Articolo di Chiara Meloni
Negli anni Novanta il movimento riot grrrl è stato fondamentale per la terza ondata femminista e per la storia della musica. Quasi tutte provenienti (tranne qualche eccezione) da Olympia, Seattle e in generale dallo Stato di Washington, le musiciste e attiviste appartenenti al movimento riot grrrl trattavano temi come lo stupro, la violenza domestica, il sessismo, la rape culture, la condizione femminile e i diritti civili con autoproduzioni musicali, artistiche, fanzine e con l’azione politica. A dare il nome al movimento è la fanzine riot grrrl, creata da Molly Neuman, batterista del gruppo Bratmobile, insieme a Tobi Veil e Kathleen Hanna delle Bikini Kill.
Le Bikini Kill sono indubbiamente il gruppo più rappresentativo di tutto ciò che il riot grrrl movement ha rappresentato e rappresenta ancora oggi, e Kathleen Hanna, che dopo lo scioglimento della band ha continuato a portare avanti il suo attivismo e la sua carriera musicale prima come solista e poi con band come Le Tigre e The Julie Ruin, ha scritto testi potentissimi che risuonano ancora nelle nostre teste anche dopo parecchi decenni e che sono ancora estremamente significativi e rilevanti. Quando si è diffusa la notizia che il reunion tour delle Bikini Kill avrebbe toccato anche l’Italia, ho pensato che il 2020 sarebbe stato decisamente il mio anno; poi mi è stato chiesto di intervistare Kathleen Hanna per Bossy e me ne sono convinta definitivamente. Questo prima di entrare nel panico: che domande fare a una donna che ha fatto la storia del femminismo della terza ondata e della scena punk degli anni Novanta, che ha dato vita al movimento riot grrrl, che ha creato i pezzi più iconici della mia adolescenza e fondato tre delle mie band preferite? E se le mie domande poi sono banali? E se non le piaccio? Insomma, modalità “fangirl” attivata.
Mi sono bastati pochi secondi di telefonata per rilassarmi e capire che le mie paure erano immotivate: Kathleen Hanna non è solo una persona estremamente simpatica, con una risata contagiosa e che sa metterti subito a tuo agio, ma non riuscirebbe mai a dare una risposta banale neanche alla più noiosa delle domande e in una ventina di minuti mi ha davvero folgorata con la sua intelligenza.
Chiara: La mia prima domanda è probabilmente un po’ noiosa…
Kathleen Hanna: Spara!
C.: Come ci si sente a essere tornate insieme?
K.: Mmm… È spaventoso (ride, NdR). Se vuoi sapere come ci si sente ora, visto che stiamo per andare in tour e sono mesi che non facciamo un concerto, sono terrorizzata. Ho paura di non cantare bene come vorrei e cose del genere, ma sono cose normali che ti succedono quando hai una band e prendi una pausa; devi perdere un po’ di fiducia in te stessa per poi recuperarla. Ma quando eravamo in tour era fantastico! So che dal di fuori tutti pensano “Oh, gli anni Novanta: quello era il tempo delle Bikini Kill, quando erano al loro meglio e bla bla bla”. Sono liberi di pensarlo e capisco perché lo facciano, perché era qualcosa di nuovo e noi eravamo giovani eccetera, ma per me il 2020 è il nostro momento più di quanto lo sia mai stato il 1992.
C.: Si, sono d’accordo e hai praticamente anticipato la mia prossima domanda. Di solito le reunion sono un’operazione nostalgica, ma la vostra musica e il vostro messaggio è particolarmente rilevante e soprattutto necessario nell’attuale clima politico e sociale. Penso che le persone siano più pronte ora per le Bikini Kill di quanto lo fossero negli anni Novanta. Sei d’accordo?
K.: Sì, e nessuno mi tira delle catene in testa mentre canto (ride, NdR)! Insomma, è anche meno pericoloso! Immagina quanto sia meglio: ora abbiamo anche una tecnica del suono, una donna. Non c’è più un uomo che mi minaccia, dicendo: “Ti darò la scossa al microfono per tutto il tempo che canterai”. Abbiamo persone che lavorano con noi, abbiamo un tour manager e non avevamo mai avuto cose del genere. Tutto questo ci rende più facile concentrarci sul fare il miglior show possibile, quello che abbiamo sempre voluto fare: fare musica e mettere su dei grandi show e scrivere di cose che ci stanno a cuore. Insomma, tanto quello che riguarda il femminismo e il movimento riot grrrl e bla bla bla, mi importa anche di questo: sono una musicista adesso e voglio cantare questi pezzi che sento davvero tanto, per persone che li apprezzeranno o li odieranno o diranno che facciamo schifo e andranno a casa a fondare le loro band. Io voglio solo suonare e queste canzoni, quando le canto, le sento ancora di più nel profondo delle viscere adesso, ogni singola parola; ed è passato abbastanza tempo per cui non è una cosa ripetitiva, perché non ho più ascoltato o cantato le nostre canzoni negli ultimi vent’anni. Strano ma vero: poco tempo prima che decidessimo di riunirci, avevo ricominciato a canticchiarle in macchina per la frustrazione data dalla situazione politica contemporanea e per me era come una terapia; quindi, quando si è presentata l’occasione di tornare a esibirci, ho detto: “Mi state dicendo che potrò farlo anche davanti a un pubblico e non solo in macchina? E indossando anche dei costumi di scena?” (ride, NdR).
C.: Fantastico! C’è un pezzo che senti particolarmente rilevante oggi?
K.: Ne parlavo prima con un altro intervistatore. Pensavo a “Resist Psychic Death”, ma anche “Don’t need you”, e in parte la ragione è che ora ci sentiamo molto più accolte dal pubblico di quanto lo fossimo agli inizi, quindi quando la canto è come se la cantassi agli ultimi vent’anni, come se la cantassi a tutta la merda che ho dovuto subire in tutte le band in cui sono stata, a tutti i rapporti con gli uomini che mi hanno fatta sentire come se non fossi importante. Inoltre io sono sposata con una persona molto famosa (Adam Horovitz dei Beastie Boys, NdR) e molto spesso succede che alle feste le persone si avvicinino per parlargli e si comportino come se io non ci fossi, e ovviamente non sanno che anche io sono una musicista e abbia delle band e dicono cose come: “Oh, pensavo che fossi solo sua moglie, è così strano che anche tu sia in una band, vai così ragazza!”.
C.: E anche se sapessero che hai una band, quando si parla di musiciste spesso si parla più della loro vita privata che della loro musica.
K.: Esattamente, esattamente. Insomma, io sono stata abbastanza fortunata perché non mi è successo e, se ci hanno provato, ho fatto presente che non ne volevo parlare, ma parlo di mio marito perché fa parte della mia vita e mi fa capire la differenza che c’è tra l’esperienza di Adam e la mia: sono proprio due mondi a parte, come se le nostre vite musicali non fossero affatto connesse e fossero lontanissime tra di loro.
C.: Negli anni Novanta le Bikini Kill hanno fatto conoscere il femminismo a molte giovani donne, me compresa. Pensi che possiate fare lo stesso ora o credi che le nuove generazioni siano già informate sul femminismo e che la vostra musica possa dare loro qualcosa in cui riconoscersi, delle canzoni da lotta?
K.: Non ho idea di quale sia esattamente la composizione del pubblico, se siano tutti interessati al femminismo, se abbiano letto qualcosa a riguardo o meno, ma ho notato che – a differenza di quel che pensavo – ai concerti non c’erano solo persone della nostra solita fascia di età, quindi i quarantenni, ma c’erano anche tantissime persone giovanissime, quindicenni.
C.: Sì! Io sono molto felice che le ragazzine dell’età di mia nipote sappiano chi sono le Bikini Kill, perché mi fanno sempre sentire vecchia e invece posso dire “No, guardate, ascolto delle cose fighe”.
K.: (Ride, NdR) Mi sento anche io così. Le persone che ci venivano a vedere negli anni Novanta portano i loro figli e, insomma, credo che alcuni siano un po’ troppo giovani, ma le ragazzine di tredici anni sanno sicuramente il fatto loro. Vivono sulla loro pelle le stesse identiche cose che abbiamo vissuto noi; non so se stiamo dando loro canzoni da combattimento, ma recentemente mi ha scritto una donna giovane che è stata stuprata e ha denunciato, e mi ha scritto che durante il processo aveva in testa le nostre canzoni per tenersi calma. Questo è il genere di cose che mi fa dire: “Ho fatto il mio lavoro, ne è valsa la pena se sono stata anche una piccola parte di ciò che l’ha fatta andare avanti”. Vorrei solo non ce ne fosse bisogno, arrivare a un punto in cui lo stupro non esiste più, ma siamo ancora molto lontani da questo. Ma, ecco, spero che le donne usino i nostri testi e li usino in modi che hanno un significato per loro, un’utilità, oppure anche che pensino che sono stupidi e diano loro l’ispirazione per scriverne di migliori.
C.: I tuoi testi parlavano di mansplaining, rape culture e dell’essere una donna in un ambiente dominato dagli uomini molto prima che questi argomenti fossero degli hashtag popolari. Cosa pensi del fatto che ora il femminismo sia mainstream e che venga mercificato dai brand e dai media?
K.: Penso che in ogni movimento avverrà sempre la mercificazione e non c’è nulla che possiamo fare per impedirlo, quindi se stiamo seduti a lamentarcene e a impazzire dietro questa cosa allora le vere conversazioni importanti che dovremmo avere, quelle sul razzismo e sul classismo, non avranno luogo. Non possiamo stare qui a indignarci perché Tiger o altri negozi mainstream vendono magliette con scritto “Girl Power”: non sono queste le cose per le quali dobbiamo protestare. Dobbiamo fare in modo che le persone trans abbiano pieni diritti di fronte alla legge, dobbiamo fare in modo che l’aborto sia legale e gratuito per ogni singola donna, dobbiamo cambiare la situazione delle assicurazioni sanitarie in modo che nessuno muoia di malattie che sono curabili. Quindi non me ne frega un cazzo delle magliette “Girl power” vendute su Internet o della cultura del “diventiamo più aziendali”, non mi interessa. Quello che mi interessa è che ora il femminismo sia nella testa delle persone, che la gente ne parli, che le donne e gli uomini stiano riscoprendo la storia del femminismo e dei movimenti per i diritti civili in generale, del movimento per il black power negli Stati Uniti e di tutti i movimenti rivoluzionari nel mondo. Le persone stanno imparando e cercando di applicare gli insegnamenti, i successi e gli insuccessi di quei movimenti alla situazione attuale, ed è questo l’importante per me. Il fatto che ora il femminismo sia mainstream è meraviglioso, è una celebrazione per quanto mi riguarda.
Negli anni Settanta avevamo “I am a woman hear me roar”: era una canzone famosissima di una cantante canadese, un enorme successo in America e a quell’epoca non avevamo nessuna donna nel mainstream che cantasse di come il suo genere di appartenenza la condizionasse. Ora abbiamo Beyoncé che canta “If I were a boy” e io non ci vedo assolutamente nulla di male. Ovviamente a volte sento delle ballate pop un po’ troppo stucchevoli del tipo “Oh, guardate come sono forte”, ma questo mi fa venire in mente il fatto che io sia cresciuta in una generazione alla quale è stato detto “Voi potete fare tutto quello che volete, diventare tutto quello che volete, essere presidenti, essere belle e sexy e guidare una multinazionale, essere dei dottori”, ed erano solo stronzate. Puoi riuscire a fare tutte queste cose solo se sei disposto a sorbirti un’indicibile montagna di merda, a fare una tonnellata di pompini emotivi, e penso che queste siano le cose di cui dobbiamo parlare. Che messaggio stiamo dando ai giovani? Dobbiamo essere onesti e parlare di come il razzismo e il sessismo condizionino le tue possibilità. Invece di dire “Puoi fare qualsiasi cosa se lo vuoi” dovremmo dire “Sarà dura ed ecco dei modi per affrontare il fatto che per te sarà più dura farcela che per gli altri”. Questo è quello che vorrei succedesse anziché sentire che tutto è possibile, perché io me la sono bevuta e non era affatto vero.
C.: Specialmente se non ti puoi permettere un corso da 500 dollari sull’empowerment femminile!
K.: E sì, bella merda.
C.: Ok, credo questa sarà la mia ultima domanda. Quando si tratta di attivismo, stiamo tutti imparando: nessuno di noi è perfetto e cerchiamo di prenderci le responsabilità dei nostri errori. Essendo tu un’attivista, come tutte le altre musiciste della band, c’è qualcosa che faresti diversamente se potessi tornare indietro?
K.: Sì, sceglierei le mie battaglie. Una volta ho avuto una questione personale con una persona, un ragazzo che pensavo avesse fatto dei commenti omofobi nei confronti di un’amica e, mentre suonavamo con le Bikini Kill a una festa nella cantina di un’amica, io ho detto il suo nome al microfono accusandolo di essere omofobo davanti a tutti, umiliandolo e mettendolo in imbarazzo. Il mio gesto non ha fatto nulla per aiutare la comunità lesbica della mia città: tutto quello che ho fatto è umiliare e mettere in imbarazzo una persona ed è stato un gesto stupido. Ho usato quel briciolo di potere che avevo in un modo totalmente sbagliato, utilizzandolo per una questione personale (anche se riguardava qualcosa di politico come l’omofobia, era comunque una questione personale in cui non avevo diritto di immischiarmi).
Spesso vedo accadere questa cosa, le persone che confondono la gelosia, la rabbia e le vendette personali contro qualcuno con una questione politica, ma spesso non lo è o è solo una piccola parte della questione; e io ho fatto spesso questo errore – non spessissimo, ma questo è un esempio lampante. Dopo che le Bikini Kill si sono riunite, sono tornata di nuovo a Olympia e ho incontrato quel ragazzo e mi sono scusata, lui ha accettato le scuse ed è stato molto bello. A volte quando siamo giovani lanciamo le molotov alle finestre sbagliate e dobbiamo capire chi ha veramente il potere. Il problema è la persona che gestisce o che lavora nel negozio di dischi perché gli piace della musica che è problematica o il problema è che le donne trans vengono continuamente uccise? Dove vogliamo focalizzare la nostra attenzione? Ho imparato a concentrarmi sulle cose che hanno davvero un impatto sulle vite delle persone anziché mettersi al centro dell’attenzione e umiliare qualcuno perché è più facile.
C.: Sono d’accordo. Inoltre, quando siamo alleati di una comunità marginalizzata, è nostro dovere stare calmi perché quella situazione non ci tocca direttamente e, anziché arrabbiarci con chi è razzista, omofobo o altro, cercare di essere quelli che spiegano, di essere più utili che aggressivi.
K.: Sì, ottima osservazione.
C.: Ok, ho un’ultima domanda, anche questa un po’ noiosa…
K.: Hai detto una bugia, avevi detto che quella di prima era l’ultima domanda! (ride, NdR)
C.: Giuro che sarà brevissima! State pensando di scrivere dei nuovi brani insieme?
K.: Non lo so! Avevo detto che non sarei mai tornata con le Bikini Kill e ora penso che non ci sia bisogno che scriviamo nuove canzoni perché le vecchie sono grandiose e cantarle è bellissimo per me. Poi abbiamo tantissimi pezzi, ne suoniamo 18-19 per concerto e ne abbiamo talmente tante che non possiamo aggiungerle tutte. Penso che prima o poi vorrei fare un album live, perché alcune delle canzoni sono registrate malissimo e sono un po’ triste che i nostri pezzi migliori non si sentano così bene e vorrei poterne sentire delle versioni migliori. Ma ora come ora non ci vedo a scrivere qualcosa di nuovo, specialmente perché ora abbiamo Erica come chitarrista ed è molto diverso. Per ora si tratta solo di suonare dal vivo e non di comporre cose nuove. Ovviamente l’idea mi terrorizza: pensa se scrivessimo una nuova canzone e fosse terribile! Insomma, se ci piacesse sarebbe tutto ok. Mi viene anche difficile pensare di scrivere dal punto di vista delle Bikini Kill perché era il punto di vista della me di vent’anni fa e anche la musica era di quell’epoca. Potrei scrivere musica in una nuova band facilmente, ma scrivere una canzone delle Bikini Kill adesso, non lo so, penso di doverci pensare perché sono chiaramente molto indecisa a riguardo, non mi aspettavo questa domanda!