Ripercorrere a grandi linee la storia delle donne, pur non permettendo di fissare precisamente il momento in cui nacque la divisione dei ruoli sessuali, è un ottimo modo per mettere in luce quanto sia stato effettivamente realizzato dal “secondo sesso” in epoche passate e in che modo questa divisione sia stata col tempo codificata.
Un momento vitale nella storia dell’umanità è stato il passaggio dal Paleolitico al Neolitico, che in Asia coincise grossomodo a quando si passò, tra il 12000 e il 6000 A.C, dalla vita nomade a quella stanziale grazie alla scoperta dell’agricoltura. Prima di allora la tradizione ci ha fatto credere che l’uomo vivesse cacciando selvaggina e la donna andasse in giro a raccogliere frutti e bacche, senz’altro utili per una alimentazione più varia. Come vivessero queste società prima del Paleolitico è cosa ancora oggi molto discussa. I sostenitori dell’esistenza di un matriarcato in epoca neolitica considerano la coltivazione dei campi e la creazione di piccoli villaggi il primo momento di cambiamento nel rapporto uomo-donna e la nascita di una supremazia femminile: continuando a pensare che l’uomo partecipasse soprattutto a battute di caccia e la donna si dedicasse all’agricoltura, ciò avrebbe elevato lei a principale fonte di sostentamento, considerando la quantità di esperienza e abilità che, rispetto agli uomini, era riuscita ad acquisire rimanendo nei villaggi e dedicandosi alla terra. É in questo momento che anche le istituzioni sociali e religiose «avrebbero registrato un cambiamento, segnato da una tendenza a trasformarsi in senso matriarcale: al centro della religione vennero a collocarsi riti di fecondità […]: quegli stessi riti che sembrano attestati, nella mitologia greca, dalle unioni tra Zeus ed Era e tra Demetra e Giasone, e di cui resta traccia, in età classica, nei misteri eleusini» (E. Cantarella, 2010). Consci della vitale importanza della lavorazione del suolo, si sarebbe giunti ad un momento in cui anche gli uomini avrebbero iniziato a lavorare la terra, affiancandosi alle donne; nuove tecniche avrebbero portato ad una maggiore produzione che avrebbe dato vita al commercio, che a sua volta avrebbe determinato la necessità di costruire opere di difesa dei villaggi, esposti costantemente alle razzie delle popolazioni nomadi. Era quindi necessario che le situazioni di conflitto venissero risolte attraverso la guerra, che richiedeva un capo fisicamente forte: un capo maschio. Coloro che orbitavano intorno al capo militare godevano di molti privilegi e di conseguenza la democrazia che caratterizzava i villaggi neolitici protoagricoli matriarcali «cedette il passo ad una società disuguale, in cui le donne, gradualmente ma inevitabilmente, persero il loro potere» (E. Cantarella, 2010). I sostenitori dell’esistenza di società matriarcali hanno poi appoggiato nel tempo la loro tesi sulla presenza di miti in cui le donne avrebbero avuto posizioni di potere politico, sociale ed economico: le Amazzoni e le Lemnie.
Le Amazzoni, che generavano figli senza unirsi in matrimonio, erano guerriere presso le quali gli uomini erano accettati esclusivamente come schiavi, e uccidevano (o accecavano) i figli nel caso fossero stati maschi. Alle ragazzine, invece, veniva amputato il seno per poter maneggiare con più agilità lance ed archi: da qui Amazzoni (α-μαζος), cioè senza seno. Le Lemnie, al contrario delle Amazzoni, avevano dei mariti, ma a seguito di un’offesa nei confronti della dea Afrodite erano state punite con un puzzo maleodorante. In seguito al tradimento degli uomini dell’isola, le donne di Lemno avrebbero ucciso tutti i maschi e costituito una comunità di sole donne guidata da Ipsifile. Entrambi i miti raccontano di società che di matriarcale però hanno ben poco, in quanto il potere femminile governa un gruppo composto da solo uno dei due sessi. Il mito delle Amazzoni, in particolare, «è stato letto come la rappresentazione mostruosa, fatta dai greci, di un mondo barbaro e selvaggio, opposto alla “cultura”: non a caso – dunque – composto da sole donne» (E. Cantarella, 2010).
Nel Mediterraneo, prima che sopraggiungessero le popolazioni elladiche, esisteva il culto di una divinità femminile che a Creta è presentata al fianco di due animali rampanti, due serpenti nelle mani sollevate o su di una imbarcazione sacra. Una Potnia (Signora) onnipotente, Grande Madre generatrice, il cui sposo, il paredro, risulterebbe una figura totalmente passiva e secondaria, il cui unico scopo è quello di soddisfare i desideri sessuali della Signora. L’esistenza di una divinità così importante nel mondo cretese non impone necessariamente una religione monoteista, ed infatti molti sono gli studiosi che credono che la Potnia fosse affiancata da divinità maschili. Ciò nonostante, Creta fu un faro per la libertà femminile: nella società minoica le donne avevano accesso alla carica di sacerdotesse, partecipavano a spettacoli e cacce, e nei palazzi la parte a loro designata non era separata dalla altre zone, come invece avverrà nelle abitazioni greche.
Grazie al lavoro di Michael Ventris, che nel 1952 ha decifrato quella che a tutti gli effetti è una forma di scrittura che veicola una lingua greca, la lineare B, abbiamo molte informazioni, documenti e dati archeologici per comprendere quanto sarà diversa la situazione, anche nella stessa Creta, a partire dal XV a.C. circa, cioè con l’arrivo delle popolazioni micenee. Nonostante la partecipazione delle donne fosse comunque corposa, i resti architettonici, ad esempio, segnalano come da questo momento le abitazioni femminili inizino ad essere separate dal resto del palazzo. Le tavolette in argilla utilizzate per scrivere evidenziano l’esistenza di lavoratrici salariate, ma contemporaneamente sottolineano la presenza di lavori ad esclusivo appannaggio maschile o femminile: gli uomini mantengono il posto di comando, guidano le donne nei loro mestieri e si dedicano principalmente a pastorizia e artigianato; il lavoro delle donne è concentrato nella lavorazione e distribuzione dei cereali e nella tessitura. L’esclusione delle donne nel sistema di concessioni della terra, un’organizzazione fortemente militare della società, ed il ridimensionamento delle divinità femminili palesano un quadro molto diverso rispetto all’emancipazione e alla libertà femminile conquistata in epoca minoica.
Per la ricostruzione di alcune epoche storiche (in particolare i secoli bui della Dark Age) dobbiamo usufruire di due opere che, pur non essendo propriamente storiografiche, sono a tutti gli effetti un documento storico della Grecia preletteraria: l’Iliade e l’Odissea di Omero. Sebbene difficile in questo contesto riassumere quella che è la “questione omerica” – se si sia trattato di uno o più autori – l’Iliade e l’Odissea raccolgono una serie di preziose informazioni storiche che, stratificate nel tempo, ci fanno conoscere elementi della cultura micenea, del Medioevo Ellenico e, infine, del periodo in cui furono messe per iscritto: il IX a.C. per l’Iliade e l’VIII a.C. per l’Odissea. Pertanto la condizione della donna raccontata nelle due opere è quella dei secoli che vanno dalla fine dei Palazzi Micenei all’VIII a.C. Sono in molti a ritenere che durante questo periodo la donna vivesse in totale autonomia e libertà, e che addirittura esistessero comunità con matrimonio matrilocale e discendenza matrilineare. Nonostante ciò, una delle caratteristiche su cui Omero si sofferma maggiormente è la (stereotipata) bellezza: una donna doveva essere bella, occuparsi del suo aspetto fisico e dell’abbigliamento. La regola principe era l’obbedienza e, sebbene ad Elena fosse tutto perdonato grazie alla sua “divina bellezza”, alle donne veniva richiesto soprattutto di dedicarsi ed eccellere nei lavori domestici. Andromaca, da molti elevata a simbolo di emancipazione femminile, in realtà «non è meno sottomessa al marito di quanto Penelope sia sottomessa al figlio in assenza di Ulisse» giacché «il posto di Andromaca è pur sempre la casa, il suo lavoro è solo quello domestico, ed è disdicevole che ella si azzardi, semplicemente, a pensare a cose riservate agli uomini, come la guerra» (E. Cantarella, 2010). Un modello di donna passiva, «subalterna, vittima di un’ideologia inesorabilmente misogina», tanto che Ulisse, tornato da Itaca, dice:
… con la donna non esser mai dolce,
non confidare ogni parola che sai,
ma dì una cosa, e lascia un’altra nascosta
L’unica figura femminile che è raccontata diversamente è Atena, la dea nata dalla testa di Zeus, la dea che si interessa di “affari maschili”, la dea che riesce ad influire sugli uomini ma che, in quanto dea, non è una vera donna.
Come gli uomini, anche le donne piangono molto durante i poemi omerici, ma sono lacrime diverse: non sono lacrime che manifestano un carattere forte, violento ed energico come quelle maschili; i loro sono «lunghi singhiozzi che consumano, gemiti e lamenti inutili, che non portano a nulla.» (E. Cantarella, 2010)
Ma, di preciso, cos’è una Dea? Sempre in Omero ricorre la frase «sòi philtàte theòn»: per te, fra gli dei, la più cara. Qui sorge spesso un dubbio interpretativo. Omero dispone del genitivo femminile theàon per indicare il gruppo esclusivamente femminile degli dei, ma quando viene usato theòn non possiamo con certezza indicare se si tratti di tutti gli dei o solo di una parte. Di qui “dea” è grammaticalmente il femminile della parola dio, dove l’elemento femminile risalta e ha carattere essenziale perché 1) o avvicina le dee alle donne mortali o 2) l’elemento della femminilità è ancora più esasperato. Quando, in greco antico, si parla di una dea al singolare ci sono due modi diversi ma ugualmente corretti per indicarla: theà, femminile di theòs, o usando la forma maschile preceduta dall’articolo femminile. He theòs andrà quindi ad indicare il divino marchiato da un chiaro segno femminile.
Nei vari monoteismi, la questione del genere di dio (He/She-God) è stata risolta utilizzando il maschile e quindi le dee sembrano esistere solo in rapporto ai politeismi. Ma per gli stoici il problema non sussiste, trattandosi di una questione mal posta: Zeus è il tutto, di conseguenza esistono solamente divinità segnate nel nome da un genere grammaticale maschile o femminile. Il dio degli stoici è unico, ed il suo nome cambia a seconda delle azioni che compie: sarà maschile se descritto in azione, femminile se resterà passivo. Nella Grecia del periodo classico, pur continuando ad esistere delle dee, la formula utilizzata sarà sempre il maschile: tò thèion, al neutro, è “la cosa divina”; mentre dio è theòs, al maschile.
Le dee femminili del mondo greco, come sottolinea Paul Friedrich, vengono letteralmente ridotte ad una sola ed unica caratteristica ed il prisma che le compone assume all’improvviso una sola faccia: Afrodite, ad esempio, è l’amore. Attraverso questo processo perde valore qualsiasi altra azione che non rientri nel campo specifico della dea. Considerando il corpus divino come unico, “il dio prevale nella dea”, giacché le caratteristiche femminili non prevalgono sullo statuto divino ma lo accompagnano, ne compongono la cornice.
Singolare è sicuramente la figura di Pandora, tradizionalmente definita come la prima donna creata da Efesto su ordine di Zeus. Pandora è una vergine, ha solo «le forme delle dee immortali” ma è una donna mortale, ed è il primo essere femminile della società civilizzata che «prefigura una certa ripartizione dei ruoli maschile e femminile […] molto diversa da quella che troviamo presso gli dei» come dice Rudhardt. È la donna-disastro inviata sulla terra per punire gli uomini per l’azione di Prometeo, che ha rubato il fuoco degli dei; la donna che libera dal suo vaso tutti i mali del mondo e vi lascia rinchiusa solo la speranza.
Sicuramente da sottolineare, nel pantheon delle divinità minori, il gusto dei greci per i plurali collettivi, che ricorrono quasi sempre nel caso di divinità femminili: le Moire, le Chere, le Nereidi, le Oceanidi, le Erinni… un gusto che consiste nel generalizzare la razza delle dee.
Gea, la terra, è un’altra divinità sempre grammaticalmente indicata con il femminile tanto che Platone, con un’espressione divenuta famosa, dice che «la donna imita la terra». Gea è la Grande Dea, Terra-Madre personificata, che è tutto in quanto a tutto ha dato origine, tanto importante da essere venerata in moltissime culture antiche. Più di qualunque altra divinità, Gea simboleggia il femminile, essendo contemporaneamente una metafora della madre ed una riduzione della donna al suo utero.
È dunque possibile mettere al vertice del pantheon una divinità femminile? Una She-God che prevalga sull’He-God? Possibile, certo, ma in relazione alle diverse interpretazioni. Gea in molti casi resiste solo come fantasma: c’è ed è amato dai sostenitori di un matriarcato, ma distrutto da coloro che seguono il pensiero di Freud, che dice che il patriarcato trionfante inventò le dee-madri “come risarcimento” verso il genere femminile. «Freud suggerisce che, se le Madri sono sempre respinte dalle loro pretese al potere, assegnare loro un qualsiasi potere al principio finisce con il rinnovare un presente in cui esse ne hanno poco o niente» (G. Duby e M. Perrot, 1990). La Grande Madre è senza dubbio un archetipo: un’immagine immutabile, “il nome di ciò che regna al di là dei nomi”. Archetipo che diventa esclusivamente femminile in quanto legato ad uno solo dei due sessi, simboleggiando il rischio di impersonalità e deumanizzazione in cui cade la donna.
Per approfondire:
CANTARELLA E., L’ambiguo malanno, Milano, 2010
LORAUX N., Che cos’è una dea?, in Duby G. – Perrot M. (a cura di), Storia delle donne – L’antichità, Bari, 1990, pp. 13-50