Articolo di Davide Manfredo
Spesso mi capita di passare in libreria per comprare soltanto un libro in particolare e di ripetermi: “Non questa volta, Davide. Contieniti, non esagerare! Prendi il libro che ti serve, non guardare in giro, vai alla cassa ed esci senza spendere cifre improbabili”, ma poi mi ritrovo a vagare tra gli scaffali per delle ore intere, in attesa che qualcosa colpisca la mia curiosità. E puntualmente esco dal negozio con una borsa piena e pesante, più povero ma sorridente.
È successo proprio così per La donna di Einstein, scritto da Marie Benedict.
Non conoscevo l’autrice, e non appena ho letto il titolo tra lo scaffale delle “novità” mi sono innervosito ed ho pensato: “Ma non ha un nome questa benedetta donna di Einstein per essere definita come proprietà di qualcun altro? Anche se nessuno ne parla avrà pur fatto qualcosa, per aver spinto qualcuno a scriverci un libro”. Ho guardato la copertina, poi la quarta di copertina, e non ho fatto altro che trovare riferimenti ed elogi soltanto al genio di Albert Einstein, e nessun commento aggiuntivo su quella che avrebbe dovuto essere la protagonista del romanzo, così, ormai arrabbiato, ho deciso di comprare il libro per poter liberamente criticarne il contenuto, oltre che il titolo e la copertina.
Ho iniziato quindi la lettura pieno di aspettative: avevo davvero voglia di sapere che tipo fosse la donna di Einstein, soprattutto perché nel giro di pochi giorni avrei avuto l’esame di Meccanica Razionale, e lì di Einstein se ne parla eccome.
La storia inizia nel migliore dei modi. Finalmente scopro il nome della protagonista, Mileva Marić, una brillante ragazza serba con una piccola malformazione all’anca, che decide, alla fine del XIX secolo, di iscriversi al prestigioso Politecnico di Zurigo, dove sarà la quinta studentessa della storia a frequentare il corso di laurea in Fisica. Trasferitasi nella città svizzera, Mileva si dimostra una studentessa eccellente. È capace, intelligente e determinata, possiede doti matematiche superiori alla maggior parte dei suoi compagni di corso (tutti uomini), e non si lascia intimorire né dalle battute razziste e sessiste che le vengono rivolte dai suoi professori, né dalle occhiatacce di quelle persone che credono che l’università non sia il posto per una donna.
Mileva stringe una forte amicizia con le altre tre ragazze con cui abita, studentesse anch’esse, e comincia ad incuriosirsi nei confronti di un suo compagno di corso in particolare, sempre spettinato ed un po’ eccentrico, destinato a diventare uno degli uomini di scienza più famosi della storia: Albert Einstein.
I due cominciano a frequentarsi e il loro sentimento cresce.
A questo punto mi sono sentito soddisfatto e mi sono detto che ho fatto bene a comprare il libro, soprattutto vista la prima impressione che era stata decisamente negativa.
Ma la storia prende una svolta decisiva. In seguito ad alcuni avvenimenti, il rapporto tra i due cambia: lo spirito bohémien che li aveva avvolti i primi anni di università sembra svanito, ed Einstein veste sempre più l’abito del marito insensibile, egoista e immancabilmente pronto a ricordare alla moglie quale sia il suo compito in casa. Tra i due è dunque Mileva quella che deve rinunciare ai propri sogni ed alle proprie ambizioni, anche spinta dalla madre, che non perde occasione di ricordarle che, per il bene della famiglia e dei figli, la moglie deve rinunciare ai propri desideri, assecondando quelli del marito.
Mileva, uno spirito tanto indipendente, si ritrova presto prigioniera di una vita che non le appartiene, e che è distante anni luce dal futuro che si era immaginata quando era ancora una brillante studentessa di Fisica. Nonostante abbia passato gli anni della propria adolescenza a sognare una carriera in ambito scientifico, la protagonista si lascia trasportare passivamente dallo scorrere degli eventi, e si ritrova vittima di un marito prepotente che considera il proprio bene decisamente più importante di quello della moglie, e che sfrutta la spiccata bravura matematica della moglie per le proprie ricerche, senza però mai riconoscerne pubblicamente i meriti.
Diciamo che se state cercando un libro per cui arrabbiarvi, l’avete trovato. Senza dover raccontare tutta la storia, posso anticipare che il racconto non finisce così male come ci si aspetterebbe, eppure mi ha lasciato un sentimento di disagio non indifferente, senza contare quel pizzico d’invidia e quella vagonata di ammirazione che ho sempre provato per chi ha fatto la scienza apportandovi un contributo eccezionale.
Vale dunque la pena leggere un libro del genere? Certo, proprio perché fa arrabbiare. Questo è un ottimo mezzo per chiedersi come mai si provino certe emozioni, ed inevitabilmente si pensa un po’ di più alla realtà.
Come direbbe Chimamanda Ngozi Adichie: «Noi tutti dovremmo essere arrabbiati. La rabbia ha una lunga storia nell’apportare un cambiamento positivo».
In primo luogo, perché sembra ancora così strano che una donna possa essere brava e capace tanto quanto il proprio geniale marito? Forse perché, nonostante le università scientifiche non siano più un ambiente esclusivamente maschile, alle ragazze, seppur in modo indiretto, ancora oggi viene insegnato che forse non è il caso di pensare troppo in grande, anche se si dimostrano brave tanto quanto i propri compagni di corso.
E come mai è ancora così naturale per le madri accantonare i desideri e le ambizioni che le hanno fatte sognare da ragazze, una volta che si sono “sistemate” e hanno “messo su famiglia”? E soprattutto, perché spesso si ritrovano a dover rinunciare ai propri sogni per favorire quelli di un marito o di un compagno di vita, che molto spesso dà già per scontato che questo accada? Perché viene detto loro che è naturale farlo, e che non dovrebbero prendersela poi così tanto se questo accade?
Sono domande che non ammettono risposte avventate e banali, ma mi sento di dire che la prima cosa che si può fare è leggere il libro, arrabbiarsi e poi tornare a studiare e lavorare ancora più determinat* e accanit* di prima.