Articolo di Attilio Palmieri
Per tanto tempo ci hanno detto che esistono le opere d’arte e poi le opere d’arte con una specificazione particolare che identifica il profilo di chi le ha create o del gruppo/movimento da cui provengono, costruendo in questo modo un cuore universale di prodotti d’ingegno al quale si agganciano tante costole. E questo vale per tutte le forme espressive, dal cinema alla letteratura, dalla musica alla serialità televisiva. C’è il Grande Romanzo Americano e poi c’è la “letteratura femminile”, c’è il film d’autore e poi c’è il “cinema orientale”: dicotomie dove da una parte abbiamo il centro delle “nostre” narrazioni e dall’altra delle categorie, dei ghetti comprendenti opere magari anche molto belle, ma comunque recintate e di conseguenza mai considerate portatrici di un “respiro universale”.
Per fortuna esiste chi non fa distinzione tra personale e politico e vive la militanza come un fatto quotidiano, persone la cui voce sta iniziando a farsi sentire sempre più forte dopo che per troppo tempo hanno subito la sopraffazione di maschi bianchi etero cisgender che hanno dominato l’industria culturale in lungo e in largo lasciando ai margini chiunque non fosse simile a loro. Le forme espressive e i loro canoni hanno iniziato a essere messi in discussione da voci portatrici di una diversità di genere, etnica e di orientamento sessuale, sia dal punto di vista teorico grazie a una serie di studi mirati, sia dal punto di vista pratico grazie a prodotti esplicitamente militanti e capaci di ridimensionare la pretesa di universalità dello sguardo dominante, ribadendo con fermezza che le opere realizzate da maschi bianchi etero NON sono universali, ma appartengono a una categoria (e neanche tanto ampia) esattamente come tutti gli altri.
Stringendo il discorso alla serialità televisiva, va sottolineato che nell’ultimo decennio c’è stato un notevole incremento delle autrici, la cui prospettiva ha contribuito a mettere in discussione la narrativa dominante. Dopo che prima “Buffy” e poi “Sex and the City” hanno preparato il terreno per una rappresentazione delle donne più centrale e autentica, sono arrivati tantissimi altri racconti originali e dalla sensibilità inedita, con al centro varie sfumature di femminilità, a cominciare da “Girls”, in cui l’allora ventiquattrenne Lena Dunham dichiarò di voler fare della propria serie quasi un manifesto.
A contribuire però alla realizzazione di una televisione femminista, grazie a due show che per ragioni simili – nonostante alcune differenze – sono impregnati di un profondo senso di militanza, è Joey Soloway. In meno di dieci anni, infatti Soloway ha realizzato una serie come “Transparent” nel cui cast troviamo tante donne e uomini trans e persone non-binary; una trasposizione televisiva di “I Love Dick”, vero e proprio saggio femminista in forma artistica e seriale; ha scritto un memoir incredibilmente ricco (“She Wants It: Desire, Power, and Toppling the Patriarchy”) ed è diventat* attivista in materia di diritti delle persone LGBTQ+, delle donne e delle persone marginalizzate.
“Transparent”, creata nel 2014, è la prima serie di Joey Soloway (che in passato aveva lavorato a show acclamati come “Six Feet Under”), ed è una storia profondamente autobiografica perché prende le mosse dal coming out come transgender di suo padre. Sin dal titolo la serie intende abbracciare la complessità, unendo le parole “trans” e “parent” (in italiano, “genitore”) e fondendole nella parola “Transparent”, trasparente, dichiarando così di voler fare un’operazione all’insegna dell’autenticità.
E in effetti il lavoro di Soloway da questo punto di vista è davvero rivoluzionario (soprattutto se si pensa che nel 2014 serie come “Pose” o “Work in Progress” non esistevano) anche perché evolve di pari passo con il personale processo di auto-scoperta, che parte dall’attivismo e prosegue in una progressiva presa di coscienza della propria identità di persona non binaria.
In parallelo “Transparent” diventa sempre più militante, grazie alla presenza sempre maggiore di persone trans nella writers’ room e a una rappresentazione della fluidità dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale che costituisce tuttora un punto di riferimento fondamentale per le narrazioni seriali.
“Transparent” ha però avuto anche un enorme problema sin dal primo giorno, ovvero la presenza di un attore cisgender, Jeffrey Tambor, nel ruolo di un personaggio trans e anche per questo una parte della comunità LGBTQ+ ha fatto molta fatica ad amare lo show incondizionatamente. Soloway ha con il tempo compreso la gravità di quella scelta scusandosi più volte e decentralizzando il personaggio interpretato da Tambor all’interno della serie. Inoltre, Jeffrey Tambor è stato anche accusato di molestie da due donne trans della crew, diventando protagonista di uno dei principali casi del movimento #MeToo. La vicenda ha portato all’espulsione dell’attore dalla serie e alla conclusione prematura dello show tramite un finale musicale in cui i personaggi provano a elaborare una ferita insanabile, arrivata come un fulmine a ciel sereno in un ambiente che – almeno dall’esterno – appariva simile a un’utopia.
Lo show più militante e dichiaratamente femminista di Joey Soloway è però “I Love Dick”, adattamento dell’omonimo romanzo epistolare di Chris Kraus divenuto negli anni un manifesto femminista e promosso da diverse celebrity sui social, da Lena Dunham a Lorde. Si tratta di un testo molto difficile da adattare e rispetto al quale Soloway insieme alla drammaturga e sceneggiatrice Sarah Gubbins ha lavorato alzando l’asticella della qualità e della sperimentazione.
La storia è sviluppata in otto episodi da circa mezz’ora – formato flessibile e adatto a uno show sperimentale come questo – e racconta la vicenda di Chris, una regista che fatica a trovare spazio in un’industria che alle donne non spalanca esattamente le porte, e suo marito Sylvere, un accademico che per dedicarsi a un progetto sull’Olocausto vola accompagnato dalla moglie a Marfa, in Texas. dove a capo di una comunità di artisti c’è Dick, uomo carismatico e per tanti versi rappresentante di una mascolinità antitetica a quella di Sylvere.
Il racconto diventa ben presto un percorso di autoanalisi e un’indagine sul desiderio e sulla femminilità, in cui Chris attraverso la produzione di lettere a Dick utilizza il gesto artistico come espediente per far emergere il proprio sguardo sul mondo.
Si tratta di un vero e proprio processo di liberazione raccontato in maniera sperimentale, attraverso il linguaggio della Nouvelle Vague, per esprimere una rottura ideologica e concettuale e inserendo all’interno delle immagini di finzione frammenti di opere di videoarte femminista realizzati da artiste quali Jane Campion, Sally Potter, Chantal Akerman e Naomi Uman. Un discorso a parte lo merita il quinto episodio, “A Short History of Weird Girls”, un vero e proprio saggio audiovisivo in cui la narrazione si interrompe per lasciare il posto alla riflessione critica e teorica: qui ognuna delle protagoniste della serie si apre al pubblico e racconta la propria interiorità.
Ad oggi Joey Soloway è una delle principali figure dell’attivismo femminista e LGBTQ+, capace di aggregare tante realtà e conciliare comunità incredibilmente diversificate. Sul campo ha raggiunto uno status culturale e intellettuale che ha convinto persino le grandi produzioni, come ha fatto la Millennium Film che ha sostituito Bryan Singer (accusato di stupro da diverse donne, all’epoca minorenni) proprio con Soloway per la scrittura e la regia del film “Red Sonja”. Non solo: “She Wants It”, il suo ultimo libro, è stato un grandissimo successo negli ambienti femministi grazie al suo essere sia un’opera autobiografica sia un saggio intersezionale e ha portato Soloway a collaborare con diverse figure particolarmente rappresentative del mondo LGBTQ+, tra cui Hannah Gadsby (che potete vedere insieme anche in questo interessantissimo evento).