La lotta per la vita delle donne produttrici di abaca di Furukawa
Vi sono luoghi, in Ecuador, che non sembrano reali, mondi invisibili, emarginati, esiliati e privati delle uniche cose che restano: il tempo e la vita. Nella provincia di Santo Domingo de los Tsáchilas, dal chilometro 30 al 40 della strada che si dirige verso la città di Quevedo, e nelle province di Esmeraldas e Los Ríos, si trovano centinaia di piantagioni di abaca di proprietà dell’impresa giapponese Furukawa Plantaciones C.A del Ecuador. Gli alberi di abaca vengono utilizzati dalla società per produrre una fibra che viene successivamente venduta ed esportata in altri Paesi per essere trasformata in vari prodotti, tra cui la cartamoneta. Secondo i dati della Defensoría del Pueblo del Ecuador (organo di difesa dei diritti umani), il valore complessivo dei terreni ammonta a 7.106.797,11 $, mentre il valore delle piante agricole raggiunge i 1.505.435,15 $, a loro volta facenti parte di un totale di attivi pari a 12.372.571,00 $, escludendo da tali valori le passività.
Le piantagioni di abaca si trovano in tenute molto distanti dalle città costiere più importanti dell’Ecuador e delle strade principali. Al loro interno si trovano accampamenti in cui inaspettatamente sopravvivono famiglie di lavoratori e lavoratrici dell’impresa Furukawa. Queste persone non hanno sottoscritto nessun contratto lavorativo con l’azienda, pertanto i locali tugurizzati (ridotti alla stregua di tuguri, NdT) in cui abitano sono stati concessi in affitto a una persona con lo status di affittuario e costui, a sua volta, le ha subaffittate ai lavoratori e lavoratrici affinché producano la fibra di abaca, attività consistente in: raccogliere gli arbusti, privarli del materiale fibroso utile scorticandoli con un machete, essiccare e introdurre tale materiale nei macchinari per trasformarlo in fibra, dopodiché stendere la fibra separatamente affinché si asciughi e possa quindi essere trattata; infine la fibra viene trasportata da un mulo verso la strada per poi essere trasferita e venduta. Tutti questi passaggi vengono realizzati da donne, uomini, bambini e bambine che vivono negli accampamenti tugurizzati collocati all’interno delle piantagioni.
In questo mondo di produzione e di habitat tugurizzati dall’abaca, in cui Furukawa sfrutta e schiavizza, vi sono storie da narrare e vite di donne da legittimare.
Le donne, nell’universo dell’abaca, non ricordano il giorno, il mese o l’anno nel quale si trovano, e la suddivisione della giornata nei momenti del riposo, della sveglia, del lavoro e del divertimento, così come del mangiare, giocare, godersi la vita e studiare, qui non esiste. Il “lavoro” rappresenta e permea la loro quotidianità. In questo mondo, le donne sono le protagoniste e il tempo non esiste, il tempo è assente poiché il corpo si irrigidisce e vive in funzione del lavoro.
Un’operaia mi chiede “Che giorno è oggi, signorina?”. È l’otto marzo, le rispondo; con uno sguardo sconcertato, alza gli occhi al cielo come se non volesse più vedere quella distesa totalizzante di abaca che si apre davanti a lei.
La giornata di oggi, al trentesimo chilometro da Quevedo, è la stessa di ieri: è mattina perché sorge il sole, e le donne escono immediatamente a lavorare. È notte perché il cielo si è fatto scuro e non è più possibile stendere la fibra o scorticare gli arbusti a causa della scarsa luminosità, così comincia la camminata, spesso di svariati chilometri, verso l’accampamento dove si trova la loro stanza. “Dobbiamo usare delle candele per mangiare, se ce ne sono”, spiega un’operaia di Furukawa.
Sapere, ma non conoscere né percepire il tempo, significa, per queste donne produttrici, che la vita non è scindibile da questi alberi di abaca che crescono come una piaga: è ciò che permette loro di portare il pane in tavola ogni giorno, ciò che consente loro di sopravvivere. Questo tipo di sfruttamento impedisce loro di vivere qualunque altra situazione che non sia quella lavorativa e giustifica così il fatto che tutti i giorni gli operai debbano esaurire completamente le proprie energie in questo processo di sfruttamento il cui unico beneficiario è Furukawa.
Il lavoro delle donne non si riduce solamente alla produzione della fibra di abaca: il loro tempo viene impiegato simultaneamente nello svolgimento di molteplici attività di cura e sopravvivenza. “Mentre stendo la fibra di abaca, allatto mio figlio e al contempo corro a verificare la cottura del riso”, commenta una donna operaia di Furukawa di 32 anni. Mentre scorticano gli arbusti, stendono e stirano la fibra, si prendono cura dei figli e delle figlie, evitando che si facciano del male con le foglie, che vengano morsi da qualche biscia o che si avvicinino ai macchinari rischiando di rimanere coinvolti in qualche incidente. Le operaie sono inoltre state convinte del fatto che, oltre a stendere le fibre, devono, con le poche forze residue, cucinare, lavare e preoccuparsi di mantenere la minima stabilità emotiva di tutt*, cercando di far sì che il poco denaro guadagnato sia sufficiente a garantire il benessere della famiglia.
Lo spazio dello sfruttamento è proprio lì, tra le mura di casa: è sufficiente aprire quella porticina di legno per trovarsi davanti a una distesa di piantagioni, dove il tempo e lo spazio sono inscindibili, e non vi è separazione tra la stanza, l’abaca e lo sfruttamento, né tra il pozzo dell’acqua e l’abaca, l’ingresso terroso alla stanza e l’abaca, il campo da calcio con i pali di abaca. Non vi sono bagni, bensì gli spazi vuoti lasciati dalle piantagioni. Ci sono solo il cielo e le centinaia di chilometri di piantagioni di abaca.
Le vite di queste donne non si separano né in tempi né in spazi distinti, i luoghi sono gli stessi di ieri, gli spazi dove vivono sono stanze strette prive di ventilazione con temperature comprese tra i 30 e i 35 gradi, senza acqua, senza luce, senza cibo né nulla che permetta di percepire lo scorrere delle giornate o che consenta di distinguerle l’una dall’altra. Per molte di loro non cambia nulla, che sia l’otto marzo o il 25 novembre, poiché la loro esperienza di vita è inamovibile, e si concentrano quasi totalmente sullo sviluppo di attività di sopravvivenza.
Nemmeno il fine settimana esiste: non c’è differenza tra venerdì, sabato o domenica, si lavora tutti i giorni e si svolgono le stesse attività di giorno e di notte. Non vi sono altri spazi come scuole, parchi, piazze, strade o negozi. L’habitat di donne, uomini, bambini e bambine è quello delle piantagioni, vivono in condizioni precarie e assolutamente insalubri.
“Qui partoriamo tutte in casa nostra e lavoriamo tutte con il pancione, fino al giorno del parto siamo costrette a stendere la fibra di abaca. A un certo punto cominciamo a sentire dolore, si rompono le acque… Andiamo nella nostra stanza e lì nasce nostro figlio”, spiega un’operaia di Furukawa di 29 anni. In generale, sappiamo che il corpo si fa notare o ci avvisa della sua esistenza quando proviamo dolore o piacere, tuttavia, nei casi di sfruttamento come questo, le donne lo percepiscono in ogni sacrificio e dispendio energetico. Il corpo, in questa modalità di sfruttamento senza riposo alcuno, non è forza lavoro, bensì un mezzo di produzione. Non vi è separazione tra il macchinario, i machete, la struttura su cui stendere le fibre, la piantagione di abaca, eccetera, e i corpi, le energie, il tempo e la vitalità di donne, uomini, bambine e bambini: tutti loro vengono trattati come macchine programmate per lo sfruttamento e la schiavitù moderna.
“Sono stata operata alla vescica, mi hanno dato 15 giorni di degenza, e quando sono arrivata nella mia stanza, con mio marito e i miei figli, il mio capo mi ha detto che non potevo smettere di stendere perché la fibra si sarebbe danneggiata. Il terzo giorno mi sono dovuta alzare e sono dovuta andare a lavorare con l’aiuto dei miei figli, mi si è gonfiata, sono stata nuovamente operata e poi di nuovo a lavorare, e adesso guarda con che rigonfiamento mi ritrovo, sembro incinta, ho un’ernia, e mi hanno detto che non posso più essere operata…”, afferma una donna di 42 anni che lavora per Furukawa.
La salute e la vitalità sono messe ora dopo ora al servizio dei proprietari, in caso contrario, Furukawa non liquida loro quei miseri 150, 200 o 240 $ al mese che possono arrivare a guadagnare per le più di 12 ore di lavoro giornaliere, senza riposo nei fine settimana, né permesso alcuno. Se gli uomini e le donne non lavorassero ora dopo ora, corpo dopo corpo, semplicemente non mangerebbero e non avrebbero quel tetto sopra la testa. Per tutte queste ragioni, in questo mondo, sentire il proprio corpo è un privilegio, è una dimensione non considerata per via del rischio che implica, non vi è possibilità né permesso di ammalarsi o riposare durante la gravidanza.
I corpi sfruttati non possono sentire piacere, poiché questo implica emancipazione e questo, agli sfruttatori, non sta bene. Ancor meno viene permesso alle donne di occuparsi del proprio ciclo mestruale: molte di loro devono sopportare le coliche e l’infiammazione finché non passano da sole. Inoltre, i prodotti sanitari non sono comuni per le donne adolescenti e adulte, come indica una donna di 29 anni che lavora per la società, che ha aggiunto che “non abbiamo nemmeno modo di acquistare un assorbente, e se lo compriamo significa che non potremo permetterci di comprare il riso e che dovremo camminare per ore per uscire (dalla piantagione) e che qualcuno dovrà portarci al villaggio”.
Le donne qui, come in altri spazi di sfruttamento patriarcale, vengono trattate come macchine da riproduzione di bambini e bambine che in futuro faranno parte dello stesso sistema di sfruttamento. Le donne danno alla luce tra i due e i quattro figli; tra questi, alcuni arrivano a mala pena a dieci anni di età che già devono cominciare ad aiutare nello svolgimento di alcuni compiti relativi alla coltivazione dell’abaca. Molti tra questi bambini e bambine non sanno cosa sia la scuola, né altri luoghi che non siano la piantagione: nascono e crescono in queste condizioni di sfruttamento e schiavitù e appartengono alle piantagioni di Furukawa.
Molti bambini e bambine nati lì non sanno leggere, scrivere, giocare, se non con le foglie stesse di abaca, e se giocano lo fanno con quella materia prima, corrono e tornano indietro, non c’è altro da fare, solo l’abaca che inonda chilometri e chilometri di terreno. In questo mondo non esiste alcuna dimensione commisurata all’età o alla convivenza come l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta, qui non esiste tempo né spazio per discernere queste diverse forme di coesistenza.
Gli schiavisti hanno generato come “buoni strateghi della privazione del possesso della vita”, la dipendenza degli operai e delle operaie, dei bambini e delle bambine, li hanno analfabetizzati, hanno fatto credere loro che la loro unica funzione è quella di tagliare, scorticare, stendere la fibra di abaca. Questi “maledetti di Furukawa”, come li definisce una delle donne che ha lavorato per Furukawa per anni, sono riusciti a specializzare, per più di 60 anni, i corpi di donne, uomini e bambini nel compito di produrre la fibra di abaca, fino a mutilarsi e perfino morire per questo lavoro, poiché questa è l’unica cosa che queste persone hanno fatto per tutta la vita ed è l’unica cosa che è stato permesso loro di fare.
Il processo di privazione della vita è stato tale per cui a volte per gli operai e le operaie nemmeno la fame o la sete sono più una necessità, bensì un martirio poiché per avere acqua e cibo sia la donne che gli uomini, sia i bambini che le bambine, devono dare fondo alle proprie energie ogni giorno per sopravvivere il giorno successivo; morire di fame, di sete, di caldo, di punture di zanzara, di morsi di serpi; sopportare il soffocamento nelle piantagioni, tagliare, scorticare e stendere, lavorare a macchina, estrarre la fibra.
Il corpo è martirizzato quando chiede “acqua e cibo”, come indica un’operaia di Furukawa di 42 anni: “Io faccio il possibile per evitare la sete e la fame, ma i miei figli devono mangiare almeno qualcosa”. Per gestire la sete, ad esempio, bevono l’acqua del fiume contaminato e sporco che scorre tra le piantagioni, per la fame cucinano la banana, a volte con qualche ovetto, o altro cibo che trovano, pescano o che possono permettersi di comprare, per il quale occorre raggiungere la strada, camminando due o tre ore e sperando che qualcuno dia loro un passaggio a uno dei villaggi più vicini.
Menomale che in questo mondo esistono le donne, e lo dico piena di preoccupazione e dolore. In quel luogo, in quella miseria, esse smettono di provare la sete per dare quel poco d’acqua rimasto in fondo al pozzo ai figli, alle figlie e ai mariti, quelli che fanno il lavoro più pericoloso che consiste nello scorticare e processare le fibre con i macchinari”. Esse stendono la fibra e a volte scorticano gli arbusti con un machete, prestano assistenza e servizio, ma svolgono anche “il lavoro più duro”: le donne affrontano in silenzio i loro dolori mestruali, i loro dolori uterini, i dolori del parto, delle vesciche, delle braccia, delle gambe. Molte di loro dicono di mangiare poco perché il cibo duri, e al tempo stesso abbracciano, sorridono e allattano, fanno il possibile perché la vita vada avanti, per quanto dolorosa possa essere.
Queste donne sostenitrici della vita hanno il desiderio che domani qualcosa possa cambiare, e che lo Stato dell’Ecuador sanzioni quest’impresa schiavista, e che i diritti umani e lavorativi così violati possano essere ripristinati; che venga loro restituito un minimo di dignità garantendo assicurazione medica, abitazioni dignitose con acqua e luce e ciò di cui tutti loro hanno bisogno per vivere e lavorare. Le donne richiedono ed esigono un luogo di assistenza per il momento del parto finora gestito in modo disumano, per gli aborti involontari causati dall’eccessiva mole di lavoro e dalle malattie trascurate, per i dolori sopportati in silenzio, per i tumori non operati; esigono che i loro mariti e gli uomini della famiglia possano usufruire di assistenza per le mutilazioni subite, gli incidenti che li hanno lasciati invalidi; per i mariti defunti nelle piantagioni, esigono che venga loro restituita una parte della vita persa, del tempo investito e delle energie esaurite.
“Non staremo zitte fino a che non ci verrà restituito tutto ciò che l’azienda ci ha rubato, qui abbiamo lasciato la nostra vita, ho lavorato qui per tutta la vita e nessuno potrà mai pagare per questo”, commenta una donna di 52 anni, operaia di Furakawa.
Qui, in questo mondo, le donne alzano la testa in maniera inaspettata. Sanno che stanno perdendo la propria vita e quella della propria famiglia, per questo non si fermeranno finché non avranno ottenuto giustizia e risarcimenti. Sebbene non vi sia tempo per fermarsi e per quanto questo non faccia parte delle loro possibilità, hanno deciso di alzare la voce, insorgere con il proprio corpo e investire il proprio tempo per lottare, reclamare ed esigere dignità”.
Alla caparbietà di molte donne nel lottare per una vita dignitosa, dedicato alle donne sfruttate e schiavizzate da Furukawa.
Fonte
Magazine: La Periodica
Articolo: En un mundo invisible y un tiempo inmóvil
Autrice: Ximena Cabrera
Data: 2 aprile 2019
Traduzione a cura di: Elisa Sanguineti
Immagine di copertina: Edu León