
Articolo di Benedetta Geddo
Fino a qualche anno fa, forse tutto quello che si sapeva comunemente della Corea del Sud era in relazione al suo vicino settentrionale e magari anche alla sua economia (che è la quarta più grande dell’Asia). Questo ovviamente prima che la hallyu, l’onda coreana, arrivasse con forza dirompente anche nei Paesi occidentali dopo essersi diffusa in tutto il continente asiatico. Perché sì, la Corea del Sud investe molto sulla tecnologia e sullo sviluppo umano, ma punta tantissimo anche sull’esportazione della cultura. Dove per cultura si intendono soprattutto le serie televisive e la musica.
Ora, i k-drama (le serie coreane, appunto) sono un universo a parte esattamente come lo è la musica, in cui però non mi sono ancora avventurata come invece ho fatto col k-pop. Anche i k-drama portano avanti l’hallyu, ma forse non quanto riesce a fare il k-pop: sarà che la musica è più immediata? Sarà che le emozioni che una canzone vuole trasmettere arrivano ugualmente, superando le barriere linguistiche di testi scritti in una lingua dal suono bellissimo ma ovviamente difficile da imparare? Lì è una questione di percezione. Quello che è certo è che il k-pop sta spopolando un po’ dappertutto: ai premi e festival musicali statunitensi, nelle televisioni occidentali, nei concerti in giro per il mondo, persino nelle aule delle Nazioni Unite. E quindi eccoci qui a parlarne in una sorta di guida per principianti, per vedere cos’ha di diverso dal pop occidentale, quali sono le sue caratteristiche e cosa può insegnarci. E se bisogna parlare di k-pop, allora non si può che cominciare dagli artisti che lo fanno, ossia gli idol.

Gli idol, gli artisti k-pop, sono ragazzi e ragazze che si esercitano per un numero variabile di anni (dai tre ai sette, mediamente) sotto una casa discografica: imparano a cantare, ballare, suonare uno strumento, comporre musica, stare davanti a una telecamera, tutto quello che c’è da sapere insomma per diventare un performer a tutto tondo. Durante il periodo di formazione, vengono divisi in gruppi (ci sono ovviamente i solisti e le soliste, ma l’unità minima preferita del k-pop resta il gruppo) e, quando sono ritenuti pronti, debuttano, ciascuno con uno stile preciso (chiamato concept) e deciso dalla casa discografica, dal più pop al più rap passando per le band. Da lì è una questione di talento, fortuna, e buon management: un gruppo può schizzare in cima alle classifiche o floppare e venire dimenticato. L’industria è molto competitiva, non solo per una questione di qualità ma anche per una di quantità, perché tantissimi gruppi debuttano ogni anno e non tutti possono raggiungere le vette delle classifiche. Inoltre è un mondo pieno di regole non scritte, tradizioni e innovazioni delle quali parleremo meglio in un articolo successivo (spoiler: questa è una serie con due episodi, K-Pop 201 arriverà presto su questi schermi).
Gli idol e la mascolinità
Chiunque segua (con interesse e dedizione o di tanto in tanto) il mondo del k-pop e in particolare quello dei boy group, ossia gli artisti maschi, ha sentito almeno una volta una di queste frasi (di solito rivolte ai “cinesi” perché sia mai che si impari che l’Asia è enorme e non consiste solo della Cina e che appunto non sono solo i cinesi ad avere gli occhi a mandorla e i tratti somatici dell’Asia orientale): “ah, ma si truccano”, “ah, ma si tingono i capelli di colori strani”, “ah, ma sembrano ragazze”, “ah, ma sono troppo bellocci”. A me, personalmente, la risposta che viene automatica è la seguente: “e che male c’è?”. Ma andiamo con calma.

Quando vanno in scena (o sono agli incontri coi fan o in televisione o a qualche evento, insomma, quando stanno lavorando), tutti gli idol indossano del trucco. Di solito è molto leggero, niente di drammatico o teatrale, e lo si fa principalmente perché la Corea del Sud è a) ossessionata dalla pelle perfetta e, anche se gli idol generalmente si prendono molta cura del loro aspetto fisico come tutte le celebrità, i brufoli alla fine vengono a tutti; e b) ossessionata dalla faccia perfetta, talmente tanto che la chirurgia plastica è molto più comune là di quanto non lo sia qui, tra gli idol certamente ma anche tra la popolazione in generale. Il trucco aiuta a minimizzare i difetti, ma lo fa per gli idol così come lo fa per le celebrità occidentali – sono sicura ad esempio che anche il comico e conduttore statunitense Stephen Colbert si faccia passare un po’ di fondotinta in faccia prima di andare in onda. Si chiama trucco di scena.

È molto comune anche vedere gli idol con ogni tipo di colore di capelli, perché è una di quelle tradizioni del k-pop che ho menzionato più su: a ogni nuovo disco, EP o singolo, il gruppo si presenta con colori di capelli diversi, per segnare un distacco netto dall’”era” precedente ed entrare in quella nuova. Anche le celebrità occidentali, se ci pensiamo, tingono i capelli. Il punto però non è decidere se trucco e parrucco siano una cosa specifica degli idol o meno (spoiler: non lo sono, perché lo fanno anche gli occidentali, ma se si criticano solo gli asiatici e non gli occidentali allora c’è un problema e quel problema si chiama razzismo).
Il punto è la risposta “E che male c’è?”. Dove sta il problema in un uomo che ha l’ombretto sulle palpebre e il gloss sulle labbra e i capelli rosa, sia che siano per lavoro o per gusto personale? Queste scelte estetiche sono forse un indicatore del suo valore come persona o della validità di quello che produce? Spesso queste obiezioni infatti vengono usate per screditare la musica degli idol: se vogliamo parlare di gusti musicali allora discutiamo di testi, basi e composizione, ma io faccio fatica a vedere il nesso tra dei capelli tinti e quello che succede in studio di registrazione.

E dirò di più: secondo me fa bene vedere degli uomini che hanno un’apparenza che rompe con gli standard di mascolinità occidentali, che siano quelli legati al trucco o all’acconciatura o alla moda, perché questi canoni sono stretti e soffocanti e lo sappiamo tutti benissimo. Facciamo però bene attenzione a una cosa: non è che perché gli idol seguono degli standard diversi allora sono automaticamente queer o androgini o rivoluzionari, perché tingersi i capelli o truccarsi non è segno né di una né dell’altra cosa. Quello che ci fa bene è, appunto, vedere degli standard di mascolinità diversi e confrontarci con essi, imparare qualcosa che può essere anche migliorato, senza necessariamente mettere tutto su un piedistallo.
Poi, ovviamente, c’è la musica. Se volete farvi un’idea di che canzoni vengano prodotte dai gruppi al momento in cima alle classifiche coreane, allora potete ascoltare gli EXO, i Wanna One, i Monsta X, gli Stray Kids, i BTOB o grandi classici come i Big Bang, i Super Junior e gli SHINee. E ovviamente i BTS, dai quali non si può prescindere se si parla di boy group, k-pop e Corea del Sud in generale.
Con un discorso alle Nazioni Unite, dove hanno parlato dell’importanza della voce dei giovani assieme all’UNICEF, di cui sono ambasciatori, e due Billboard Awards, i BTS sono il gruppo di cui tutti stanno parlando al momento. Uscirà anche prestissimo (domani 21 febbraio, per l’esattezza) la loro prima biografia non ufficiale, intitolata “BTS: Icone del K-pop”, scritta da Adrian Besley ed edita in Italia da L’Ippocampo. Bossy l’ha letta in anteprima e crediamo sia un’ottima introduzione ai BTS e alla strada che hanno fatto dal debutto al loro penultimo album, uscito nella primavera del 2018. I fan sapranno già quasi tutti i fatti riportati tra le pagine di “Icone del K-pop”, ma per chi cerca invece un modo per approcciarsi al gruppo per la prima volta il libro è perfetto.
Le idol e (che sorpresa!) il sessismo
Dall’altra parte ci sono i girl group e, se per quanto riguarda gli uomini e la mascolinità il k-pop ha molto da insegnare, nel caso delle donne invece sottolinea come il sessismo e la misoginia purtroppo non conoscano barriere geografiche. Non che le cose non stiano lentamente migliorando, ma spesso in rete si sente dire che sia più facile fare parte di un boy group che non di un girl group, e per certi versi è vero.

I double standards non scherzano nemmeno nel mondo del k-pop: se i media coreani “parlano male” di un idol maschio (che sia per il modo in cui si veste o si acconcia i capelli), allora “parleranno male” il triplo di una idol donna. I dating scandal (ossia le voci su chi stia uscendo con chi, un’altra parte importante dell’industria e della figura degli idoli) durano molto di più per una donna di quanto non succeda per un uomo, e lo slut-shaming regna sovrano.

Anche il lavoro delle idol (che si impegnano esattamente tanto quanto gli idol, si allenano per lo stesso periodo di tempo, hanno le agende ugualmente fitte di impegni) viene spesso e volentieri sminuito. Le coreografie, per esempio, sono meno intricate per le ragazze (non meno complicate, quello lo restano sempre perché sul palco sembra tutto facilissimo ma appena si prova a ricreare una sequenza alla velocità con cui la fanno gli idol ci si rende conto che è una cosa impossibile e parlo per esperienza personale). Quasi come se, a parità di allenamento e talento, le ragazze avessero come primo scopo quello di dimostrare sempre prima di tutto di essere belle e poi magari dopo anche brave nella danza. In un’intervista un produttore che vuole dare al suo gruppo una coreografia più complicata del solito dice loro che sarà un ballo “meno femminile”. Come se ci fosse qualcosa di male nell’essere “femminili”.
Ci sono ovviamente poi i casi estremi, ossia compagnie come la YG Entertainment che sono conosciute per essere particolarmente tremende nei confronti delle loro idol, ma per fortuna questi comportamenti sono riconosciuti da tutti come estremi e sbagliati. Questo perché, come ho detto, le cose stanno migliorando, anche grazie alla diffusione globale del k-pop e all’arrivo di fan che provengono un po’ da tutto il mondo.
Una delle soliste più famose di tutta la Corea del Sud, HyunA, ha sempre avuto dei concept molto sensuali e nonostante i media coreani abbiano costantemente fatto del non tanto velato slut-shaming nei suoi confronti, lei ha di recente cominciato ad appropriarsene con un sorriso, invece di vergognarsene. C’è poi Hwasa, cantante del quartetto MAMAMOO, la stessa ragazza con il body rosso del tweet qui sopra, che preferisce mostrarsi per quella che è invece che modificare il suo corpo, che va contro i rigidissimi canoni estetici e fisici sudcoreani. Senza contare che l’intera popolazione di idol donne contribuisce ogni giorno a ridurre uno degli stereotipi più radicati sulle donne asiatiche, ossia quello di essere silenziose e remissive. Come si sente commentare in un video del canale YouTube FBE, in una reaction al gruppo BLACKPINK: “Queste non sono timide ragazze asiatiche, sono ragazze che dicono che sono qui e hanno un sacco di roba da dire, quindi sarà meglio ascoltarle!”
Se volete immergervi nelle canzoni del k-pop al femminile, allora potete cominciare proprio dalle BLACKPINK, che sono al momento le più popolari in Occidente, e dalle TWICE, famosissime invece in patria, e continuare con le Red Velvet, le GFriend, le MAMAMOO, le EXID, e i pilastri imprescindibili che portano il nome delle Girl’s Generation e delle 2NE1. HyunA è una solista e come lei anche Sunmi e Chung Ha che al momento dominano le classifiche e meritano un ascolto.
Questa introduzione al mondo del k-pop non copre assolutamente tutte le sfaccettature dell’industria, che richiederebbe molto più tempo e spazio. Spero però che questo assaggio della musica coreana e di quello che le sta attorno vi abbia interessato e che adesso saprete meglio di cosa si sta parlando, quando sentirete menzionare il k-pop in giro. E fidatevi che lo sentirete menzionare: i BTS hanno appena annunciato un tour estivo che arriverà anche al Wembley Stadium di Londra e allo Stade de France di Parigi e scommetto che andrà sold out.