Articolo di Alessandra Vescio
Cos’è l’estasi? E perché ne abbiamo bisogno? A questi quesiti prova a rispondere il filosofo britannico Jules Evans attraverso un saggio dal titolo Estasi: Istruzioni per l’uso. Ovvero l’arte di perdere il controllo, uscito in Italia per Carbonio Editore. E proprio di perdere il controllo si parla in questo lungo saggio filosofico che l’autore ha impiegato cinque anni per scrivere e che ha voluto organizzare e immaginare come un grande festival. Ogni capitolo infatti corrisponde a un padiglione e in ogni padiglione il filosofo incontra e analizza, attraverso esempi, aneddoti, pro e contro, un modo specifico di vivere l’estasi nel mondo occidentale contemporaneo.
A partire dal XVII secolo l’estasi, che già aveva conosciuto momenti di marginalizzazione nei secoli precedenti, viene definitivamente bandita dall’Occidente e anzi considerata come una malattia: chiunque da quel momento dicesse di aver vissuto o di vivere momenti estatici veniva etichettato come un ignorante, un eccentrico o un pazzo. Ma l’uomo ha bisogno dell’estasi e negarlo non ne placa la necessità. Anzi, come scrive lo stesso autore:
«Il vivere civile ci impone grandi pretese: dobbiamo controllare il nostro corpo, inibire gli impulsi, gestire le emozioni, “preparare una faccia per incontrare le facce che incontri”, come direbbe Eliot. Siamo tenuti a recitare il nostro ruolo nell’estesa e intricata rete del capitalismo globalizzato. Il nostro Io si è evoluto per aiutarci a sopravvivere e a essere competitivi, e possiamo dire che se la cava piuttosto bene nel suo mestiere: di fatto, trascorre ogni istante della giornata a ispezionare l’orizzonte in cerca di opportunità o minacce […]. Ma può essere estenuante restare completamente chiusi dentro il Sé che ci siamo costruiti. È isolato, tagliato fuori da spesse mura di paura e pudore, assediato dalle preoccupazioni e dalle ambizioni, nonché consapevole della propria piccolezza e della condizione di mortalità cui è condannato. È per questo che abbiamo l’esigenza di lasciarci andare, di tanto in tanto, per non ritrovarci annoiati, sfiniti, depressi.»
“Può essere estenuante restare completamente chiusi dentro il Sé che ci siamo costruiti”
Dal termine ékstasis, il raggiungimento di uno stato estatico corrisponde a quel momento in cui l’individuo si sente al di fuori di sé. Lo psicologo Mihály Csíkszentmihályi scrive che gli esseri umani sono sempre alla ricerca del “flow”, ovvero di quella condizione in cui «perdiamo la cognizione del tempo e ci dimentichiamo di noi stessi», che altro non è che una sorta di preliminare all’estasi vera e propria. E dell’estasi è andato alla ricerca Evans dopo un’esperienza di premorte che gli ha scombussolato piani e certezze. Stava vivendo un periodo estremamente difficile, fatto di crisi psicologiche e attacchi di panico causati dall’assunzione di psichedelici durante una festa, e credeva che il suo cervello fosse ormai definitivamente danneggiato. Un giorno però, mentre sciava, cadde improvvisamente e si ruppe la schiena e un femore: mentre stava sdraiato a terra su quella pista da sci, paradossalmente, si sentì finalmente e di nuovo bene. Invaso da luce e amore, come raccontò poi, il filosofo capì che c’era qualcosa dentro di lui che era rimasto intatto: l’anima, il sé, la coscienza o con qualunque altro nome si volesse identificare quell’essenza piena di significato e di vita. Gli attacchi di panico e le paure scomparvero ed Evans, che fino a quel momento si era definito filosofo stoico, iniziò a studiare e ad approfondire tutto ciò che riguardava “il fuori dall’Io” e la sua dissoluzione.
Estasi. Istruzione per l’uso è il frutto di questo studio e nel leggerlo si attraversano approcci diversi all’estasi. Tra questi ad esempio vi è la chiesa carismatica a cui Evans si avvicina e di cui si rende presto conto non solo della forza che ha ma anche della grande ambiguità che la caratterizza e della sua distanza dalla realtà contemporanea. Patriarcale, eteronormativa e contraria ai rapporti prematrimoniali, la chiesa carismatica rifiuta tutto ciò che è giudicato come diverso. Non è un caso ad esempio che, nonostante le tiepide aperture degli ultimi tempi, l’omosessualità venga considerata come una scelta di vita che può essere superata attraverso le preghiere e gli esorcismi.
Un altro mondo affascinante e capace di generare condizioni estatiche è l’arte. Dell’arte abbiamo bisogno non solo perché veicola messaggi, ma anche per ciò che provoca dentro e fuori di noi. Grazie all’arte infatti ogni individuo può sentirsi meno solo e riconoscere che le proprie crisi e i propri pensieri non sono unici e solitari ma comuni a tante altre persone là fuori. L’arte sa condurci oltre il nostro Io ansioso e in certi casi genera quei momenti di immersione e unicità tra l’opera e lo spettatore difficilmente replicabili. L’esempio portato da Evans è l’esibizione di Marina Abramović al MoMA: un evento storico che ha scatenato gli animi tanto da far nascere dei gruppi di supporto psicologico per coloro che erano rimasti particolarmente sconvolti dalla performance.
Un esempio lampante di come l’estasi possa al contempo conquistare e spaventare è rappresentato dalla danza. Presto bandita nei riti religiosi in quanto causa di eccitamento sessuale, nel mondo cristiano la danza è considerato uno degli strumenti con cui la donna riesce a sedurre l’uomo allontanandolo dai suoi principi e provocando la sua moralità. Lo stesso accadde coi baccanali, feste orgiastiche del culto orfico-dionisiaco, limitati nel 186 d.C. perché «accusati di spingere le donne alla disobbedienza». Se i riti danzanti sono banditi per quella carica sensuale che portano con sé, cosa succede allora quando si parla di sesso? Evans, che per vivere la dissoluzione dell’Io provocata dall’attività sessuale ha partecipato a un Festival di amore tantrico, nel suo saggio racconta le varie fasi interpretative che il sesso ha vissuto nella società occidentale: dal controllo sacerdotale alla desacralizzazione, dalla privatizzazione all’ipersessualità, dall’amore libero all’oggettificazione della donna fino al piacere che passa attraverso il dolore. Il sesso è tra le sfere più discusse dell’esistenza umana e se così è lo deve a quella sua capacità di portare l’Io al di fuori di sé e generare un profondo stato di estasi.
La società in cui viviamo legge nell’estasi un’inaccettabile perdita del controllo, specialmente se avviene all’interno di gruppi sociali oppressi, ovvero donne, poveri e minoranze etniche. All’inizio del XX secolo ad esempio la psichiatria dichiara che gli stati estatici sono da considerarsi come un disturbo patologico del cervello e il neurologo Jean-Martin Charcot li ritiene una delle fasi dell’isteria, forma di nevrosi attribuita per eccellenza alle donne.
Il problema in realtà sembra un altro: l’estasi fa paura. Capaci di ribaltare l’ordine delle cose, gli individui in preda a un momento estatico mettono a repentaglio quel sistema di regole e gerarchie che l’uomo occidentale, patriarcale e dominatore, ha costruito nel corso dei secoli per inibire tutto ciò che lo circonda: l’unica soluzione per evitare ogni pericolo è deridere prima e bandire poi quello che tenta di sfuggire al controllo, incutere paura e imporre rigore per non lasciarsi sopraffare.
Non è un caso perciò che anche lo sfruttamento oggi viene visto come parte di un grande disegno di razionalità, come scrive lo stesso Evans:
«Siamo bloccati in quella che McKenna chiama “patologia dell’Io dominatore” – un’ossessione morbosa per il controllo e per lo sfruttamento del potere, del denaro e dello status sociale. Le persone, gli animali, le piante e il pianeta stesso sono diventati nient’altro che carburante per alimentare la soddisfazione del nostro ego. La cultura dell’Io dominatore utilizza la razionalità per rendere lo sfruttamento quanto più efficiente possibile, ma nei fatti non c’è nulla di razionale – al contrario, è qualcosa di folle, di malato.»
Crediamo nella necessità di mantenere il controllo; ci convinciamo che lasciarsi andare sia una forma di debolezza, anziché una necessità dell’essere umano. Ed è anche per questa forma di rigore che fa a pugni con la nostra essenza che nascono movimenti estremisti, come sostiene il filosofo:
«L’islam radicale è puritano, e i puritani odiano la gente che balla, in particolare se a farlo sono le donne. L’unica tipologia di estasi accettata da Daesh è quella della preghiera e dell’uccisione. Ed è per questo che ha attaccato gli Eagles of Death Metal al Bataclan di Parigi, “dove centinaia di pagani si sono riuniti per un concerto di prostituzione e vizio”, per usare le stesse parole della rivendicazione di Daesh. La loro forma di estasi è un trip di controllo patriarcale contro ogni forma di differenza.»
Così come la repressione dell’Io genera effetti negativi, anche l’abbandono totale all’estasi, la mitizzazione di personaggi in grado di generare stati estatici e la tendenza contemporanea di ricercare le cosiddette “esperienze picco” sono estremamente pericolosi: Evans non fa un’apologia dell’estasi, ma ne studia le forme e ne riconosce l’importanza. E in quello che si presenta come un saggio sulla condizione estatica, emerge alla fine la società occidentale contemporanea in tutte le sue contraddizioni. Vantiamo la libertà dei nostri usi, ma ci nutriamo di maschilismo; esaltiamo le infinite possibilità di essere ma ci omologhiamo anche nei posti di lavoro più innovativi; ci convinciamo di vivere nel migliore dei mondi possibili e non ci accorgiamo di quanto vecchie dinamiche e gerarchie fanno ancora parte della nostra quotidianità. Nascondiamo le nostre ansie, denigriamo la diversità ma ci proclamiamo felici, liberi e capaci di accogliere e amare.
Ricco di spunti interessanti che ci aiutano a fare chiarezza su tanti aspetti della nostra vita, compresi quelli in cui ci crediamo più liberi, il saggio di Jules Evans ci offre una chiave: imparare a lasciarci andare, fosse anche solo per liberarci dalle strutture mentali che offuscano la vista e generano pregiudizi. Ne approfittiamo?