Articolo di Lara Conte
Quest’anno è iniziato con una novità particolare al Parlamento Europeo. Il 21 gennaio è stata emessa la Risoluzione sulle Strategie per la parità di genere che per la prima volta ha incluso anche le sexworker. La Eu Strategy for Gender Equality è un’importante raccomandazione con cui si invitano gli Stati comunitari a coordinarsi per combattere la discriminazione di genere a livello sociale, economico, culturale e istituzionale tramite la promozione di politiche che mirino a raggiungere la parità. Per la prima volta il Parlamento Europeo adotta un testo in cui si riconosce esplicitamente l’importanza di pensare a misure e strategie per affrontare la discriminazione subita dalle sex worker nell’accesso a finanziamenti, all’alloggio, all’assistenza sanitaria, all’istruzione e ai servizi.
Tale documento arriva dopo che la pandemia da Covid-19 ha esacerbato e portato alla luce le già precarie condizioni di chi svolge lavoro sessuale nel mondo: si è infatti assistito a un grave peggioramento dell’emarginazione, della stigmatizzazione e della precarietà socioeconomica delle sex worker soprattutto in quei Paesi dove il lavoro sessuale non viene riconosciuto come tale ma è invece criminalizzato.
Il Parlamento Europeo ha sollecitato la Commissione a stabilire un quadro concreto per i diritti e la protezione delle sexworker durante e dopo la crisi da Covid-19, riconoscendo l’impatto che ha avuto sulle loro condizioni di vita, con un aumento del rischio di povertà e una grave violazione dei diritti umani.
L’International Commettee on the rights of sexworker (ICRSE) ha accolto positivamente tale Risoluzione, dichiarando che a livello europeo siamo di fronte a un passo importante nell’ambito del riconoscimento dei diritti delle lavoratrici del sesso e ricordando la necessità di includere le sex worker e le loro organizzazioni in qualsiasi processo decisionale e legislativo che verrà attivato in tal senso. Potremmo essere di fronte a una raccomandazione che solleciti gli Stati ad agire politicamente al di fuori di una visione puramente emergenziale, cioè limitata al contenimento della crisi sociale aggravata dalla pandemia.
Alle soluzioni emergenziali, di fatto, ci avevano già pensato le numerose associazioni e collettivi guidatə da sexworker e alleatə che, nel corso del 2020, hanno organizzato le raccolte fondi essenziali per il sostentamento di migliaia di lavoratorə del sesso impossibilitatə a lavorare e completamente esclusə dai sussidi statali. Ma tutto ciò non può e non deve bastare, perché il problema del sex work non è il Covid, ma lo stigma.
La stessa Risoluzione europea d’altronde mantiene un’ambiguità di fondo, dal momento che contiene alcuni paragrafi in cui il lavoro sessuale viene ancora associato alla tratta. Continuare ad associare sex work e sfruttamento non può definirsi una strategia per raggiungere la parità di genere, perché considerare le sex worker come vittime inconsapevoli significa negare il loro agire, la loro autodeterminazione e il diritto delle donne alla libera scelta. Pensare che una donna non possieda la facoltà e la libertà di scegliere, di rivendicare e risignificare la propria attività di sex worker – come qualsiasi altro lavoro – è violenza. Non riconoscere tutto ciò, significa agire una discriminazione basata sul genere, un atteggiamento tipicamente patriarcale.
Inoltre, come dichiarato dal report finale del progetto di ricerca quinquennale SEXHUM, chiamare vittima dello sfruttamento della prostituzione chi non lo è impedisce di riconoscere, ascoltare e accogliere i veri bisogni di chi fa lavoro sessuale:
“La fusione del lavoro sessuale con la tratta e lo sfruttamento ha pericolose conseguenze nella vita reale per le lavoratrici del sesso, in particolare per le sex worker migranti. Questa definizione non riesce ad affrontare la diversità delle pratiche lavorative di sfruttamento che si verificano nell’industria del sesso. Contribuisce anche alla negazione dell’agency delle lavoratrici del sesso, all’esacerbazione delle vulnerabilità e all’emarginazione e alla stigmatizzazione che portano alla criminalizzazione, detenzione e deportazione delle sex worker migranti a livello globale”
Una certa retorica è tipica dei Paesi in cui il lavoro sessuale viene criminalizzato tout-court, perché considerato una minaccia su diversi aspetti. Se negli Stati che hanno adottato il modello nordico di criminalizzazione del cliente, la prostituzione è considerata una minaccia alla parità di genere, in Italia prostituirsi viene da sempre considerato un reato contro la morale, un danno alla salute pubblica, fonte di degrado urbano, fattore di rischio per la sicurezza stradale e fenomeno connesso alla criminalità. Queste sono le motivazioni che si trovano nelle ordinanze sindacali emesse contro la prostituzione su strada. In Italia, infatti, la prostituzione a livello statale è tecnicamente lecita ma a livello comunale viene criminalizzata tramite lo strumento amministrativo dell’ordinanza di chi svolge il ruolo di sindaco. Lo Stato ha di fatto delegato la gestione punitiva della prostituzione ai Comuni, che colpiscono clienti e sex worker con multe che raggiungono anche le migliaia di euro.
A seguito del primo lockdown, diverse sex worker hanno tentato di tornare al lavoro, dopo essere state totalmente escluse dalle politiche di sostegno statale per fronteggiare la crisi pandemica. In tutta risposta, molti Comuni hanno prorogato e inasprito le ordinanze locali contro il sex work correlandole all’emergenza del coronavirus, in una logica di “prevenzione, presidio e controllo legate alla pandemia”, come dichiarato dall’assessore Jamil Sadegholvaad del Comune di Rimini. Tutto ciò ha peggiorato ulteriormente le condizioni di vita delle lavoratrici del sesso. Ben presto si è trattato di scegliere fra il precipitare nella povertà più assoluta o mettere a rischio la propria salute, come denunciato da Sexworker’s rights advocacy network e ICRSE nel loro report di valutazione dell’impatto della pandemia sull’accesso alla salute deə sex worker:
“La perdita di reddito e la povertà spingono le lavoratrici del sesso a continuare a lavorare durante la pandemia e aumenta i rischi di infezione da COVID-19. Dover scegliere tra povertà e lavorare nella paura della polizia per aver infranto le regole di blocco, oltre alla paura del virus, causa in aggiunta enormi disagi mentali e problemi di salute psicofisica”
Come testimoniato dal Report, gli unici che si sono fatti avanti in questa situazione di crisi sono stati i gruppi guidati dalla comunità di sex worker e alleatə della società civile, che si sono organizzatə per acquistare e distribuire i dispositivi di protezione individuale (mascherine, guanti, disinfettanti, oltre che preservativi e lubrificanti) e hanno autoprodotto guide per permettere alle lavoratrici di iniziare a lavorare in sicurezza, tutelando se stesse, ə clienti e la comunità intera sia dal virus che dalle malattie sessualmente trasmissibili.
Jenn Clamen, coordinatrice nazionale della Canadian Alliance for Sex Work Law Reform, durante le proteste per chiedere al Governo canadese una moratoria contro l’inasprimento delle leggi anti prostituzione durante la pandemia, ha dichiarato:
“Poiché il lavoro sessuale non è riconosciuto come lavoro, gli standard di lavoro e i protocolli che altre industrie stanno ricevendo in questo momento non sono disponibili per l’industria del sesso. Le aziende che impiegano prostitute operano spesso nell’ombra, quindi quando riaprono non hanno modo di formalizzare e coordinare i protocolli di sicurezza o di accedere ai supporti per i dispositivi di protezione individuale, che sono disponibili per altre industrie”
La responsabilità di proteggersi singolarmente e quella di proteggere la propria comunità deve per forza essere una responsabilità condivisa con lo Stato, se questo è realmente interessato alla tutela della salute pubblica, perché, come sottolinea Elene Lam, co-fondatrice di Butterfly (Asian and Migrant Sex Workers Support Network) nel suo master di ricerca “Pandemic sex workers’ resilience”:
“La capacità delle lavoratrici del sesso di proteggersi dipende dal loro ambiente di lavoro, dalla disponibilità di sostegno comunitario, dall’accesso ai servizi sanitari e sociali e da aspetti più ampi del diritto e l’ambiente economico […] Oltre agli sforzi delle comunità, sono necessari cambiamenti sociali e politici a lungo termine per creare una società equa. Ciò include la depenalizzazione del lavoro sessuale, l’eliminazione del razzismo e della xenofobia; reddito, assistenza sanitaria e status di cittadinanza per tuttə. Questi cambiamenti garantiranno che nessuno venga lasciato indietro mentre si lotta contro una crisi di portata globale”.
Molti Stati di fatto non stanno garantendo l’accesso libero e sicuro ai servizi sanitari a chi fa sex work, causando una forte discriminazione sia a chi ha la cittadinanza sia alle persone straniere, le quali, poiché svolgono un lavoro criminalizzato vivono sotto la costante minaccia dello stigma e della deportazione. È quindi auspicabile che gli Stati applichino la Risoluzione orientandosi verso la depenalizzazione, ascoltando cioè quello che da anni chiedono le associazioni e i collettivi di sex worker nel mondo e come verificato empiricamente dalle preziose ricerche sul campo di SexHum:
“L’impatto del Coronavirus nel mercato del sesso ha evidenziato la differenza positiva apportata dalla depenalizzazione, che ha rafforzato il diritto alla protezione sociale a disposizione dei diversi strati della popolazione attiva nel sesso”
Ignorare tutto ciò e continuare ad accanirsi contro ə sexworker tramite norme punitive significa favorire le diseguaglianze di genere, le discriminazioni razziste, la criminalità organizzata, la diffusione del virus, la crisi sanitaria e ingrossare le già ampie sacche di povertà. Gli Stati dovrebbero cominciare a pensarci seriamente e, se la tutela dei diritti umani non dovesse essere una motivazione sufficiente per depenalizzare il lavoro sessuale, allora basti pensare allo spreco di soldi che comporta per il bilancio statale la criminalizzazione in termini di aumento della criminalità organizzata, di collasso del sistema sanitario nazionale e il carico pendente sui servizi socioassistenziali di una povertà sempre più alta. Risorse che invece potrebbero essere investite per costruire un welfare decisamente più equo e inclusivo.