fianco a fianco per ottenere un futuro più sostenibile. Per questo, è impossibile stilare una classifica di quelli più importanti e di quelli che lo sono meno. Possiamo però soffermarci a guardarne un paio da vicino, quei due cioè che ci rimandano alle domande dell’incipit del pezzo, perché connessi alla sostenibilità sociale. Si tratta del numero 5, riguardante la parità di genere, e del numero 10, che ha a che fare con la riduzione delle disuguaglianze.

Entrambi si collegano a un concetto fondamentale: non ci può essere sostenibilità senza quella sociale. Altro chiarimento. Anche in questo caso, se non indirizzato verso una specifica accezione, la tendenza è quella di accostare il termine ‘sostenibilità’ all’ambiente. Un concetto che negli ultimi anni mastichiamo continuamente per via di una serie di circostanze – tra cui, per esempio, le conseguenze del cambiamento climatico, quelle cioè che potremmo attenuare attuando comportamenti più ecologici. E che quindi abbiamo imparato a decifrare e riconoscere (o almeno dovremmo).

Ma quella ambientale, in realtà, non è altro che una delle molte facce della sostenibilità, uno specifico ‘ramo’ del tronco-base. E un albero con un ramo solo non si è (probabilmente) mai visto. Neppure in questo caso. Accanto al ‘ramo’ ambientale, infatti, esiste per esempio anche quello sociale, inteso come impatto delle imprese sulle persone. I temi contenuti al suo interno – tra cui diversità, equità e inclusione (DEI) – sono ancora astratti e lontani per molte realtà aziendali italiane. Contesti di questo tipo fanno ancora troppa fatica a mettere in atto un cambiamento che gli si (almeno) avvicini, perché ancora troppo focalizzati su un modello vecchio e stantio di ottenimento di capitale senza alcuna visione sistemica, di sostenibilità a tutto tondo. Oppure perché bloccate da pregiudizi inconsci.

In questo caso guardare ai dati ci aiuta per due motivi: ci mostra quanto abbiamo fatto e quanto ancora dobbiamo fare. Per esempio il Global Gender Gap Report 2022 del World Economic Forum ci dice che nel mondo l’Italia occupa il 63esimo posto in classifica per divario di genere (dati 2021).
Eurostat, invece, riferisce che il gender pay gap (la differenza media tra i salari orari percepiti da uomini e donne, espressa in termini percentuali) si attesta in Europa attorno al 13%.
E, guardando più in là del nostro naso, da uno studio commissionato dalla Harvard business review è emerso che il 40% delle persone – su mille individui americani adulti occupati intervistati – si sente fisicamente ed emotivamente escluso sul posto di lavoro per motivi di genere, età o etnia. Ma è molto improbabile che ne abbiano parlato con una figura referente.

È in situazioni come questa che l’SDG Action Manager può venire in aiuto, raccogliendo – e quindi fornendo – opportunità di miglioramento concrete per portare un po’ della lotta femminista all’interno delle aziende. L’analisi del questionario suggerisce diversi spunti d’azione, tra cui questi.

Definizione delle proprie mission e policy sui temi DEI

Prima di tutto, l’azienda che vuole intraprendere un ‘percorso’ di questo tipo è chiamata a scrivere una mission specifica e fruibile da tutta la comunità aziendale. Significa che l’impresa in questione deve avere chiaro in mente il tipo di impegno che si propone e quale impatto (ovviamente positivo) spera di ottenere. Il ‘testo’ dovrebbe essere redatto da un team di persone responsabili e formate, con il coinvolgimento del management aziendale: quella parte dell’azienda che, nel concreto, traduce la teoria in pratica, attraverso la policy – sostanzialmente un insieme di regole da mettere in atto per il raggiungimento dell’obiettivo. Tutto qui? Ovviamente no. Dopo la stesura e la sottoscrizione dei due documenti, manca ancora una cosa: un sistema di monitoraggio che da una parte controlli l’effettiva messa in pratica della policy, e dall’altra quantifichi l’efficacia con cui l’azienda sta raggiungendo gli obiettivi – visto che al capitalismo piace molto tenere conto dei traguardi tagliati. Sono i cosiddetti KPI (key performance indicators), che includono per esempio la rappresentanza femminile nella leadership.

Costituzione di un team DEI

A livello di governance – detto altrimenti, come si mette su e si gestisce tutto questo? – sarebbe meglio prevedere la costituzione di un nuovo organo responsabile che si occupi delle tematiche su più fronti. Un vero e proprio team DEI che, oltre a collaborare alla stesura di mission e policy, possa interessarsi alla salute emotiva delle persone che lavorano in azienda, e si occupi di informare in merito all’inclusività, alla parità e, perché no, al femminismo, in ambito lavorativo.

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Il gruppo, oltre alla possibilità di utilizzare sondaggi periodici mirati, formazioni e riunioni comunitarie, potrebbe persino dare vita ad un “safe space” dove accogliere reclami, segnalazioni di abusi, violenze e discriminazioni ricevute sul luogo di lavoro. Un luogo sicuro in cui risolvere e affrontare ogni tipo di questione in maniera efficiente e discreta, così da proteggere la sicurezza e la riservatezza delle persone denuncianti.

Sensibilizzazione e formazione sui temi DEI

Spesso ciò che succede ai vertici, rimane ai vertici. È invece importante che concetti di questo tipo – abuso e discriminazione, per esempio, che la leadership è legalmente tenuta a conoscere – vengano diffusi a tutte le persone coinvolte, dalla prima all’ultima arrivata, prescindendo dai ruoli.
L’azienda potrebbe prevedere delle formazioni specifiche e mirate su certi temi, o attività di sensibilizzazione. In tutti i luoghi di lavoro potrebbe essere incoraggiato l’utilizzo di un linguaggio inclusivo, e le persone appena assunte potrebbero ricevere, insieme a tutte le informazioni sui server, anche le istruzioni su come digitare la schwa su un qualsiasi programma di testo.

Sono solo alcune delle azioni introducibili nelle aziende per renderle, oltre che un luogo di lavoro, anche un posto di cura, con un impatto positivo sulla vita di quegli individui che spendono dietro sedie o banconi buona parte della loro giornata. Quello che più importa, in ogni caso, è che perlomeno sia chiara la direzione da seguire, quella cioè che prevede un cambio di paradigma radicale.

D’altronde un’azienda che valorizza il punto di vista di ogni persona, e ne rispetta il background e il bagaglio di vita, è un’azienda più solida, più aperta all’innovazione e al cambiamento. Una scelta intelligente e responsabile, un cambio di mentalità (urgente e necessario) a portata di questionario.

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