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La Parigi femminista di Serena Dandini
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La Parigi femminista di Serena Dandini

Articolo di Carlo Marconi

J’aime Paris au mois de mai amava cantare Charles Aznavour.

Eppure, per chi non sapesse resistere alla tentazione di aspettare la primavera (che non sta arrivando), esiste un modo per rimediare. Quello di immergersi al più presto nella lettura di “Avremo sempre Parigi”, l’ultimo libro di Serena Dandini, che con una scrittura di rara godibilità ci conduce per mano da un capo all’altro della capitale francese in un fluire continuo di “passeggiate sentimentali in disordine alfabetico”.

Molto più che semplici appunti di viaggio, queste pagine, che si presentano come un vero e proprio dizionario da sfogliare lettera per lettera, sono in realtà le annotazioni di una flâneuse di professione, una viaggiatrice che ci porta alla scoperta di una Parigi inaspettata, fatta di storie e personaggi indimenticabili, di donne indimenticabili. Perché se molti sono gli uomini la cui fama è indissolubilmente legata al nome della capitale francese, altrettante sono le donne dimenticate. Diciamo pure una per ogni arrondissment.

È così che veniamo a conoscenza di Rosa Bonheur, pittrice che nella seconda metà dell’Ottocento si distingue per la sua straordinaria abilità oltre che per la sua spiccata tendenza… ad indossare i pantaloni!

Io porto i pantaloni e trovo questo indumento assolutamente naturale. Il creatore ha dato a tutti due gambe e non capisco perché le donne non possano muoversi comodamente e a loro agio.”

Queste le parole della Bonheur che, più volte ripresa per le sue stravaganti abitudini, si vide infine costretta a richiedere un permesso speciale alla Prefettura che la autorizzava a vestirsi da uomo per ragioni di salute, senza per questo sentirsi autorizzata a partecipare ad eventi pubblici con tali indumenti indosso. È ancora lontano il diritto ad autodefinirsi, quasi quanto il giorno in cui Elsa Schiaparelli aprirà la sua boutique di abiti eccentrici, ingaggiando una lotta aperta contro il conformismo del vestiario femminile (e contro l’acerrima nemica Coco Chanel).

Donne che si fanno strada a colpi di sartoria, in cui la guerra contro il bigottismo si combatte con eleganza, indossando con disinvoltura un paio di pantaloni o sfoderando un cappello a forma di scarpa. Donne che non si fermano neppure di fronte al terrore della guerra.

Come Sylvia Beach, giovane americana in visita a Parigi che, rimasta stregata dal fascino della città, decide di rimanervi fondando nel 1919 la libreria “Shakespeare & company”, punto di riferimento di scrittori in erba e ancora oggi meta di nostalgici pellegrinaggi letterari. La Beach, oltre che premurosa libraia, diventa ben presto mecenate degli intellettuali americani di soggiorno nella capitale arrivando a pubblicare a proprie spese il manoscritto di un certo James Joyce intitolato “Ulysses”. Peccato che poi la Storia si sia dimenticata di ringraziare la Beach, come pare abbia fatto anche Joyce, che in seguito vendette i diritti d’autore ad un’altra casa editrice senza preoccuparsi di riconoscerle alcun rimborso per l’incomodo. Ma la nostra eroina non si scoraggia e continua inalterata la propria attività fino a che non scoppia la seconda Guerra Mondiale e le truppe naziste le fanno visita sul posto di lavoro, intimandole di vendere loro un libro.

Sylvia Beach si rifiuta di farlo. Intuendo la gravità del proprio gesto, in seguito chiama a raccolta amici e conoscenti perché la aiutino a trasferire i libri in un posto sicuro cosicché il giorno successivo, quando il soldato tedesco fa ritorno, la libreria appare completamente deserta. La Bleach viene quindi arrestata e detenuta per qualche tempo fino a che non viene liberata ed infine, quando ormai la guerra non è che un terribile ricordo, acconsente a cedere la storica libreria ad un giovane connazionale, entusiasta di riportare in vita il mito.

È un affresco caleidoscopico quello che dipinge la Dandini, un gioco di specchi che mette in luce ancora una volta – se mai ve ne fosse bisogno – le innumerevoli sfaccettature dell’animo femminile. Sì perché accanto alla mite Berthe Morisot, pittrice impressionista che per tutta la vita amò il collega Edouard Manet di un amore rispettoso – poiché questi era già sposato -, c’è poi l’universo delle grandes horizontales, raffinata versione delle odierne escort che contribuirono a disegnare l’immagine della donna padrona del proprio corpo e della propria sessualità.

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La Marchesa di Païva, che trascorse tutta la vita in un continuo alternarsi di balli, mariti e proprietà intestate, non si distinse certamente per il proprio spessore morale né per la propria etica.

Ciò nonostante è anche a lei che si deve in qualche modo un’emancipazione femminile da quel ruolo di angelo del focolare a cui sempre la donna era stata relegata.

Eternamente condannata a doversi identificare nel ruolo della santa o della prostituta, essa può ora scegliere l’alternativa offerta dalle grandes horizontales: quella di disporre liberamente del proprio corpo senza per questo perdere di dignità.

Questa la lezione più grande che sembrano dirci queste storie. Che le battaglie sono state molte e altrettanti i modi con cui sono state portate avanti, ognuno legittimo quanto gli altri.

E così parlare di Parigi diventa un pretesto per parlare delle donne e di quanto possano essere meravigliosamente indomite quando inseguono un’idea.

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