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“La donna a volte ha un nodo in gola e non la vuole ascoltare nessuno”
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“La donna a volte ha un nodo in gola e non la vuole ascoltare nessuno”

Panmela Castro (pan.me.la, secondo la pronuncia brasiliana, NdT) è una delle street artist più conosciute in Brasile, e trasforma in murales le testimonianze ed esperienze delle donne brasiliane in quarantena

“Sentirsi in colpa. Sentirsi in colpa per non saper rilassarsi, per non saper riposarsi. Ma sentirsi in colpa anche perché non si è produttive, per non farcela, per non riuscire a ispirare altre donne”, lo dice una delle donne che ha deciso di raccontare la propria esperienza in quarantena all’artista visiva Panmela Castro, classe ‘85.

Questi racconti sono in effetti l’ispirazione principale per l’artista originaria di Rio, che attualmente dipinge quadri per la serie “Retratos Relatos” (Ritratti e Testimonianze, NdT). Con la pandemia le donne hanno iniziato a condividere con lei le loro difficoltà a casa e quello che provano durante il lockdown. Le testimonianze raccolte da Panmela attraverso i suoi social raccontano la solitudine, i modi di comportarsi, le relazioni e soprattutto i casi di violenza sulle donne, che è una costante nelle sue opere.

Basati su queste storie, Panmela ha realizzato tre dipinti. A dare voce a questo lavoro sono tre donne: una donna HIV positiva che ha perso da poco un figlio, una madre single che lavora da casa e si prende cura della figlia da sola e una terza donna che parla delle incertezze che ha portato il nuovo coronavirus nella sua vita.

Panmela Castro è una delle donne writer più conosciute al mondo e il dipinto è soltanto uno dei vari linguaggi utilizzati dall’artista. Il femminismo è presente in ogni sua opera sotto forma di lotta per i diritti delle donne e contro la violenza domestica, di cui è stata vittima. Una realtà comune, purtroppo, fra le brasiliane. Il suo lavoro artistico è, dunque, una sorta di diario di esperienze trasformato in murales, video, performance e foto, opere queste sparse un po’ dovunque.

Tramite la Rede NAMI, Ong che ha fondato nel 2010, Castro promuove i diritti delle donne attraverso l’arte di strada. L’associazione ha raccolto fondi per la distribuzione di pacchi alimentari durante la quarantena e ha lanciato una campagna di comunicazione per l’assunzione di donne artiste che dipingeranno dei murales contro la violenza sulle donne, nella favelas Tavares Bastos, a Rio. L’organizzazione così riesce a retribuire le artiste durante la quarantena, offrendo loro un’opportunità lavorativa. I lavori verranno consegnati non appena le misure di distanziamento sociale saranno finite.
In questa intervista Panmela ci spiega come l’esperienza di essere donna faccia parte del suo lavoro, che lo vede accostato anche alle esperienze vissute da altre donne, e quali difficoltà affronta nel trattare, nelle sue opere, temi quali genere e violenza sulle donne.

Revista AzMina: In che modo la pandemia ha colpito il tuo lavoro?
Panmela Castro: Credo che quello che faccio più attivamente con le donne abbia subito più cambiamenti rispetto al lavoro artistico in sé. Le tematiche presenti nel mio lavoro si mantengono molto vive con la quarantena, come il “non luogo”, la solitudine, i temi riguardanti le vite che “svaniscono”. Il lavoro che ho sempre fatto con le donne, per strada, è una delle cose che non riesco più a sviluppare da quando è iniziato il lockdown, poiché il contatto fisico, imprescindibile per questo tipo di arte, non è permesso. Quello che riesco a fare sono dei tappabucchi in mezzo all’assenza totale dello Stato, come la consegna dei pacchi alimentari con la mia Ong. Quello invece che mi piace fare è sviluppare, insieme alle donne, lavori di vero cambiamento sociale, che vanno alla radice del problema. Questo perché credo che possiamo cambiare le cose, farci forza, ma tutto questo rimane in secondo piano nel momento in cui vedi persone e famiglie intere che non hanno da mangiare.

AzMina: Come hai sviluppato questa relazione con le “esperienze di vita” delle donne nella tua arte? Come si manifestano?
Panmela: Quando ho iniziato a dipingere i murales notavo che le persone interagivano molto con me. La gente si fermava, mi faceva domande, insomma in quel contesto c’era una sorta di separazione netta tra l’artista e lo spettatore. Invece quando ho iniziato a fare performance, video, foto, le persone subito ci si riconoscevano. Nonostante il mio lavoro sia autobiografico sono in fondo esperienze personali che dipendono dal rapporto con l’altro, un rapporto di alterità. Quindi molto di quello che facevo era, per certi versi, “partecipato”, condiviso con donne che volevano interagire con me e con la mia arte. Siccome ricevo molto “materiale” via Internet ho deciso di trasformare tutto ciò in un lavoro unico. Dal 2019 quindi chiedo alle donne di inviarmi le loro storie, i loro racconti e testimonianze, e a partire da essi, dipingo i ritratti, perciò “Ritratti e testimonianze”. E ora ricevo, appunto, molte testimonianze sulla situazione delle donne in quarantena. A volte la donna ha un nodo in gola e non la vuole ascoltare nessuno, oppure si vergogna di parlarne. Quando questa donna decide di scrivermi e vede il suo ritratto dipinto, è come se facesse qualcosa con quel dolore, con quel sentimento. Lo sfogo come un processo di cura.

AzMina: Nel 2018 cercavi di sporgere denuncia per un danno patrimoniale alle tue opere. Ne hai notizie?
Panmela Castro: Nel 2017 ho avuto un problema con un ex compagno di 10 anni prima, con cui mi ero già lasciata. Lui mi perseguitava sempre ma erano sempre per cosa piccole, stupide. Fino a quando ha iniziato a coprire i miei murales. Tale gesto l’ho capito come vera e propria violenza patrimoniale e anche domestica. Pensavo: ‘chi vorrà mai lavorare con un’artista i cui murales sono stati cancellati?’. Ho avuto molta difficoltà (nello sporgere denuncia, NdT), sono stata presso più organi ed enti governativi ma i funzionari non mi volevano assistere, fino a quando Marielle (Franco, consigliera comunale di Rio uccisa nel 2018, NdR) non mi ha aiutata. Ha sentito i suoi assistenti e siamo riuscite, finalmente, a sporgere denuncia. Abbiamo chiesto delle misure di protezione patrimoniale, solo che purtroppo i giudici non le volevano accogliere. Con la morte di Marielle sono rimasta senza forze per portare avanti tutto ciò da sola.

AzMina: I giudici non hanno riconosciuto i tuoi murales come patrimonio tuo?
Panmela: In realtà sì. Sai, credo che in maniera generale ci sia sempre stata una grande difficoltà nell’applicare la legge in questi casi, che secondo me sono anche casi di violenza domestica. Durante gli anni successivi all’approvazione della Legge Maria da Penha (la legge brasiliana contro la violenza domestica, NdT), ad esempio, c’è stato un grande movimento sia dal Governo sia dalla società civile, per la corretta applicazione della legge, la quale incentivava anche un cambiamento di comportamento e atteggiamento verso le donne. Da quattro anni a questa parte tutti i diritti acquisiti si stanno perdendo. Oggi abbiamo una legge ottima che però non viene applicata perché ci sono uomini all’interno della Giustizia che legittimano il maschilismo, come i questori, i poliziotti e i carabinieri. Anche per questo non riesci a ottenere una risposta dalla Giustizia. Soprattutto ora, in quarantena, in cui è difficile far valere la Legge Maria da Penha. In casi di violenza domestica ti dicono di chiamare il 180 (centralino telefonico antiviolenza del Governo brasiliano, NdR). Io, poi, se dovessi essere sincera, non riesco a dire a una donna vittima di violenza domestica di chiamare questo numero. Sappiamo che se farà la denuncia verrà uccisa perché non succederà nulla dal punto di vista legale. Sappiamo di non avere molte alternative e tutto ciò è davvero triste. Dobbiamo auto-organizzarci, farci forza, aprire gli occhi ad altre donne per evitare situazioni di violenza perché non si rapportino con uomini maschilisti, controllanti, violenti. Se dovessimo dipendere esclusivamente dal Governo e dalle politiche pubbliche per difenderci, saremmo messe veramente male.

AzMina: E tu hai anche lavori educativi in questo contesto, vero?
Panmela: Con le donne del progetto Grafite pelo fim da violência contra a mulher (Graffiti per la fine della violenza sulla donna, NdT) andavamo sempre nelle scuole oppure nelle favelas per spiegare e diffondere la Legge Maria da Penha. Parlavamo della costruzione sociale della donna, dei vari tipi di violenza domestica e di come la legge ci protegge, inclusi gli organi ed enti istituiti ad hoc. Con la creazione del movimento Escola Sem Partido (Scuola senza partito, movimento reazionario brasiliano che vuole “liberare” la scuola dalle ideologie di sinistra, NdT) il lavoro di gender studies nelle scuole ha subito attacchi dalla destra, e lo stesso è successo alla Legge Maria da Penha. Nonostante a questo progetto siano stati assegnati vari premi per i diritti umani all’estero, purtroppo non siamo riuscite a portarlo avanti proprio perché si era aperta questa specie di caccia contro di noi.

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AzMina: Ma le scuole non hanno più dato l’autorizzazione per questo tipo di lavoro?
Panmela: Allora, per potersi recare in una scuola e svolgere qualsiasi tipo di progetto che sia, tu devi avere l’autorizzazione dell’Ufficio scolastico territoriale competente. E solo il fatto che un progetto tratti di donne, genere e parità di genere, è sufficiente per esser bocciato.

AzMina: Hai detto qualche anno fa che per un periodo di tempo, per essere rispettata, ti sei “mascolinizzata”. Perché lo hai fatto?
Panmela: Sono cresciuta in campagna e le ragazzine lì sono viste come delle “sceme” che non capiscono niente. Io rifiutavo questa visione negativa delle donne e perciò ho iniziato a fare writer. Quando firmavo i miei murales i ragazzi mi vedevano come una loro pari. Provavo una sensazione di potere incredibile. Volevo essere rispettata e vedevo che da donna questo non sarebbe mai successo. Quindi tentavo di “mascolinizzarmi”, di parlare e comportarmi come i ragazzi. Con il tempo ho capito che non volevo essere “uomo”. Volevo invece avere la possibilità di poter accedere a quelle cose che socialmente sono considerate mascoline, ma che in realtà, dovrebbero essere permesse a qualsiasi persona. Da quando ho capito che, per quanto provassi a “mascolinizzarmi” non sarei mai stata accettata come una di loro, a causa del mio corpo femminile, ho iniziato a vedere me stessa come donna e a comprendere lo spazio che occupavo e che volevo occupare nel mondo.

AzMina: Cosa ti aspettavi dall’università, dalla tua carriera?
Panmela: Durante l’università ero molto povera, non pensavo molto al futuro, pensavo soltanto a come fare per mantenermi. Facevo qualsiasi tipo di lavoretti, un po’ di tutto, addirittura disegnavo ritratti a meno di €1 al Largo da Carioca (piazza del centro storico di Rio, NdT). Abitavo nella Favela do Manguinhos, la mia famiglia era distrutta. Sinceramente non pensavo se sarei riuscita, con la mia laurea in Arte, a diventare un’artista, a vendere i miei dipinti, se avrei avuto successo o meno, non mi importava. Dovevo mantenermi e dovevo farcela, questa era la mia unica preoccupazione. Tanto che ci ho messo dieci anni per laurearmi, proprio perché non avevo il minimo necessario per poter finire il mio percorso universitario in tempo.

Azmina: Quando sei riuscita a vivere della tua arte?
Panmela: Nel 2011 ci sono finalmente riuscita. Ora sono totalmente indipendente e mi mantengo esclusivamente con ciò che deriva dalla mia attività di visual artist. Nonostante la crisi, spero di riuscirci anche quest’anno, senza dover fare altri lavoretti.

Fonte
Magazine: Revista Azmina
Articolo: “Às vezes a mulher está com um nó engasgado na garganta e ninguém quer escutá-la”
Autrice: Letícia Ferreira
Data: 09 giugno 2020
Traduzione a cura di: Bruna A. Paroni
Immagine di copertina: Revista Azmina
Immagine in anteprima: Panmela Castro

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