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La mia casa è dove sono: storie di nazioni, narrazioni e identità
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La mia casa è dove sono: storie di nazioni, narrazioni e identità

La mia casa è dove sono: storie di nazioni, narrazioni e identità

«Ogni festival di letteratura a cui ho partecipato parla di identità, ma ogni scrittore che conosco non vuole avere un’identità, siamo animati da sentimenti opposti. Lo scopo della mia letteratura è dimostrare quanto l’identità sia fragile. Gli elementi che riteniamo portanti nella nostra vita, come essere italiano o francese, sono tutti contingenti. Penso che la buona scrittura possa ricordarci questa causalità. Non significa che queste cose non siano importanti, è bello essere italiano o francese, ma non è qualcosa di naturale, sono incidenti di nascita. Esserne consapevoli può renderti meno incline a uccidere qualcuno per questioni di nazionalità».

Queste sono le parole pronunciate nel corso di un’intervista da Zadie Smith, scrittrice contemporanea, figlia di madre giamaicana e padre inglese. Smith offre uno spunto per parlare di identità, per provare a stare nella scomoda complessità del tema. Come accade per molte altre colleghe nere, l’esperienza che l’autrice fa di donna razzializzata nel corso della vita costituisce un nodo centrale della propria produzione letteraria. Eppure, è proprio da questi nodi che le stesse protagoniste cercano di divincolarsi, di liberarsi non tanto per negarne l’esistenza, quanto per l’esigenza di affermare altro dall’identità, altro da un elemento così contingente.
È purtroppo necessario, fondamentale, premettere che non tutte le identità hanno goduto e godono di pari diritti; che il colore della pelle, ancora una volta purtroppo, conta e diventa quotidianamente oggetto di discriminazione e violenza. Da questo punto di osservazione della realtà, sempre univoco e personale, nascono l’apertura verso la letteratura e la volontà di raccontare non solo, ma anche, la propria condizione. In questo senso, se è vero che le etichette servono ed aiutano a offrire la più vasta gamma di rappresentazioni, visibilità, a sentirsi compresə, quella di letteratura migrante porta con sé una serie di punti critici. Questo termine ha sì consentito ad autorə che appartengono al genere di emergere, ma si è poi rivoltato loro contro, trasformandosi in una gabbia ed esponendo al rischio di ghettizzare il fenomeno, relegandolo più che altro ad un sottogenere letterario.

Per tentare di avere un quadro più chiaro e geograficamente vicino, è interessante analizzare il fenomeno italiano. Terra di emigranti per oltre un secolo, da qualche decennio l’Italia rappresenta una terra d’immigrazione. Negli anni Settanta ə primə migranti corrispondevano a poche centinaia tra somalə, eritreə ed etiopi, provenienti dalle ex colonie italiane; negli anni Ottanta si raggiunge qualche migliaio di persone, con l’arrivo di marocchinə, filippinə e senegalesi. All’interno di questo impervio terreno sociale nascono i cosiddetti scrittorə migranti, che utilizzano la lingua del paese in cui si sono spostati, l’italiano, per esprimersi e farne un ponte comunicativo. Sono gli anni della critica femminista post-coloniale, che condanna la tendenza del femminismo bianco a considerare le donne con pelle scura come altre e invece le donne occidentali come soggetto normativo. L’autrice americana Adrienne Rich, ad esempio, riflette sul fatto che, sebbene sia stata emarginata come donna, abbia sicuramente a sua volta emarginato altre persone in quanto produttrice di una teoria bianca e occidentale: è stato attraverso la lettura di opere di cittadine nere statunitensi che Rich ritiene di aver iniziato a comprendere il proprio posizionamento, partendo dal colore della propria pelle e sentendosi responsabile di tale condizione.

Questa prima fase letteraria definita “autobiografica” si sviluppa fino agli anni Novanta del Novecento; in questo contesto nasce una “letteratura del doppio”, una dicotomia fra accettazione e rifiuto della cultura d’appartenenza e della nuova società ospitante, che genera da una parte la volontà di integrarsi e dall’altra di differenziarsi da quest’ultima. Ma cosa significa essere unə scrittorə migrante? L’autrice Christina de Caldas Brito lo racchiude in queste parole:

«Scrivere “migrante” significa riordinare, attraverso la scrittura, una vita che sembrava dover scorrere fra le pareti domestiche della patria e che, invece, ha subito una deviazione e si è trasferita altrove. La letteratura della migrazione comincia qui: nel racconto scritto delle esperienze e delle emozioni presenti nell’atto del migrare e dello stabilirsi in un paese diverso. Significa dare un senso alla partenza e dare un senso all’arrivo».

Brito ribadisce l’imminente pericolo, in ambito letterario e non solo, di rimanere confinati al tema della migrazione e che così facendo i media utilizzino nei confronti di scrittorə migranti proprio quelle etichette che ne limitano la produzione. In effetti, gli anni Novanta vedono emergere una seconda fase di crisi rispetto a questo tipo di narrazione: l’esotismo migratorio ha perso di efficacia e ə autorə devono cercare strade diverse. Prima all’estero e successivamente in Italia, nasce così un nuovo modo di fare letteratura, che chi scrive assume come privilegiato mezzo per articolare fra di loro gli individui, aprendo nuove strade al processo narrativo di creazione delle storie. Dunque, ha inizio una nuova stagione ancorata agli elementi culturali del paese di provenienza che vengono così valorizzati, non più celati.
La stucchevole retorica della ricerca di radici viene man mano decostruita attraverso le narrazioni nel nuovo millennio. I confini geopolitici dell’identità si sono fatti progressivamente più labili e le autrici figlie di queste culture ibride, rifugiandosi nella scrittura, creano un terzo mondo, un “terzo spazio”, come suggerisce lo scrittore indiano-inglese Homi Bhabha.

Anche dal punto di vista linguistico assistiamo a continue contaminazioni; nelle opere si trova una pluralità di voci, che sondano nel profondo l’origine e gli effetti del colonialismo. La lingua viene reinventata per tentare di superare quell’indicibile contrapposizione fra colonizzatorə e colonizzatə, per «rivendicare il proprio esserci attraverso le lingue, le culture, le nazioni».
Il concetto stesso di casa assume così un significato più ampio e fluido, come il concetto di identità; non si tratta, e non si è mai trattato, di punti di approdo fissi e ben delineati, ma anzi di processi in costante divenire per cui si potrebbe parlare di dis-identificazione, di distacco dalla granitica concezione di identità standard.
In questo senso risulta emblematico il titolo di un’opera dell’autrice Igiaba Scego: La mia casa è dove sono. Indagando le origini somale della sua famiglia e la propria identità di persona razzializzata, Scego racconta anche la mancata consapevolezza deə italianə nei confronti della loro Storia; nel secondo dopoguerra sono state spese pochissime energie per documentare il passato coloniale attivo dell’Italia e per aprire un dibattito politico intorno alle ex colonie. Facendo riferimento ad una raccolta letteraria a quattro voci di Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiayi Kakese, Igiaba Scego e Laila Wadia, Pecore nere, la stessa Scego ribadisce fortemente il concetto:

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«L’Italia si era dimenticata del suo passato coloniale. Aveva dimenticato di aver fatto subire l’inferno ai somali, eritrei, libici ed etiopi. Aveva cancellato quella storia con un facile colpo di spugna. […] Gli italiani hanno stuprato, ucciso, sbeffeggiato, inquinato, depredato, umiliato i popoli con cui sono venuti in contatto. Hanno fatto come gli inglesi, i francesi, i belgi, i tedeschi, gli americani, gli spagnoli, i portoghesi. Ma in molti di questi paesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale c’è stata una discussione, ci si è accapigliati, gli scambi di vedute sono stati aspri e impetuosi; […] in Italia invece silenzio. Come se nulla fosse stato».

In questo senso più che mai è necessario ripartire dalla cultura: al privilegio di chi non conosce il significato del razzismo, perché non ha dovuto subirlo sulla propria pelle, deve seguire una presa di coscienza, che faccia davvero i conti con la propria Storia.

«L’Italia stava dappertutto nei nomi delle vie, nei volti dei meticci rifiutati. E l’Italia non ne sapeva niente, non sapeva delle nostre vie con i suoi nomi, dei nostri meticci con il suo sangue. In Italia alcuni nomi hanno i nomi dell’Africa. A Roma addirittura c’è il quartiere africano. In viale Libia, ti dice qualche romano, ci sono bei negozi di abbigliamento, ci puoi fare qualche buon affare. Ma poi? Poi niente. Vanno in viale Libia a comprarsi un maglione. Vivono in via Migiurtinia o si baciano in viale Somalia. Però ignorano la storia coloniale. Non è colpa loro: a scuola mica le impari queste cose. Siamo stati bravi, ti dicono, abbiamo fatto i ponti o le fontane. Il resto lo si ignora, perché non lo si insegna».

Bibliografia:
Z. Smith, A lezione di libertà, intervista di J. Zanchini per “Internazionale”, maggio 2019, pp. 12-13.
A. Rich, Notes towards a Politics of Location, in Blood, Bread, and Poetry: Selected Prose, Norton, New York, 1979-1985.
C. de Caldas Brito, L’apporto degli scrittori migranti nella letteratura e nella società italiana in R. Sangiorgi Gli scrittori della migrazione, Centro di Educazione Interculturale, Mantova, 1990, p. 12.
H. Bhabha, Nation and Narration, Routledge, London, 1990; trad. it. Nazione e narrazione, Meltemi, Roma, 1997.
A. Landolfi, Identità ibride in contesti interculturali post-migratori e postcoloniali in Italia e in Francia: percorsi transdisciplinari, www.academia.edu.
I. Scego, La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano, 2010.
Immagine cover sito (collage) – Mappamondo Foto di Kyle Glenn su Unsplash + Foto di Ketut Subiyanto (donna che scrive) (pexels) https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-
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Immagine sito verticale (libri) – Foto di Jaredd Craig su Unsplash
Immagine sito verticale (mani che scrivono) – Foto di Barbara Olsen (pexels)
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